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P. Handke, Infelicità senza desideri

Peter Handke, in fondo all’anima

di Antonio Stanca

   Infelicità senza desideri è un romanzo dello scrittore austriaco Peter Handke. Risale al 1972 e di recente ha avuto una nuova edizione per conto di Guanda Editore nella serie “Narratori della Fenice”. La traduzione è di Bruna Bianchi.

   Handke è nato a Griffen, Carinzia, nel 1942. Nel 2019, quando aveva settantasette anni, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura dopo che altri riconoscimenti gli erano stati attribuiti. Ora ha ottantadue anni e molto ha fatto durante la lunga carriera di autore. Aveva cominciato giovanissimo, intorno agli anni ’60, e suo primo interesse era stato il teatro, era venuta poi la narrativa, quindi la poesia, la saggistica, la diaristica ed infine la sceneggiatura e la regia. Contrario, ribelle a quanto giungeva dalla tradizione si era mostrato all’inizio sia come drammaturgo sia come scrittore e poeta. Soprattutto riguardo ai modi espressivi, al linguaggio, ci aveva tenuto a sperimentare nuove forme, aveva rinunciato a quelle convenzionali convinto che non erano adatte ad esprimere la profonda interiorità, la segreta intimità dell’animo umano. Altri mezzi, altri sistemi servivano per verità tanto insolite, tanto fuori dal comune. Era giunto a pensare, Handke, che le parole non fossero sufficienti a tale scopo e che più adatti fossero i suoni, i colori, le immagini, le visioni. Da qui il suo amore per il cinema. Sarebbe stato il regista delle riduzioni cinematografiche di alcuni suoi romanzi.

   Col tempo, però, ridurrà questo atteggiamento polemico nei riguardi della tradizione culturale, letteraria o altra, e accetterà, anche se non completamente, quanto da essa proveniva. Il suo spirito, tuttavia, rimarrà inquieto, ribelle. Convinto, ad esempio, sarà sempre che a far sapere dei problemi dell’anima, dei travagli dello spirito nessuno può riuscire meglio di chi li patisce. Da qui la maniera, propria di questo autore, di fare dei personaggi, degli interpreti dei suoi romanzi, del suo teatro, del suo cinema, gli osservatori, i giudici di sé stessi. Sono loro a rivelare, confessare, valutare quanto avviene al loro interno, i propri pensieri, i propri sentimenti, e modo migliore per farli conoscere a chi legge un libro o assiste ad uno spettacolo non sembra possibile all’Handke. Secondo lui è il più autentico, il più convincente e famosi sono diventati così i personaggi di tante sue opere. Possono essere uomini o donne, quel che conta è la pena venuta loro dalla vita, il pericolo nel quale sono andati a finire, i rischi che stanno correndo, l’inutilità dei rimedi. Dei loro drammi vuole far sapere Handke e in un modo quanto mai aderente a quel che è successo o sta succedendo. Così sarà pure in Infelicità senza desideridove la situazione è autobiografica. Quando aveva ventinove anni, nel 1971, Handke aveva perso la madre perché morta suicida. Era rimasto così sconvolto da pensare subito di scrivere dell’accaduto, di ricavarne una narrazione. Lo farà con quest’opera dell’anno successivo, ricostruirà per intero la vita della madre dalle origini, nella Carinzia slovena, alla fine. Comincerà da quando era bambina e finirà quando era diventata madre di quattro figli, dei quali uno alcolizzato come il padre che era in sanatorio, quando aveva cinquantuno anni e continui problemi economici, quando un caso disperato era ormai il suo. Come in altri casi dell’Handke autore anche lei aveva creduto molto nella vita, nella forza d’animo, nella volontà, nel successo. Era convinta che le spettassero situazioni, relazioni, persone di rilievo, lontane dalle ristrettezze, dalla povertà della sua casa. Per questo era andata in città quando era giovanissima. Si era adattata a svolgere lavori molto modesti ma non aveva smesso di nutrire le aspirazioni che le erano proprie, quelle che ora la portavano a partecipare della vita, del movimento intorno a lei, a coltivare amicizie, frequentare locali pubblici, stare in compagnia, fare tardi la sera. Era giovane, era bella, si sentiva animata, spinta dalla situazione che stava vivendo in città, dai posti, dalle persone che frequentava, dai loro discorsi, dai loro modi di fare. Era l’inizio di quella vita che voleva, che non avrebbe mai smesso di perseguire e per la quale avrebbe affrontato qualunque sacrificio considerandolo un ostacolo momentaneo, un arresto provvisorio in quello che doveva essere il suo vero percorso. Succederà, invece, che di ostacoli, di arresti se ne presentino tanti, che diventino molti, che la guastino nel corpo e nello spirito, che la portino a voler stare sola, lontana dal marito, dai figli, ad ammalarsi, a farneticare, a darsi la morte. Diventerà un altro dei tormentati personaggi di questo scrittore e come quelli la si vedrà bisognosa di confessare i suoi dolori, di farli sapere a tutti, di mostrarsi disperata per quanto non aveva ottenuto, delusa, offesa da circostanze che non aveva previsto. Sola era rimasta, spaventata, atterrita, niente aveva avuto di quanto sperato. Nessuna differenza c’era ormai tra il suo stato e quello proprio della morte. Sceglierà questo.

   Neppure come figlio Handke aveva rinunciato a fare da spettatore dei suoi personaggi. Così gli è sembrato di riuscire meglio a dire della vita, di quanto di grave vi può succedere, lo fa dire a chi la vive, fa come in quel cinema che tanto ama.

L. Lafranceschina, Dopo la vendemmia: pensieri e ricordi

Gli spazi ed i tempi della memoria di Luigi Lafranceschina, poeta (in) bitontino

di Carlo De Nitti

L’attività noetica e mnesica in tutte le sue forme è nell’essenza degli esseri umani: pensare e ricordare, ma anche – lo sottolineava già Platone (428 a. C. – 348 a. C.) – pensare è ricordare. Tutto il conoscere è ricordare, sosteneva il filosofo ateniese: il mondo primigenio a cui ogni persona attinge in tutta la sua vita i ricordi non è certo quello platonico delle idee, ma quello archetipo dell’infanzia, dell’adolescenza e dei propri vissuti.

Così Luigi Lafranceschina – stimato studioso di pedagogia, della cui bibliografia a chi scrive piace rammemorare, tra gli altri, il suo testo su don Gino Corallo (Randazzo, CT, 1911 – Roma, 2003), La Pedagogia Italiana del Secondo Dopoguerra e la Proposta Pedagogica di Don Gino Corallo, che ha visto la luce a Bitonto nel 2014, presso Cortese – ha pubblicato a Bari per i tipi delle Edizioni Dal Sud, una sua silloge poetica, intitolata Dòppe la vennégne: penzìire è arrecùrde. Dopo la vendemmia: pensieri e ricordi (pp. 317), in vernacolo bitontino e la relativa traduzione a fronte in lingua.

Felice è la scelta di Luigi Lafranceschina di “ricostruire”, nelle quattro parti che compongono la raccolta (I Arrecùrde d’attaneme – Ricordi di mio padre, II Arrecùrde de màmme – Ricordi di mia madre, III Arrecùrde de quànne jère menùnne – Ricordi della mia infanzia, IV Penzìire – Pensieri), il proprio vissuto infantile, immerso nella civiltà contadina pugliese, murgiana in particolare, dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale agli anni ’60, allorquando quel mondo premoderno, apparentemente sempre uguale a se stesso, si trasforma radicalmente, perdendo, in un certo senso, la sua “anima”. E’ stato questo anche l’insegnamento di un grande pedagogista pugliese molto caro a Lafranceschina, conosciuto e studiato all’Università di Bari, Gaetano Santomauro (Minervino Murge, BA, 1923 – Bari 1976).

La sua idea di poesia, espressa in versi, è sita al termine del volume, nell’ultimo componimento, che si riporta per intero: “Ce còse jé a la bùune la pelesòje / Na u sàcce próprie dòice! / Sàcce skìtte ca jé na còse / Ca te descetésce la nòtte a la ‘mbrevóise / E’ nan te féuce dremmóje! Nàsce jìnde a la chéupe / E’ se chiànde còme a nu cendràune / E’ nan s’appapàzza / Peffinghe ca nanm t’alze / E’ nan la sciétte fòure / E’ nam la stiénne recriéute / Sòpre a nU pìizze de càrte / Ca t’arrecàpete mméenze a re méune. / La  pelesòje jé na còse / Dòlce è améure / Te féuce chiànge è presciàje / T’accàlme è te strapàzze / Te féuce cambéue è sennéue/ / La pelesòje jé na còse / Ca te pòrte spìsse / A spàsse mbra re nùvue / E’ te spénge ngoché è vòrte / A vuéue chiù darràsse! Che cosa sia davvero la poesia / Non lo so proprio dire! / So solo che è una cosa /che ti sveglia all’improvviso / E non ti fa più dormire! / Nasce in testa / E si pianta come un bullone / E non si addormenta / Fino a che non ti alzi / E non la tiri fuori / E non la stendi soddisfatta / Su un pezzo di carta / Che ti capita tra le mani. / La poesia è una cosa / Dolce e amara / Ti fa piangere e gioire / Ti calma e ti strapazza / Ti fa vivere e sognare! / La poesia è una cosa / Che ti porta spesso / A spasso tra le nuvole / E ti spinge qualche volta / A volare più lontano!” (La pelesòje – La poesia, pp. 316 – 317). 

Il poeta vola “più lontano” e rivive, facendolo rivivere ai lettori, che è da augurare tantissimi, il “piccolo mondo antico” della civiltà contadina – le sue pratiche, i suoi valori, le sue regole, la sua pedagogia – nella lingua madre che quella civiltà conosceva ed utilizzava, tramandandola di generazione in generazione attraverso l’oralità: il vernacolo. Esso è utilizzato in tutta la sua potenza espressiva dal poeta per raccontare il mondo dell’anima, scrivere gli anni dell’infanzia e narrare in versi il passato. Non certamente per rimpiangerlo come un eden irenistico, sottolinea nella sua Prefazione Daniele Giancane, ma per osservarne le trasformazioni intervenute nel corso dei decenni. Il dialetto – come le lingue classiche – non è morto, e non è solo una lingua ma una cultura, un veicolo di espressione, una civiltà ed, attraverso di esso, si diffonde e si tramanda. È il portato della tradizione che é in noi, rivissuta, rinnovata, portata oltre, i.e. trans-ducta.

Scultoreo l’incipit della raccolta: “Attàname nan u pòzze screddèue / Càmbe angòure jìnde a r’arrecùrde – Mio padre non lo posso dimenticare / Vive ancora nei miei ricordi!” (Arrecùrde d’attaneme – Ricordi di mio padre, pp. 10 – 11) cui il poeta fa seguire la descrizione del padre: “Piene di uva e di calli / Sporche di terra / Le mani di mio padre / E sempre vuote di monete! Dure come l’acciaio […] Ma come una noce di burro / A farmi una carezza / O a stringermi al petto” (Re mèune d’attàneme – Le mani di mio padre, pp. 18 – 19).

Lafranceschina descrive in diverse poesie il suo carattere e l‘orgoglio della sua attività lavorativa: “Jère chendénde de jèsse chezzèule! –  Andava fiero di essere contadino!” (La grannenèute – La grandinata, pp. 52 – 53). Imponente moralmente con la sua probità, ma mai prepotente, la figura paterna: “Me’acchesegghiéive da granne / De fadeghéue onéste onéste / De jèsse sémbre recriéute / du mestìire ca avissa féue / E’ de vreghegnàmme sckitte d’arrebbéue – Mi raccomandava da grande / Di essere sempre orgoglioso / Del mestiere che avrei fatto / E di vergognarmi solo di rubare!” (La fatòiche adèrsce – Il lavoro nobilita, pp. 22 – 23)

Dolce ma non sottomessa quella della madre, nell’archetipa divisione dei ruoli di genere nella società contadina (accudiva i figli, amministrava la cucina ed i prodotti della terra, preparava il pane ed i dolci): ella esprimeva una ‘filosofia di vita’ “Ajìre jòie còme sì tuù jòuce / Vécchie è brùtte. / Cùsse u giòire de la vòite / Ca nan cànosce appattòime / Tùtte u réste skìtte ngandèseme! – Ieri io come sei tu oggi / Giovane e bello / Domani tu come sono io oggi / Vecchia e brutta. / Questo il ciclo della vita / Che non conosce fermate / Tutto il resto è solo illusione!” (Penzìire de màmme – Filosofia di mia madre, pp. 76 – 77).

E’ interessante rilevare che Luigi Lafranceschina non scrive nel vernacolo della sua città natale, Corato, individuabile nella poesia, La fèste de San Catàlle – La festa di San Cataldo, alle pp. 148 – 149, ma anche in alcuni toponimi citati (ad esempio, Lama Cupa, San Magno), ma in quello della città da cui ha scelto di farsi adottare parecchi decenni orsono, con il matrimonio, vivendoci stabilmente con la famiglia (felicemente nonno): Bitonto.  Che il suo sia un vero e proprio atto d’amore verso la famiglia, i concittadini e la città … pensare e scrivere nel vernacolo di un luogo acquisito ma introiettato profondamente?

Chi ha scritto queste righe, da barese, nel suo infinitamente piccolo, si è sforzato di leggere il volume nella sua metà sinistra per cogliere suoni, rime, ritmi e cadenze di antiche voci, piuttosto che scorrere agevolmente le pagine, leggendone la parte destra. Un meraviglioso esercizio di memoria di vissuti di antico adolescente: “Nu petrudde càmbe angòure jìnde a re pàlde / Scambeute o ngusscie du tìimbe – Un sassolino vive ancora nelle tasche / Scampato all’incuria del tempo” (pp. 228 – 229), chiosa Luigi Lafranceschina, poeta da leggere e meditare.

AA.VV., Capodanno in giallo

Tanti autori, tanti lettori

di Antonio Stanca

   Con Capodanno in giallo, riedito l’anno scorso da Sellerio nella serie “Promemoria”, la casa editrice siciliana ha voluto continuare un progetto iniziato da tempo che consiste nella pubblicazione periodica di una breve antologia di racconti “gialli”. Ha avuto molto successo, vi hanno aderito scrittori di questo genere, ognuno con un racconto, e attirati sono stati i lettori dalla possibilità, dalla facilità di venire a contatto, tramite una lettura unica, con autori diversi, col loro diverso modo di scrivere, costruire una vicenda, con vicende diverse.

   Un’iniziativa riuscita si può dire! Una finalità didattica, sociale ha assunto!

   Anche in Capodanno in giallo ci sono autori tra i più noti del genere quali Aykol, Camilleri, Costa, Malvaldi, Manzini, Recami. Nell’antologia compare un loro racconto. Ogni racconto è un caso poliziesco, ogni caso un enigma da risolvere, in ognuno tra chi è colpevole, chi indaga, chi assiste, chi partecipa, chi sa, chi non sa, chi parla, chi tace, tra uomini e donne, innamorati e amanti, sono tante le persone che compaiono, si muovono, tanti i luoghi che le vedono, tanti i motivi, gli interessi, i rapporti che tra loro corrono. Se alla varietà propria di un singolo racconto si aggiunge quella di ogni altro, quella che li fa diversi tra loro, si capisce l’interesse che queste pubblicazioni stanno suscitando tra i lettori. Li incuriosiscono per le tante cose che fanno loro scoprire, sapere. Come la promessa di un piacere si presentano e da qui il loro successo. Permettono di passare con una sola lettura da una città ad un’altra, da un reato ad un altro, da un investigatore ad un altro, di trovarsi tra ambienti, persone, usi, costumi completamente diversi, di partecipare di vite diverse. In uno spettacolo variamente composito si trasformano queste antologie, uno spettacolo ricco di sorprese, rivelazioni e tutto tramite un solo libro.

   È un progetto che sta riuscendo bene e non poteva andare diversamente. C’è d’ammirarlo sia per quanto fa conoscere sia perché in una maniera utile a promuovere la lettura si è trasformato. Si pensa tanto a come fare, Sellerio lo sta facendo!

A. Ammirati, Bullismo (cosa fare e non)

Antonella Ammirati, Bullismo (cosa fare e non). Guida rapida per insegnanti, Pagine: 128

Il termine bullismo (dall’inglese bullying, tiranneggiare, spadroneggiare, intimidire) indica un abuso di potere fisico, verbale o psicologico, attuato in modo ripetuto e organizzato contro qualcuno che non è in grado di difendersi.

Secondo i dati dell’ultimo Monitoraggio dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo (2021), a cura del Ministero dell’Istruzione in collaborazione con l’Università di Firenze, su un campione di 314.500 studenti e studentesse di 765 scuole statali secondarie di secondo grado e di 46.250 docenti afferenti a 1.849 Istituti scolastici statali, il 22,3% degli studenti e delle studentesse è stato vittima di bullismo da parte dei pari (19,4% in modo occasionale e 2,9% in modo sistematico); il 18,2% ha preso parte attivamente a episodi di bullismo verso un compagno o una compagna (16,6% in modo occasionale e 1,6% in modo sistematico); l’8,4% ha subito episodi di cyberbullismo (7,4% in modo occasionale e 1% in modo sistematico); il 7% ha preso parte attivamente a episodi di cyberbullismo (6,1% in modo occasionale e 0,9% in modo sistematico).

L’ultima uscita della serie Erickson “Cosa fare e non” – collana di guide pratiche e approfondite per insegnanti ed educatori – dedicata appunto ai fenomeni del bullismo e del cyberbullismo, nasce come un manuale di sostegno per insegnanti che mantengono la capacità di osservare e di sospettare disagio negli sguardi bassi e nei non detti di alcuni studenti. Insegnanti che vogliono farsi carico della dilagante povertà relazionale prima che si connoti come violenza, e che hanno a cuore la salute della Scuola come ambiente di relazione, luogo di confronto e di crescita per i ragazzi, ma anche per loro stessi.

Dopo una ricca introduzione al contesto di studi e di sviluppo del fenomeno, Bullismo (cosa fare e non) si suddivide in quattro ampi capitoli dedicati: al bullo, alla vittima, al gruppo e al contesto (familiare e non solo). Per ciascuno, si evidenziano le ragioni alla base del comportamento e le modalità di interazione e reazione che insegnanti ed educatori in genere possono mettere in atto per fronteggiare la situazione, nel rispetto e nel migliore interesse di tutte le parti.

In occasione della Giornata nazionale contro il bullismo e il Cyberbullismo, Erickson propone un decalogo estratto dai consigli contenuti nel manuale:

  1. Tenere a mente che il bullo vorrebbe essere parte attiva delle situazioni.
  2. NON chiamare sempre in causa l’autorevolezza del proprio ruolo di insegnanti/educatori.
  3. Valorizzate l’esigenza del bullo di ricercare relazioni, seppur con modalità disfunzionali.
  4. NON avallare l’idea che essere forti significhi non provare sentimenti.
  5. NON giudicare la persona, ma i comportamenti.
  6. NON schierarsi apertamente dalla parte della vittima: anche il bullo è una vittima e ha bisogno di aiuto.
  7. NON fare riferimento a carenze nell’ambiente familiare del bullo.
  8. NON fare presente alla vittima le sue difficoltà relazionali prima di averla protetta dalle prepotenze.
  9. NON lavorare con il gruppetto di alunni (autori e vittime) della dinamica senza coinvolgere l’intero gruppo classe.
  10. NON colpevolizzare i genitori.

*Antonella Ammirati, neuropsicologa e psicoterapeuta a indirizzo psicodinamico, libera professionista tra studio clinico e scuola. Ha alle spalle una collaborazione decennale con ODFlab – Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Trento, dove si è specializzata nell’ambito della diagnosi e dell’intervento sui disturbi evolutivi e dell’età adulta e ha contribuito a costruire collaborazioni con gli Istituti Comprensivi, l’Ateneo di Trento e diversi enti del territorio per promuovere, attraverso la formazione, contesti inclusivi. Con la Cooperativa Sociale «Il Ponte», invece, si è occupata di psicologia scolastica, gestendo lo Spazio Ascolto di diversi Istituti Comprensivi della Vallagarina, coordinando progetti di supporto allo studio promossi da iniziative comunali o dal Fondo Sociale Europeo nonché supervisionando l’équipe del servizio Mystart – area difficoltà e DSA. Attualmente è consulente di Edizioni Centro Studi Erickson per l’area psicologia e professioni sanitarie, autrice della pubblicazione Il mio primo anno da… psicologo scolastico e curatrice del testo DSA dopo la Linea Guida ISS 2022.

G. Colombo e L. Segre, La sola colpa di essere nati

Insieme nella Giornata della Memoria

di Antonio Stanca

   Ultimamente in occasione della Giornata della Memoria è comparsa, allegata a “TV Sorrisi e Canzoni”- Periodici Mondadori- e su licenza Garzanti, un’edizione speciale dell’opera La sola colpa di essere nati di Gherardo Colombo e Liliana Segre. È un lungo dialogo che si svolge tra i due e che vede lui impegnato a chiedere di momenti particolari nella vita della Segre, e lei intenta a ricordare le gravi situazioni patite, insieme ai suoi familiari, a causa delle Leggi Razziali del 1938 e della deportazione ad Auschwitz nel 1944. La loro condizione di ebrei li aveva fatti diventare vittime di quegli eventi.

   Colombo è stato magistrato per molti anni e dal 2007 è entrato a far parte dell’associazione “Sulle regole”. La sua collaborazione consiste nel promuovere momenti di osservazione, di riflessione sull’importanza, il significato delle leggi, della giustizia. Ha settantotto anni mentre la Segre ne ha novantaquattro. Entrambi provengono dal Nord Italia, Colombo da Briosco (Monza-Brianza), Segre da Milano. Non era la prima volta che s’incontravano, che si fermavano a parlare ma stavolta il loro incontro è durato più a lungo, i loro discorsi sono stati più completi, hanno seguito un percorso più preciso, hanno rispettato tempi e luoghi, sono stati motivo di un’opera vera e propria. Di questa si può dire come di una ricostruzione storica di quanto è avvenuto in Italia e fuori dal momento delle Leggi Razziali (1938) alla fine della seconda guerra mondiale e dopo. Che si sia ottenuto tanto tramite una conversazione tra due amici non è da poco. Facili, semplici sono i loro discorsi, a chiunque permettono di accedere a quella fase della storia d’Italia e d’Europa che tanto travagliata è stata. È questo il merito maggiore dell’opera: si parla di grandi e gravi avvenimenti, li si chiarisce, li si spiega in ogni loro aspetto e con un linguaggio che non diventa mai difficile, che mai si complica. È il risultato positivo dell’ennesima testimonianza che la Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, rende riguardo alla sua vita. Mentre dice di sé dice della storia che le si verificava intorno. Nel 1938, quando aveva quattro anni e viveva con il padre e i nonni a Milano, era stata espulsa dalla scuola elementare a causa delle Leggi Razziali; nel 1943-44 era fuggita da Milano insieme al padre, erano stati scoperti, arrestati e mandati ad Auschwitz dove lui sarà ucciso; anche per i nonni, arrivati dopo, sarebbe stato così mentre per puro caso lei sarà più volte risparmiata e malvestita, malnutrita, continuamente umiliata, sempre utilizzata in una fabbrica di armi, riuscirà a resistere alla tremenda situazione finché, ai primi del 1945, non arriveranno le forze alleate e i tedeschi fuggiranno portando i prigionieri in Germania, in un altro campo di concentramento. Sarà un viaggio a piedi, lunghissimo, durissimo, molto faticoso per la piccola Segre. Lo aveva, però, affrontato con un certo entusiasmo, con quel coraggio che a volte emerge nei momenti estremi. Nel 1945 era finalmente rientrata in Italia, a Milano, fra i parenti. Aveva quindici anni ma ce ne sarebbero voluti molti altri perché si ambientasse, si ritrovasse tra la sua gente, i suoi posti, le sue cose. L’esperienza vissuta era stata così grave da averla sconvolta, da non permetterle un facile recupero delle sue capacità fisiche e mentali. Non ci riusciranno neanche eventi come il matrimonio, i figli, i nipoti, e solo dopo molto tempo, intorno al 1960, mostrerà segni di ripresa. Fino allora aveva pure evitato di parlare di quanto sofferto poiché la faceva star male. Poi le attenzioni di chi le era vicino, le cure di medici specialisti, l’avevano convinta della necessità di aprirsi agli altri, confidarsi. Lo avrebbe fatto, avrebbe parlato del suo passato, agli inizi con molte difficoltà, dopo con sempre maggiore sicurezza. Sarebbe successo in molti posti, scuole, università, centri di studio italiani e stranieri, biblioteche, locali pubblici, sedi di associazioni politiche. Molto seguita, molto rispettata, molto onorata sarebbe stata. Molti riconoscimenti avrebbe ottenuto. Nel 2018 sarebbe stata nominata senatrice a vita.

   Ogni volta, però, dopo ogni intervento, ogni testimonianza, si riprometteva di non accettare nessun altro invito. Anche per quest’ultima tenuta di fronte al giudice Colombo non si era mostrata particolarmente propensa. Ma ancora una volta aveva ceduto, aveva accettato di parlare, di dire di sé. Colombo l’ha ascoltata, l’ha sollecitata, le ha posto molte domande, ha puntualizzato molti argomenti, ha apportato il contorno necessario a fare delle rivelazioni di lei un quadro ordinato, completo.

    In verità, ha spiegato la Segre nel libro, se prima dire della sua vita la faceva soffrire ora la fa stare meglio. È come se si fosse accorta che le sue confessioni possono essere utili, possono far capire quanto sia importante la solidarietà, la partecipazione, l’aiuto, a quanti vantaggi possono portare e a quanti svantaggi l’odio, la violenza. Lei è stata vittima dell’odio, della violenza e parlarne, farlo sapere, può convincere a rifiutare, condannare simili comportamenti, a non imitarli, a fare del bene al posto del male.

    Sempre umile, modesta, generosa è la sua posizione, sempre al bene che si può ricavare è rivolta anche quando c’è stato tanto male, quando lo ha sofferto direttamente.

A. Manzini, Riusciranno i nostri eroi…

Manzini tra l’anima e il noir

di Antonio Stanca

    Di recente, per conto di Sellerio, nella collana “La memoria”, è comparso l’ultimo romanzo di Antonio Manzini, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America?. È un’altra opera che Manzini aggiunge a quelle della lunga serie dedicata al commissario Rocco Schiavone, il vice questore diventato famoso per un modo di fare, d’indagare molto particolare, molto fuori dal comune. La serie era iniziata nel 2013 con Pista nera ed è giunta ai giorni nostri con ELP, che ha preceduto di poco quest’ultimo romanzo. Altre opere, generalmente di genere poliziesco, erano venute prima di quella serie, altre l’avevano accompagnata. 

    Manzini è nato a Roma nel 1964, ha sessant’anni, attore televisivo, cinematografico, sceneggiatore, regista e scrittore è stato ed ancora lo è. Nel 2005 ha esordito nella narrativa con Sangue marcio, un giallo col quale aveva avviato il genere letterario suo preferito. Ne sono una prova i romanzi del commissario Schiavone che durano da dieci anni e che non accennano a fermarsi. Nel loro esempio più recente, Riusciranno i nostri eroi…?, Manzini mostra ancora una volta come intende il romanzo giallo. Non lo limita all’evento criminoso e alle conseguenti indagini ma vi fa rientrare tanta altra vita. Fa posto a tanti pensieri, tanti sentimenti, quelli delle persone che nell’evento sono coinvolte, di esso sono entrate a far parte accanto ai colpevoli veri e propri. Lo scrittore cerca quanto avviene nell’animo di quelle persone, non distingue tra colpevoli e innocenti, alla stessa umanità li fa appartenere, cosa ha mosso gli uni e cosa gli altri vuole sapere, spiegare, altri casi vuole aggiungere ai tanti che compongono la vita, la storia dell’uomo. La voce dei tempi vuol’essere la sua, quella che si alza sulle cose del mondo, quella del vero scrittore. Così succede pure in Riusciranno i nostri eroi…?, dove tra quattro amici, dei quali fa parte Rocco Schiavone, c’è stato qualcosa di molto grave. Erano amici fin da bambini, giocavano insieme a Trastevere e di quanto è successo una volta diventati adulti non si saprà mai con chiarezza. Era stato, però, il motivo della scomparsa di uno di loro, Sebastiano, motivo che lo aveva fatto ritenere colpevole. Da Roma era fuggito in Sud America, si erano perse le tracce. Offesi si sentivano Rocco e soprattutto Furio mentre l’altro, Brizio, non si curava molto. Furio non aveva perdonato Sebastiano ed era andato in Sud America a cercarlo, a vendicarsi. Temendo che potesse succedere altro danno Rocco e Brizio penseranno di raggiungerli e riportarli alla ragione, riappacificarli. Inizieranno il viaggio senza avere alcun riferimento, alcuna notizia precisa. Una volta arrivati si muoveranno a tentoni tra ambienti, paesi mai visti, tra Argentina, Messico, Costa Rica, tra spazi sterminati, milioni di persone, tra strade, case, lingue sconosciute. Non sapranno come fare, dove andare, tutto era nuovo, diverso, ignoto, pericoloso. S’imbatteranno nelle situazioni più strane, vivranno le più diverse avventure ma non si arrenderanno, chiederanno, s’informeranno, useranno ogni piccolo dettaglio, ogni minimo indizio. Incoraggiati, animati si sentono dall’idea che lo stanno facendo per il bene di due amici, che devono trovare Furio prima che lui trovi Sebastiano e compia la sua vendetta. Di questo dicono sempre nei loro discorsi, di questo sono fatti i loro pensieri, i loro sentimenti. A tanto li ha portati un semplice spirito di amicizia: solo amici sono di Sebastiano e Furio e solo per questo stanno affrontando tanti ostacoli. Oltre al commissario che indaga sulla sorte dei due, Schiavone è soprattutto l’amico che li vuole ricondurre all’ordine. Anche Brizio è mosso da questo intento, anche lui si sta mostrando capace di un’azione così generosa, così nobile, così difficile da pensare in tempi come i nostri. Manzini l’ha pensata, ci ha creduto e gli si deve rendere merito per averne fatto opera di scrittura, per essere andato oltre i limiti di un giallo, per aver mostrato quanto può l’animo, lo spirito dell’uomo. Ha fatto vedere come diverso sia per lui questo genere di romanzo. Anche nella sua costruzione è stato abile, è così ben articolato che fin dall’inizio coinvolge il lettore.

     Gli sforzi compiuti da Rocco e Brizio saranno premiati, troveranno Furio e Sebastiano e basterà questo, basterà che si rivedano tutti insieme perché ogni rancore, ogni rivalità, ogni proposito di vendetta si riduca, si cancelli. Si conclude l’opera con quest’ultimo risvolto di carattere morale, con quest’ultima affermazione dei valori dell’anima.

    Amici come prima sono tornati ad essere anche quelli che non lo credevano possibile!

P. Perretti, Perché (non) andare a scuola

Pierpaolo Perretti, Perché (non) andare a scuola
Introduzione di Annalisa Cuzzocrea Postfazione di Sergio Labate

“Un J’accuse contro la scuola, una dichiarazione d’amore per la Scuola: voglio insegnare, non mettere voti!”

C’è un filo che lega tutti alla Scuola: per gli studenti è il loro pre- sente, per gli adulti è dato dalla nostalgia di un periodo unico o semplicemente dai figli alle prese con lo studio. Gli insegnanti intrecciano questo filo: per loro la Scuola è un luogo dove passa- to, presente e futuro si compenetrano. Questo “saggio narrativo” nasce dall’esperienza e dal profondo disincanto che essa provoca. L’autore mette a nudo impietosamente i meccanismi con i quali molte scuole di oggi, alla ricerca di iscrizioni e successo, tradisco- no la loro missione, ingannano studenti e genitori, opprimono il cuore di chi ancora crede nella formazione. Si smascherano dun- que le valutazioni, il marketing scolastico e le false motivazioni con cui molti ragazzi, su suggerimento degli adulti, scelgono e vi- vono la Scuola, ma, in vista di un orizzonte non rassegnato, l’au- tore propone nuovi percorsi di senso e di “studiosa meraviglia” per gli studenti e per i professori. Soprattutto per quanti sono alla ricerca del significato dello studio e per quanti, ancora innamorati dell’essenza dell’insegnamento, non possono adattarsi alla realtà attuale.

Pierpaolo Perretti è nato nel 1975, si è Laureato in Lettere Classiche con una tesi sulle finalità pedagogiche della traduzione. Ha poi conseguito la Licenza in Scienze Patristiche presso l’Augustinianum di Roma e il Dottorato in Storia Religiosa presso l’Università di Roma-La Sapienza. Ha pubblicato il volume Teodoreto di Cirro. Commento alle Lettere di Paolo (Paoline 2017) del quale ha curato introduzione, traduzione e note. Da venti anni insegna materie letterarie nei licei.

M. Stramaglia, Pedagogia e alta sensibilità

Massimiliano Stramaglia, Pedagogia e alta sensibilità. Una nuova sfida per l’educazione, Educazioni Studium, Roma, 2023 p. 138

di Maria Buccolo

L’alta sensibilità è un tratto del temperamento che coinvolge il 15-20 per cento della popolazione mondiale. Le domande più comuni che ognuno di noi si è posto nella propria vita riguardano la sensibilità come problema da gestire associato a volte anche alla vulnerabilità e alla fragilità.  La risposta a questo interrogativo, con riflessioni, teorie e strategie di lavoro pratico nei contesti scolastici sono contenuti nel libro dove Massimiliano Stramaglia ci mostra come sia possibile riconoscere le Persone Altamente Sensibili (PAS) sin dalla prima infanzia ed apre una prospettiva pedagogica, psicologica e neuroscientifica sulle strategie che la scuola deve mettere in campo per educare e formare. Il libro parte proprio dall’analisi introspettiva dell’autore nel rintracciare l’alta sensibilità presente nella propria vita sin dall’ infanzia (infra p. 10) e la constatazione di averlo scoperto solo tre anni fa attraverso gli studi e le ricerche in campo psico-pedagogico. Il volume si propone come uno strumento utile per i genitori, gli educatori e i docenti   per aiutare ad individuare, riconoscere e valorizzare i PAS,  poiché la società ancora oggi interpreta la sensibilità come un limite e non un vantaggio.  Se ci fermiamo e riflettiamo, possiamo capire bene come tutto ciò che impariamo nella vita sia influenzato dalle nostre dinamiche emotive e come queste siano in grado di determinare il modo in cui costruiamo le nostre idee e quindi il nostro comportamento con gli altri nel quotidiano. Infatti, i PAS presentano caratteristiche uniche come l’attenta osservazione e la percezione dei dettagli, molti di loro hanno un carattere chiuso e introverso mentre il 30% risulta essere estroverso. L’alta sensibilità non rappresenta un disturbo, pertanto, non è diagnosticabile ma si può identificare attraverso una attenta osservazione in famiglia e a scuola creando così un’alleanza educativa che ponga delle basi sicure nel processo di apprendimento che si deve centrare soprattutto sulla comprensione e l’empatia per accogliere gli interessi del bambino o della bambina.  Quello che dobbiamo capire dalla lettura di questo libro, è proprio il fatto che l’Autore ci consegna una visione positiva della sensibilità, considerata come un valore aggiunto, come una risorsa che serve per conoscere, agire attraverso un sentire più profondo che si lega all’empatia e cioè alla capacità di connettersi all’altro.   Molto utili risultano, infine, le indicazioni relative all’educazione a misura di bambino altamente sensibile (infra p. 96) e il ricorso alle arti e alla natura per dare la possibilità di esprimere il potenziale emotivo presente che può dar vita ad una rifioritura facendo acquisire maggiore sicurezza su se stesso e sul proprio modo di comunicare il proprio “sentire”.

A fine secolo

A fine secolo

di Antonio Stanca

   Quando finisce un avvenimento, un fenomeno, quando si conclude una vicenda, una manifestazione, un’operazione, si è portati a riflettere su quanto c’è stato, su come si è svolto, a formulare giudizi, trarre conclusioni. Così pure quando finisce un’epoca, un secolo anche se in questo caso non è necessario attendere fino alla fine ché già molto tempo prima s’inizia a considerare, valutare. Così è stato per il ventesimo secolo che è finito di recente. Anche di esso si era iniziato a parlare prima della fine. Più fondati, più convincenti diventano, però, i giudizi a conclusione avvenuta, quando veramente finito è il tempo in questione. È quanto sta succedendo in questi giorni. In tanti modi, con tanti mezzi, televisione, radio, Internet, stampa, dibattiti pubblici, conferenze, convegni, si parla, si discute su quanto è avvenuto nel mondo del Novecento, su quali sono stati i vantaggi e quali gli svantaggi, sugli sviluppi, i progressi e i danni, i pericoli, sulle conquiste e le perdite. In verità abbastanza contrastanti risultano i giudizi e se a quelli decisamente negativi circa la prima metà del secolo, l’età delle guerre mondiali, seguono giudizi positivi riguardo ai tempi venuti dopo, quelli caratterizzati da un progresso sempre crescente, da continue scoperte scientifiche, dalle loro applicazioni tecniche, dal miglioramento delle generali condizioni economiche, da una modernità divenuta possibile a larghi strati della popolazione mondiale, divenuta capace di risultati eccezionali, determinanti, fondamentali nel moderno ambito dell’attività narrativa, lirica, filosofica, figurativa, musicale, del cinema, del teatro, dello sport, di ogni genere di eccellenza, non altrettanto si può dire dei giudizi circa la fine del secolo quando ad un progressivo imbarbarimento dei costumi privati e pubblici si è assistito, ad una perdita sempre più grave, sempre più estesa dei principi, dei valori costitutivi della persona umana, delle sue istituzioni fondamentali, degli ideali che erano stati alla base, quando ai problemi interni dei singoli stati si sono aggiunti altri esterni, di carattere più vasto, mondiale quali il surriscaldamento climatico, la deforestazione, la desertificazione, i disastri ambientali, i pericoli spaziali, gli inquinamenti, le epidemie, l’immigrazione, le guerre, la povertà, la mortalità. Sono problemi che vedono coinvolto l’intero pianeta. E tutti gravi sono poiché non si intravedono soluzioni né per i primi né per i secondi, né per quelli di una nazione, di un popolo né per quelli del mondo, dell’umanità. Sono diventati quasi una parte costitutiva, integrante del sistema attuale, ci si è arresi, adattati ad essi fino a farne uno spettacolo tra gli altri della moderna barbarie.

   È questa l’eredità del secolo scorso, per arrivarci sono serviti anni, decenni d’incuria, disordine, confusione, di mancate osservazioni delle regole, di frequenti concessioni ai difetti, ai vizi, di tutto quello che è andato a formare l’attuale stato delle cose. Ne è così caratterizzato che sembra diventato modificarlo. Non si saprebbe da dove cominciare, chi dovrebbe farlo, come, visto che a diversi livelli, in diversi modi coinvolti siamo tutti. Questa è la vita che ci è giunta dal secolo scorso, è allarmante, è priva di un futuro, è completamente diversa da quella che ci si aspettava. Il progresso, la modernità, la civiltà avevano fatto pensare a ben altro!

A. Marino, Il lavoro che vorrei

Anna Marino, Il lavoro che vorrei. 20 consigli per orientarsi e formarsi nelle professioni più innovative e sostenibili

Il Sole 24 Ore presenta in edicola per un mese da sabato 13 gennaio e in libreria dal 19 gennaio

Energy manager, water manager, green fashion designer, site & sustainability director: i cambiamenti in corso sul fronte climatico e l’esigenza di ridurre l’impatto del climate change stanno facendo emergere numerose opportunità professionali, come racconta il libro della giornalista Anna Marino “IL LAVORO CHE VORREI. 20 consigli per orientarsi e formarsi nelle professioni più innovative e sostenibili”, in uscita con Il Sole 24 Ore da sabato 13 gennaio.

Aiutare i propri figli ad orientarsi sulle professioni dell’economia circolare significa offrire loro uno sguardo su uno degli ambiti più importanti per affrontare le sfide del nostro tempo, in sintonia con i cambiamenti in corso nel modello di fare impresa che non ha più come unico obiettivo quello della crescita dei profitti e del business, ma che tiene conto allo stesso modo dell’impatto su ambiente, società e persone. In particolare, l’Italia è leader nell’economia circolare, un settore in forte crescita che offre grandi opportunità di carriera. Secondo le stime di Confindustria, Federmanager e 4.Manager, entro il 2026 saranno richiesti 4 milioni di green job in più rispetto ad oggi.

Per orientare figli, famiglie, imprese e istituzioni alla ricerca di competenze green e innovative Anna Marino ha quindi dato voce a chi ha trasformato la propria passione per la sostenibilità in un lavoro: grazie a venti interviste a manager dalle professionalità molto diverse ed al loro racconto di esperienze sul campo, ha tracciato un quadro delle competenze e dei percorsi formativi aperti a chi desidera lavorare nel mondo della sostenibilità, mettendo in luce i tratti identitari e distintivi di queste nuove professioni.

Il libro “IL LAVORO CHE VORREI. 20 consigli per orientarsi e formarsi nelle professioni più innovative e sostenibili” costituisce un’opportunità importante per offrire ai propri figli le coordinate per guardare al proprio futuro con più consapevolezza, ma è anche – come scrive nell’introduzione al volume Katia Da Ros, Vicepresidente di Confindustria per Ambiente, Sostenibilità e Cultura – “uno stimolo per le imprese per aprire sempre più le porte ai giovani talenti che possono portare non solo competenza, ma anche energia positiva e un impulso alla roadmap delle imprese. Nella consapevolezza che oggi un’impresa non si misura più esclusivamente sulle performance economiche, ma anche sul valore sociale e ambientale prodotto.”

Il volume sarà in edicola per un mese da sabato 13 gennaio al costo di €12,90, in libreria da 19 gennaio al costo di €16,90 e in formato e-book su tutte le principali piattaforme al costo di €9,90.

Autrice

Anna Marino, giornalista multimediale, professionista dal 2000, è autrice per Radio 24 del podcast I lavori di domani. Per quasi vent’anni in forza alla redazione news di Radio 24, collabora da sempre con i programmi Voci di piccola impresa e Voci d’impresa e oggi è redattrice presso l’agenzia di stampa Radiocor Plus. Ha curato 800 puntate delle rubriche televisive Esperto risponde e Help di Ventiquattrore.tv e ha condotto Affari privati nel programma Soldi nostri su Rete 4. Ha moderato convegni, scritto le testate cartacee e online del Gruppo 24 ORE e, insieme ad Antonio Alessio Boccia, ha pubblicato il libro Signori, si vola! sul trasporto aereo.

Dati

Titolo:                                     IL LAVORO CHE VORREI

Autore:                                    Anna Marino

Editore:                                   Il Sole 24 ORE

Tipologia:                                Libro cartaceo / Ebook

Pagine:                                   240

G. Palmisciano, Insegnare scienze motorie

Insegnare scienze motorie

di Gennaro Palmisciano

Con la pubblicazione il 6 dicembre 2023 del bando nazionale, si è avviata la procedura concorsuale su base regionale, per titoli ed esami, per l’accesso ai ruoli, su posto comune e di sostegno, del personale docente della scuola secondaria di primo e di secondo grado.

Nell’Allegato 1 sono riportati in dettaglio i posti vacanti nell’anno scolastico 2023/2024, messi a concorso.

Così si può scoprire che nella scuola secondaria di primo grado esiste una classe di concorso, scienze motorie nella scuola secondaria di primo grado, a cui corrisponde, stando alle Indicazioni Nazionali del 2012 aggiornate nel 2018, l’insegnamento dell’Educazione Fisica nella scuola secondaria di primo grado.

La domanda sorge spontanea, avrebbe detto Antonio Lubrano, Scienze motorie o Educazione Fisica?

Il problema è solo italiano, perché nel resto del mondo si parla di physical education (PE). Anche i cugini d’oltralpe adottano la locuzione education physique, vantandosi che il termine sia stato usato in una pubblicazione per la prima volta proprio in Francia, nel 1762, citando un libro pubblicato a Parigi, che si può trovare, ristampato, su Amazon, Dissertation sur l’Education Physique des Enfans, Depuis Leur Naissance Jusqu’à l’Âge de Puberté: Ouvrage Qui A Remporté le Prix le 21 Mai 1762, à la Société Hollandoise des Sciences.

Al tema del concorso a cattedre è dedicato il Insegnare Scienze Motorie: Manuale per la preparazione al concorso a cattedre A48 e A49 https://www.amazon.it/dp/B0CR9FLTPX

Alla fine non solo è più una questione di forma che di sostanza, ma anche e soprattutto sembra molto più importante un’altra domanda: Dove sta andando l’insegnamento delle scienze motorie?

Dico questo perché si sono svolti alla fine del 2023 due importanti eventi, gli Stati Generali delle Scienze Motorie e Sportive a Roma, e il Congresso Nazionale della Società italiana Scienze Motorie e Sportive a Napoli.

Numerosi i temi problematici emersi, tra i quali il gravoso problema dovuto alla mancanza di una chiara identificazione delle tematiche proprie delle scienze motorie nell’ambito dei settori European Research Council (ERC), che rende difficile l’accesso ai finanziamenti di progetti in ambito motorio e sportivo.

Si è evidenziato un cambiamento della provenienza degli iscritti alle lauree magistrali in Scienze motorie LM47, con un consistente aumento di candidati dalle triennali di Economia.

Se le due direttrici fondamentali restano “Scuola e Sport” e “Salute, Ricerca e Istituzioni”, aumenta il ruolo delle nuove tecnologie nel primo campo, mentre nel secondo campo si pone il problema di come fronteggiare quella che appare un’epidemia di obesità che affligge sempre più la nazione italiana. Appare non più rinviabile la rielaborazione dei saperi del percorso di Laurea triennale in Scienze Motorie, la formazione degli insegnanti, l’inserimento a regime dell’Educazione Fisica nella Scuola dell’Infanzia e nella Scuola Primaria e la riorganizzazione dello sport scolastico alla luce dei progetti dei Nuovi Giochi della Gioventù.

La principessa Kaguya

Il Giappone tra umano e divino

di Antonio Stanca

  Insieme al “Ciclo dei Samurai” la casa editrice RBA Italia ha avviato il “Ciclo delle Hime”. Entrambe le pubblicazioni rientrano nella serie “Miti e leggende giapponesi” e si propongono di far giungere ai lettori italiani gli aspetti propri dell’antica letteratura giapponese, in particolare di quella narrativa. Si tratta di riedizioni di opere già comparse che vengono ora recuperate, curate, arricchite da storici, traduttori, illustratori. Del “Ciclo delle Hime” la più recente s’intitola La principessa Kaguya (La figlia della luna). È un lungo racconto che si compone di storia e leggenda, risale ai tempi passati, ad una vicenda che d’allora era entrata a far parte della cultura popolare, quella trasmessa oralmente. L’opera contiene anche una ricca documentazione illustrata ed un ampio saggio finale relativo alla storia della famiglia giapponese, ai vari modi, ai vari aspetti che nei secoli ha assunto.

   Sono un notevole contributo queste pubblicazioni affinché avvenga un’espansione, un’estensione della cultura occidentale, affinché accolga altre culture, altre letterature, si avviino dei confronti, si conoscano gli altri, quelli che erano rimasti tanto lontani da far pensare che non li si sarebbe mai conosciuti. Grande, pertanto, diventa la sorpresa, la meraviglia quando da queste letture s’impara che per molte cose, per molti modi di pensare, di fare si è stati come i giapponesi, che tanta vecchia vita giapponese è stata uguale a quella occidentale. Anche ne La principessa Kaguya si può vedere come costumi, frangenti, eventi della storia giapponese siano stati identici a quelli della nostra storia. Anche nell’ambito della leggenda è possibile scoprire dei riscontri, delle somiglianze. Ci si ritrova molte volte e così aumenta l’interesse per questa narrativa, si riduce la distanza dai suoi luoghi di provenienza. Particolare rimane, tuttavia, la produzione giapponese, specie quella del passato, poiché altri sono gli ambienti, altre le atmosfere che fanno da contorno a quanto rappresentato, altri i modi espressivi. Sa di magia, di poesia quella narrativa. La principessa Kaguya non sembra un racconto ma una favola, non una realtà ma un sogno. Lei fa parte delle “Hime”, è una creatura divina, una fanciulla dalla bellezza insuperabile, una figlia del dio eterno, onnipotente, dotata di poteri miracolosi, è lontana, estranea alla dimensione umana. Per essersi creata una situazione di tensione tra lei e il dio padre, Kaguya decide di assumere fattezze umane e scendere, inserirsi nella vita quotidiana facendo in modo da non farsi notare. Sarà la figlia adottiva di un taglialegna, Taketori, e di sua moglie, Ine, senza che questi sappiano delle sue origini, della sua condizione. Non sfuggirà, però, la sua bellezza agli occhi maschili. Tanti uomini la noteranno, la vorranno conquistare, si metteranno al suo seguito. Ma pur essendo venuta tra i mortali Kaguya non ha rinunciato alla sua natura divina, non vuole, non può, quindi, mettersi con nessun uomo perché così la perderebbe. Non cederà a nessuno, fuggirà insieme ai suoi nuovi genitori che la proteggeranno pur senza capire molto della situazione. Cambieranno sede più volte finché della bellezza di Kaguya saprà pure l’imperatore del Giappone, Daigo. La conoscerà, s’innamorerà, lei gli cederà per qualche istante, ricambierà il suo amore, il suo ardore ma subito si pentirà, soffrirà per aver rinunciato, anche se per poco tempo, alla sua vera natura. Vorrà riprenderla, lo farà aiutata dal dio padre che è comparso a correggerla, portarla con sé. Una volta svanita, ascesa all’altezza della divinità tutti capiranno chi era Kaguya e la sua diventerà una storia tramandata, scritta, narrata per secoli.

   La semplicità dell’esposizione, l’intimità dei pensieri, dei sentimenti, le luci, i colori delle acque, dei boschi, delle albe, dei tramonti, il contatto con l’invisibile e su tutto la bellezza sempre presente, sempre sfuggente di Kaguya fanno di questa non un’opera destinata alla lettura ma alla visione, non prodotta dalla ragione ma dall’immaginazione, non umana ma divina.

    Confermata ne esce una tradizione letteraria che, come quella giapponese, non ha avuto remore a fare della divinità un personaggio delle sue opere o un loro autore.

Giovanni Modugno: un maestro del senso

GIOVANNI MODUGNO: UN “MAESTRO DEL SENSO” PER LA SCUOLA ITALIANA DI OGGI

di CARLO DE NITTI

Alle “voci archetipe” della mia remotissima adolescenza

per sempre nei miei spazitempi mnesici, con infinita gratitudine.

 

Nascoste ai molti, si palesano,

a chi le cerca con animo puro,

perle, veri tesori delle profondità,

che rivelano le nostre vite,

la nostra intima essenza

di cercatori tra le pagine …

 

 

1. PROLOGO

Non mi è possibile iniziare questo intervento senza ringraziare con sentimenti di sincera gratitudine il prof. Vincenzo Robles, illustre cittadino bitontino e studioso di preclara fama, per avermi invitato a partecipare – bontà sua – a questo evento sul pensiero di Giovanni Modugno, pedagogista del ‘900 pugliese, italiano, europeo.

Non è quella che segue una forma di excusatio non petita: non sono un esperto di Giovanni Modugno nel senso accademico della parola, ma ho avuto, da molti anni, con la sua storia di vita, di pensiero, politica, culturale e religiosa una frequentazione che mi affascina. Sì, perché una personalità come quella di Giovanni Modugno non può non sé-durre, a prescindere dalle idee di chi a lui si accosti, purché lo faccia con onestà intellettuale e disinteresse, anche venale. Caratteristiche che egli stesso possedette in modo assoluto e che costituirono la cifra peculiare della sua personalità di uomo, di docente e quindi, di pedagogista.

Tutti gli altri intervenuti a questo evento – certamente molto più competenti di me – hanno lumeggiato o lumeggeranno da par loro al meglio il pensiero del pedagogista: a me, che raccolgo “materiali per chi voglia scrivere di storia” (alla maniera dei Commentari cesariani) piace interrogare la figura di Giovanni Modugno per cogliere – provando a suggere l’essenza del suo pensiero – quanto egli possa dire (rectius: insegnare) a noi persone di scuola del XXI secolo, che operano nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado (sebbene, ahimè, io mi trovi nel “pronaos” della quiescenza). Il ri-pensare Giovanni Modugno nella scuola di oggi non può, né deve, essere un mero esercizio di erudizione storiografica, ma un interesse squisitamente teoretico che interroghi il pedagogista, a partire dagli interrogativi del presente che scaturiscono, ovviamente, da bisogni didattici, educativi e pedagogici che urgono alle persone di scuola.

 

 

2. I “MAESTRI DEL SENSO”

E’ possibile connotare Giovanni Modugno come un “cercatore di Cristo”, un “apostolo dell’educazione”, un “pellegrino dell’Assoluto”: queste locuzioni possono legittimamente compendiarsi – per utilizzare il lessico della pedagogia di Papa Francesco – nell’espressione “maestro del senso”. Non trovo migliore sintetica definizione se non quella delle parole usate dal Pontefice recentemente a Lisbona, parlando ai giovani dal Pontefice per definirli: <<Maestri di umanità. Maestri di compassione. Maestri di nuove opportunità per il pianeta e i suoi abitanti. Maestri di speranza>>. 

E Giovanni Modugno lo è stato, di sicuro, ante litteram, … e lo è ancora oggi, a sessantacinque anni dalla sua scomparsa!

Leggere Giovanni Modugno oggi significa affrontare in modo efficace le urgenze educative del mondo contemporaneo: riformare la scuola, per Modugno, voleva dire formare le coscienze delle degli educandi. Al centro del processo educativo – come sostenevano in quegli anni i pedagogisti dell’attivismo pedagogico – non possono che esserci gli educandi con i loro vissuti, le loro storie interiori, i loro bisogni. Nel processo di educazione, non si può che “ascendere insieme”, per riprendere il titolo di un testo del 1943 dello stesso Modugno, per cambiare se stessi e contestualmente la società in cui si vive. L’unica vera riforma della scuola doveva essere, a parere di Giovanni Modugno, la “riforma interiore”, quella della formazione dei docenti.

La sua vita, la sua ricerca culturale, il suo insegnamentoincarnano l’anelito verso una società più giusta e più libera, nella quale ogni persona, consapevole della sua dignità, possa recuperare e vivere il significato dei valori fondamentali, in primis, la vita e la libertà, senza dei quali non è possibile praticare alcun altro valore. L’attualità del suo messaggio si focalizza prioritariamente intorno alla finalità dell’educazione, riprendendo le istanze più significative della tradizione pedagogica cristiana, arricchita dal dialogo fecondo con autori contemporanei. A partire dalla fine degli anni Venti, intensa fu la relazione di Giovanni Modugno con il gruppo di pedagogisti cattolici che si raccoglieva in quel di Brescia intorno alla casa editrice La Scuola, fondata nel 1904, ed alla rivista Scuola Italiana Moderna, nata nel 1893. Il medesimo milieu cattolico in cui, com’è noto, nacque (nel 1897) e si formò un giovane sacerdote (proclamato santo nel 2018), don Giovanni Battista Montini (il cui padre, l’avvocato Giorgio, era stato tra i fondatori della casa editrice), che alle posizioni di Giovanni Modugno fu certamente vicino, anche attraverso la filosofia della persona di Jacques Maritain (1882 – 1973).  

Nel gruppo di docenti e pedagogisti cattolici bresciani e nelle loro iniziative, di cui fu ispiratore e sodale anche attraverso il suo discepolo e figlioccio Matteo Perrini (1925 – 2007), Giovanni Modugno trovò quella consonanza intellettuale e religiosa che spesso gli mancò in Puglia, una sorta di accogliente “rifugio” ma anche la possibilità di incidere nella scuola militante: basti pensare alla comunanza di interessi e alla sua consonanza intellettuale con Laura Bianchini (1903 – 1983), docente di filosofia bresciana e madre Costituente.  

Anche dopo la seconda guerra mondiale, Giovanni Modugno continuò a collaborare con Scuola Italiana Moderna, la rivista scolastica più diffusa tra i docenti di scuola elementare, ed ispirò anche una filiazione diretta del gruppo bresciano: il “gruppo di maestri sperimentatori” di Pietralba (BZ),  dal nome dalla località dolomitica nella quale il gruppo si riunì per la prima volta nel 1948, cui partecipò anche un altro grande pedagogista pugliese, allora appena venticinquenne, suo allievo all’Istituto Magistrale di Bari: Gaetano Santomauro (1923 – 1976).  

 

Giovanni Modugno riconosce che la pedagogia è la “scienza della vita”: si preoccupa di affinare una riflessione rigorosa ma anche che manifesti un’efficacia pratica, fondata su principi e valori saldi, applicabili sia alla prassi quotidiana, scolastica e non. Per Modugno, la scienza della vita costituisce la risposta più significativa all’esigenza di riaffermare il primato della moralità, della razionalità e della spiritualità, come qualità peculiari di ogni persona che impara a riconoscerle come espressioni ineludibili della propria dignità e della propria coscienza morale.

Giovanni Modugno ricerca sempre il “perfezionamento interiore” anche nei momenti più drammatici della sua vita personale, come nel 1934, con la precoce morte dell’unica figlia Pina. Evento – collegato con altri lutti familiari (i genitori) – che interroga la coscienza del pedagogista. Quando la figlia si ammala, il progetto del Modugno è di lavorare per ‘cristianizzare la vita’, in lui e attorno a lui. E’ convinto che le disuguaglianze sociali e le miserie non si eliminano soltanto con le leggi e le riforme, ma con l’amore. La vera riforma interiore consiste nel disporsi a comprendere i bisogni di ciascuna persona in difficoltà e nel sentirsi responsabili se manca il necessario per vivere.

I motivi fondamentali che accompagnano la vita di Modugno sono quelli di ‘ascendere insieme’, ‘salire alla sublime vetta’,‘aiutare gli altri a salire’: l’insegnamento gli consente di adempiere a questa sua idea. Nella prospettiva del suo pensiero, la religione costituisce il principale centro d’interesse dell’intero curricolo scolastico, oltre che il contenuto più significativo della scienza della vita. Essa è la guida per cogliere nella vita concreta le relazioni tra le singole azioni ed i principi della ragione e della morale. Con la didattica della ‘provocazione riflessiva’, stimolata dal docente, la pratica del riflettere durante le lezioni li sollecitanella chiarificazione dei criteri direttivi e li pome nelle condizioni di osservare, giungendo a scoprire le istanze più profonde della vita.

 

3. GIOVANNI MODUGNO VIVANT

Riflettere oggi, nel terzo decennio del XXI secolo, sulla figura, sul pensiero e sulla storia di Giovanni Modugno, “cercatore di Cristo” ed “apostolo dell’educazione” è un atto “rivoluzionario” nella sua essenza, che modifica radicalmente i paradigmi del pensiero corrente, spesso incentrato sui tecnicismi della pedagogia– declinati in tutte le sue branche – e della scuola, piuttosto che sulla persona, quale punto di imputazione ultimo di ogni azione educativa.

Questo è il continuum che attraversa la vita di Giovanni Modugno, anche prima di insegnare, quando, da giovanissimo, iniziò ad impegnarsi nelle vicende della politica della sua città, in solido con lo storico molfettese Gaetano Salvemini (1873 – 1957), cui lo unì un lunghissimo sodalizio intellettuale e politico, nonostante le diverse posizioni, che ha attraversato la storia italiana dai primi anni del XX secolo agli anni ’50 del medesimo.Pressocché coetanei, furono entrambi “figli”, molto diversi tra loro, della medesima temperie culturale, quella positivistica, da cui furono entrambi però sempre alieni, giungendo a posizioni politiche diverse che avevano in comune l’impegno infaticabile e diuturno per il riscatto dei contadini meridionali rispetto ai soprusi dei latifondisti assenteisti, attraverso la conquista del primo e più fondamentale dei diritti, quello all’istruzione.   

Il fulcro dell’attività di Giovanni Modugno – che volle essere sempre “maestro di maestri” – fu sempre l’educazione dei giovani al pensiero critico, lontano da ogni possibile strumentalizzazione da qualunque “luogo” essa provenisse. Egli non fu mai uomo “di parte”, rifiutò sempre per se stesso incarichi, cariche ed onori di ogni tipo, proprio per conservare la sua libertà di pensiero: com’è noto, rifiutò la carica di Provveditore agli studi di Bari, sia nel 1923, quando gli fu proposta da Giuseppe Lombardo-Radice (1879 – 1938) perché temeva che avrebbe dovuto venire a compromessi con il fascismo, sia dopo la seconda guerra mondiale, quando fu invitato a ricoprire la medesima carica da Tommaso Fiore (1884 – 1973), a nome del Comitato di Liberazione Nazionale. Parimenti, non a caso, nel 1929, fu assordante il suo silenzio – in un’Italia osannante – di fronte alla firma dei Patti Lateranensi, che, com’è noto, ponevano fine alla sessantennale “questione romana”.

Questa missione – cui adempì senza deroga alcuna – non gli impedì di mantenere relazioni intellettuali con i più sensibili ed insigni pedagogisti del suo tempo, a cominciare dalla “scoperta” di Friedrich Wilhelm Foerster (1869 – 1966) e Josiah Royce (1855 – 1916). Con ed attraverso di loro, Giovanni Modugno difese la persona umana, la sua dignità e la sua libertà interiore, trovando nel cristianesimo, inteso come “fede nella Resurrezione”, il miglior fondamento per conseguire questo obiettivo. In quest’opera educativa, massima era la sintonia del pedagogista con l’allora Arcivescovo di Bari, Mons. Marcello Mimmi (1882 – 1961), di cui condivideva in toto il metodo pastorale.

La cifra di tutta l’esistenza del pedagogista che si può compendiare nel titolo del volume – pubblicato dieci anni dopo la sua scomparsa, a cura dell’amatissima moglie, Maria Spinelli Modugno – Giovanni Modugno. Io cerco l’Eterno: mediante un’ascesa interiore, mai disgiunta dall’adempimento del dovere della missione educativa, indirizzata alla conquista, da rinnovare continuamente, della libertà, della coscienza critica e della dignità della persona umana. Un’eredità pedagogica e morale da raccogliere e praticare con rinnovata lena anche, se non soprattutto, nelle scuole di ogni ordine e grado. 

Quella ‘coscienza critica’ di cui oggi – dopo oltre sessanta anni dalla sua morte – si avverte uno smisurato bisogno: VINCENZO ROBLES, da storico, con i suoi volumi, ne rende seriamente consapevoli noi tutt*, uomini del XXI secolo, persone di scuola e non.

4. EPILOGO “APERTO”

Più che un epilogo – per quanto aperto – mi piace avanzare una proposta concreta per continuare a riscoprire e valorizzare il pensiero di Giovanni Modugno nel XXI secolo. Mi piace avanzarla qui in un luogo simbolo della sua città natale, alla presenza delle autorità civili e religiose e di tanti illustri esperti.

Come si è diffuso nella scuola barese, pugliese ed italiana, forse melgré lui, il pensiero di Giovanni Modugno? A questa domanda,penso, si possa dare una risposta certa: attraverso i suoi studenti cui è toccato in sorte di averlo avuto come docente, prima a Corato, per sette anni, poi. dal 1920 al collocamento in quiescenza. presso l’Istituto Magistrale “Giordano Bianchi-Dottula” di Bari.

Essi hanno “abitato” ed “innervato” la scuola – segnatamente e prioritariamente quella elementare – barese, pugliese e non solo portando nella loro attività didattica e professionale gli insegnamenti ricevuti. Sarebbe molto interessante – non certo per mera erudizione storiografica – ricercare i loro nomi, la loro provenienza geografica attraverso i registri del prof. Giovanni Modugno, raccolti nell’archivio storico dell’istituto scolastico frequentato.

Consultando quell’archivio, tanto si potrebbe scoprire su Giovanni Modugno e sulla storia della scuola pugliese: potrebbe essere un ottimo argomento per un’efficace e non convenzionale attività di Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (vulgo PCTO, come negli acronimi di cui è saturo lo ‘scolastichese’, nota neolingua iniziatica), ovvero, anche per tesi di laurea (triennali, magistrali e di PhD) sicuramente molto interessanti e nietzscheanamente “inattuali”.

Del resto, l’influenza del pensiero di Giovanni Modugno,attraverso i suoi studenti del “Bianchi–Dottula”, ha anche travalicato anche i confini della scuola e della pedagogia: basti ricordare anche soltanto il nome di uno di loro, divenuto un Maestro del Diritto dell’Università degli studi di Bari (e tantissimo altro…), il prof. Renato Dell’Andro (1922 – 1990).

Ma questa sarebbe un’altra storia, che mi ricondurrebbe alla mia ormai remotissima adolescenza… 

 

5. BIBLIOGRAFIA

 

• AA.VV., Maestri del senso: competenze e passione per una scuola migliore, a cura di DE NITTI, CARLO e LAVERMICOCCA, CARLO, Bari 2023, Ecumenica editrice, di prossima pubblicazione;

• CAPORALE, VITTORIANO, Educazione e politica in Giovanni Modugno, Bari 1988, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, Giovanni Modugno. Un pedagogista del Sud, Bari 1995, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, Giovanni Modugno. Pedagogia Scienza della Vita, Bari, 1997, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, La proposta pedagogica di Giovanni Modugno, Bari, 2004, Cacucci;                                                                                                              

• CAPORALE, VITTORIANO, Pedagogia e vita di Giovanni Modugno, Bari 2006, Cacucci;

• CAPURSO, GIOVANNI, Due Maestri per il Sud: Gaetano Salvemini e Giovanni Modugno, Corato, 2022, SECOP;

• MICUNCO, GIUSEPPE, La buona battaglia. Santità e laicità in Giovanni Modugno, Bari, 2013, Stilo editrice;

• ROBLES, VINCENZO, Giovanni Modugno. Il volto umano del Vangelo, Bari, 2020, Edizioni Dal Sud;

• ROBLES, VINCENZO, Giovanni Modugno e il suo “rifugio”bresciano, Bari, 2022, Edizioni Dal Sud;

• ROBLES, VINCENZO – AUFIERO, ARMANDO, Giovanni Modugno: il volto umano del Vangelo in AA.VV., Op. cit.;

• SANTOMAURO, GAETANO, Giovanni Modugno attraverso gli inediti, «La Rassegna pugliese», 1969, 4-5, pp. 3 – 22;

• SARACINO, DOMENICO, Giovanni Modugno. Politica, cultura e spiritualità in un cercatore di Cristo, Bari 2006, Stilo editrice; 

• SPINELLI MODUGNO, MARIA, Giovanni Modugno. Io cerco l’Eterno, Bari 1967, Editoriale Universitaria.

 

Et si parva licet …

• DE NITTI, CARLO, La missione educativa di Giovanni Modugno e la sua attualità nel XXI secolo. Nota a margine di una recente biografia del pedagogista bitontino, ”Educazione & Scuola”, XXVI, marzo 2021, 1123;

• DE NITTI, CARLO, In difesa del Sud: storia dell’amicizia di due Maestri tra Molfetta e Bitonto, ”Educazione & Scuola”, XXVII, settembre 2022, 1141; 

• DE NITTI, CARLO, Giovanni Modugno: un “cercatore di Cristo”, apostolo dell’educazione, in VINCENZO ROBLES, Giovanni Modugno e il suo “rifugio” bresciano, Bari 2023, Edizioni Dal Sud, pp. 9 – 12.

S. Jackson, La strega

Shirley Jackson, un problema senza fine

di Antonio Stanca

   Era successo altre volte e si è ripetuto adesso: dei tanti racconti della famosa scrittrice americana Shirley Jackson la casa editrice Adelphi ogni tanto ne ristampa alcuni riunendoli in un breve volume. Il più recente è di quest’anno, s’intitola La strega, comprende quattro racconti che sono comparsi molto tempo fa e che sono stati tradotti da Silvia Pareschi.

    La Jackson è nata a San Francisco, California, nel 1916 e a soli quarantanove anni, nel 1965, è morta a Bennington, Vermont. A portarla ad una morte così precoce sono stati l’alcol e i tranquillanti. Erano i modi con i quali cercava di arginare, contenere le crisi depressive che continuamente la assalivano. Risalivano al difficile rapporto che fin da bambina aveva avuto con una madre che la disprezzava, la rifiutava, e all’altro non meno difficile rapporto col marito. Molti impedimenti, molti ostacoli c’erano stati per lei e nonostante tutto aveva raggiunto certi risultati: si era laureata, aveva avuto quattro figli ed era diventata una scrittrice nota non solo in America. Nella narrativa aveva esordito nel 1941 con la novella My life with R. H. Macy. Avrebbe continuato a scrivere soprattutto romanzi e racconti, molti ne avrebbe scritto, molti riconoscimenti, molte traduzioni avrebbe ottenuto. Alcune sue opere sarebbero state adattate per il teatro. Tanto successo ha avuto nonostante i suoi temi si ripetano, ricorrano sempre. Li aveva derivati dalla sua esperienza famigliare e coniugale, dalle pene che entrambe le avevano procurato, dalle tristi condizioni alle quali l’avevano portata. Dalla sua vita era passata, nelle opere, a quella di altre donne, di molte altre, di tutte quelle che nell’America di allora, anni ’50, vedeva vittime di un ambiente improntato al maschilismo, volto a fare della donna una subordinata, una dipendente, a limitarla, ridurla nelle intenzioni, nei propositi in casa e fuori. La famiglia, le sue colpe, la donna, le sue pene: saranno questi i motivi dell’intera produzione della Jackson. Non si stancherà mai di rappresentare quelle situazioni di sofferenza, di esclusione, di negazione riservate alle donne del suo tempo. Erano state anche le sue, l’avevano fatta soffrire, l’avevano portata alla morte ma non senza aver dato voce ad una protesta, una contestazione, un’accusa, non senza aver fatto letteratura, arte di quella che era vita sua e delle altre. Se ancora adesso si ristampano le sue cose significa che importante è stato il loro contributo, che della storia sono entrate a far parte, che di tutti sono diventate.  

   Dei quattro racconti de La strega i primi tre riguardano i rapporti tra genitori e figli, figli piccoli, adolescenti. Mostrano quanto di errato può succedere tra i grandi e come si possa riflettere nel comportamento dei piccoli, come possa farlo diventare irregolare e a volte dissoluto. Il quarto racconto dice di una giovane signora, Clara, che da una città vicina si reca a New York per curarsi un dente o estrarlo. Viaggia in autobus, parte una mattina molto prima dell’alba, lascia a casa il marito e il bambino, cambia spesso autobus, il buio tutt’intorno è interrotto solo dalle luci delle stazioni di servizio e dei locali annessi, rimane indifferente a quanto avviene, sembra presa solo dal suo mal di denti, senza cura si è vestita, sempre sola sta e negli ultimi posti degli autobus, tende ad addormentarsi, il viaggio è lungo e solitario. Arrivata a New York dovrà passare attraverso molti uffici prima di raggiungere lo studio del dentista. Estratto il dente tornerà per strada e qui ricomparirà quel distinto, garbato signor Jim che aveva conosciuto nelle ultime stazioni di servizio. Con lui aveva scambiato poco, solo qualche parola ma ora gli si unisce e insieme fuggono dalla metropoli, dalla loro vita precedente, vanno lontano da tutto. Molto, quindi, soffriva in casa Clara se così strano era stato il suo comportamento per l’intero viaggio, il suo rapporto col dentista, se è bastato il semplice garbo di quel Jim a farle cambiare tutto nella vita. E tanto soffrivano pure i tre bambini dei precedenti racconti se a volte insolenti erano stati. Altri esempi sono i loro casi e quello di Clara dei temi propri della Jackson, la famiglia, la donna. Ancora una volta di essi ha trattato, in essi si è trasferita, di sé, bambina e moglie, di atmosfere cupe, inquietanti è stata la scrittrice. Si ripete ma non stanca la Jackson perché sempre nuove sono le situazioni che crea per svolgere i suoi problemi. È un modo per dimostrare quanto estesi, quanto diffusi essi siano.

C. e G. Crapis, Umberto Eco e la politica culturale della Sinistra

Contaminando “alto” e “basso”
ovvero quando in Italia esistevano gli intellettuali …

di Carlo De Nitti

Non vi è chi, oggi, non pensi che ad Umberto Eco (1932 – 2016) si possa attagliare – ritiene chi scrive queste righe – la definizione che Antonio Gramsci (1891 – 1937) coniò per Benedetto Croce (1866 – 1952), quella di “Papa laico”: il grande semiologo che poteva – absit inuria verbis –  spaziare nei suoi interventi a 360 gradi con riconosciuta autorità.

In questo recente saggio, Umberto Eco e la politica culturale della Sinistra, dovuto all’impegno di due studiosi attenti quali i fratelli Claudio e Giandomenico Crapis, pubblicato presso la prestigiosa casa editrice La Nave di Teseo, di cui Umberto Eco è stato il nume tutelare fin dalla fondazione (nel 2015), nella collana ”i Delfini”. Gli Autori scandagliano, da par loro, un argomento davvero interessante: non soltanto la personalità del filosofo piemontese ma anche una certa temperie politica e culturale, un pezzo di storia del nostro Paese.

Questo volume è la prosecuzione ideale di un altro testo dei medesimi autori, intitolato Umberto Eco e il PCI. Arte, cultura di massa e strutturalismo in un saggio dimenticato del 1963, dato alle stampe nel 2017 per i tipi della casa editrice emiliana Imprimatur.

Agli inizi degli anni ’60, un giovane Umberto Eco – allievo di Luigi Pareyson (1918 – 1991), proveniente dall’Azione Cattolica, poco più che trentenne – pubblicava sulla rivista “Rinascita” – fondata nel giugno 1944 (dopo la cosiddetta “svolta di Salerno”) e diretta da Palmiro Togliatti (1891 – 1964), segretario generale del Partito Comunista Italiano – un saggio che si potrebbe definire ‘dirompente’.

Ai più giovani tra i lettori del volume (et si parva licet… di queste poche righe) giova ricordare che “Rinascita” ha rappresentato, a partire dalla sua fondazione, con la sua presenza costante nel dibattito politico-culturale italiano, lo strumento di elaborazione e di diffusione della politica culturale del P.C.I. Pur essendo una rivista di diretta emanazione del vertice politico del Partito Comunista Italiano, ospitava articoli ed interventi anche di intellettuali di formazione diversa o, comunque, non necessariamente marxisti ‘ortodossi’ ed ‘organici’ (come allora si diceva) al Partito.

L’intervento di Umberto Eco sposta il piano della discussione: “Per la prima volta, dunque, e con uno sforzo intellettuale originale e brillante, venivano messe in discussione su una rivista marxista, anzi sulla rivista diretta dal leader del partito, le estetiche, le analisi, i giudizi che buona parte della cultura di Sinistra aveva sedimentato, nonostante le numerose eccezioni, fino ad allora” (p. 66).

Proprio per questa ragione, il saggio di Eco – in questo volume, ripubblicato nel capitolo 3 – suscita una vasta risonanza polemica, tant’è che, sulla medesima rivista, appare un articolo di Rossana Rossanda (1924 – 2020) – allieva di Antonio Banfi (1886 – 1957), dalla fine del 1962, responsabile della politica culturale del P.C.I. – dal significativo titolo Per una cultura rivoluzionaria, quale risposta ‘ufficiale’ alle ‘pro-vocazioni’ del giovane ‘compagno di strada’. E’ così che Rossana Rossanda (La ragazza del secolo scorso di parecchi decenni dopo) definisce Eco a conclusione del suo testo, accomunandolo nominalmente, ad esempio, al filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre (1905 – 1980) ed alla ‘fille rangée’, Simone de Beauvoir (1908 – 1986).

Alla sua interlocuzione, seguirono gli interventi di altri protagonisti della cultura di sinistra, con posizioni diversificate: una bella discussione a più voci, che, di sicuro, giovava alla cultura nel nostro Paese. Da Carlo Levi a Tullio Aymone, da Edoardo Sanguineti a Mario Spinella, da Luciano De Maria a Massimo Pini, da Louis Althusser a Luigi Pestalozzi: la provocazione di Eco aveva di sicuro lasciato un segno tangibile e profondo nella cultura di sinistra.                                  

In quel remoto saggio di Eco, c’è in nuce il pensiero del semiologo così come si sarebbe sviluppato nei cinque decenni successivi: a questo tema – dopo un’attenta disamina del saggio, è dedicato il capitolo 5 del volume di cui qui si discute. “La premessa fondamentale è che i prodotti della cultura di massa siano degni di studio al pari della cosiddetta cultura ‘alta’. Eco, infatti, superando la distinzione tra cultura alta e bassa, pone per la prima volta con chiarezza sullo stesso piano, il testo estetico e il prodotto della cosiddetta cultura di massa” (p. 178).

Con questo saggio, Eco assume le categorie marxiane (ed il marxismo) “come strumento e suggestione di ricerca, ma invita ad affiancarlo ad altri metodi” (pp. 179 – 180). Attraverso i quesiti che Eco pome si avvicina al metodo gramsciano: “Gramsci ed Eco condividono l’attenzione ai meccanismi della ricezione, alle esigenze dei fruitori, alle forme culturali ‘basse’ o marginali, che consentono per entrambi preziose osservazioni sulla ‘filosofia’ dell’epoca. Li accomuna anche la consapevolezza dell’esistenza di scambi bidirezionali tra cultura ‘alta’ e ‘bassa’, la lettura non deterministica del rapporto tra struttura e sovrastruttura, nella convinzione che il controllo dell’industria culturale giochi un ruolo chiave nel mantenere l’’egemonia’, l’attenzione al ruolo svolto dagli intellettuali” (pp. 197 – 198).

Non vi è chi non veda, in questi passaggi, l’Umberto Eco storico dei modelli culturali: la forza delle tesi dell’intervento di Eco consiste […] nel suo valore di ipotesi, ossia nella sua capacità di approfondirsi sviluppandosi teoricamente” (pp. 215 – 216). Il suo saggio su Rinascita, sessant’anni dopo la sua pubblicazione, “ha ancora molto da dirci – sia direttamente sia indirettamente – con metodo e freschezza immutata. In fondo Eco ci ha insegnato che c’è sempre qualcosa in più da osservare e capire.  Che si può capire. Che si deve capire” (p. 216).

Il volume è corredato/arricchito da una cospicua Appendice in cui sono riprodotti, per la prima volta in volume, cinque articoli di Umberto Eco – pubblicati su Corriere della sera, Quindici e Sipario – la cui meditata lettura non può che ulteriormente legittimare la ricostruzione e l’interpretazione del pensiero echiano, che hanno realizzato Claudio e Giandomenico Crapis, studiosi di comprovato valore ed esperienza, che, in questa sede, si è cercato di sunteggiare.

Chi scrive ritiene che, ad Umberto Eco – e, spero, anche agli autori di questo volume – non sarebbe dispiaciuta una conclusione di questo testo che prendesse a prestito le parole di un eccellente cantautore e scrittore, Roberto Vecchioni: “Formidabili quegli anni / Quando dicevamo d’essere compagni / Una così lieve e fragile parola / Scritta sopra il vento della storia”…