Incontro con Emanuela Da Ros

INTERVISTA ALLA SCRITTRICE EMANUELA DA ROS

 di Mario Coviello

 

Emanuela Da Ros con “ Odio la matematica”, Le Nuove Edizioni Romane, sarà nelle scuole di Bella,San Fele, Rionero,Filiano e Baragiano nei giorni 27,28 e 29 febbraio 2012.

Per la Quinta edizione del Torneo di Lettura  tra undici scuole in rete della provincia di Potenza gli alunni della scuola media  hanno gareggiato rispondendo a domande sul libro della Da Ros nella fase interna del  Torneo.

Odio la matematica  in forma di brillante diario, riservato ai ragazzini dai 9 anni in su, parla di come risolvere le «faccende di matematica» con ironia. Scritto con la consulenza di Eugenio Cecchinel, insegnante al Casagrande di Pieve di Soligo e le illustrazioni di Gianni Peg, Da Ros sceglie come protagonista Leonardo, un ragazzino di 10 anni che ha qualche problema con la matematica. Alla maestra Flora che gli propina i problemi da risolvere, offre soluzioni non con i numeri, ma «filosofiche». Il libro, diviso in tredici storie, ha per ognuno un problema. C’è quello della lumaca, del batticuore, degli aerei, del ritardo, dell’indigestione, dello struzzo e così via. Leonardo interagisce con diversi personaggi: dalla zia Wanda, alla maestra Flora, al primo della classe Filippo-Pippo, alla mamma che lo spinge a fare sport.

Emanuela Da Ros nata a Vittorio Veneto il 24 dicembre 1959 è una giornalista, docente e scrittrice italiana, specializzata in libri per ragazzi.

Dopo il conseguimento della laurea in Storia dell’Arte bizantina presso l’Università di Padova, Emanuela Da Ros si dedica all’insegnamento (è docente di Italiano e Storia presso una scuola superiore di Vittorio Veneto) e contemporaneamente al giornalismo (dal 1997 è iscritta all’Albo dei Giornalisti del Veneto).

Il suo esordio nel mondo della letteratura per ragazzi avviene nel 2000 quando, a Bologna, nell’ambito della Fiera internazionale del Libro per Ragazzi, vince il premio Pippi Calzelunghe nella sezione inediti .

L’anno successivo Feltrinelli pubblica Il giornalino Larry, tradotto in Germania da Dressler Verlag nel 2004. È attualmente la direttrice del giornale Quindicinale e del quotidiano online oggitreviso.it. Ha due figli: Stefania e Umberto.

Abbiamo rivolto alla scrittrice alcune domande. Ecco le sue risposte

“ Caro Mario (bando alle formalità!), sono felice del tuo giudizio sul libro. Ne sono lusingata.

Scrivo con grande passione e spero di trasmetterla anche attraverso piccoli libri come i miei a lettori che adoro: i bambini, gli adolescenti.

Ma ne parleremo a voce, visto che presto avrà la fortuna di essere tra voi.

Cercherò di rispondere alle tue domande (alcune delle quali sono davvero impegnative).

Chi è Emanuela Da Ros?

Emanuela Da Ros. Sono una donna in bilico tra tanti, forse troppi, impegni. Tra tante, forse troppe, occupazioni. Da vent’anni insegno in una scuola superiore (un tecnico alberghiero); da vent’anni faccio la giornalista; da vent’anni sono mamma; da dieci anni (più o meno) scrivo libri per ragazzi. Non dovrei dire che l’attività di autrice è quella che mi dà più soddisfazioni, ma scrivere per ragazzi (oltre a cercare di fare la mamma senza troppi sensi di colpa) è forse l’attività che vivo con maggiore intensità, emozione, appagamento. Mentre dichiaro questo, in realtà, penso che anche la professione dell’insegnante e della giornalista mi coinvolgono moltissimo. Adoro stare con i ragazzi (i miei allievi sono adolescenti) e non riuscirei a stare lontana da questa bistrattatissima scuola senza sentirmi…vuota. Sto scrivendo un po’ a braccio senza dare di me quelle indicazioni biografiche che magari tu cercavi e che ti allego in calce. Il fatto è che la tua domanda mi spinge a guardarmi dentro. E osservandomi mi vedo sì in perenne movimento, in costante divagare tra un’occupazione e l’altra ma vedo anche una donna che ama davvero tutto quello che fa. Anche quando (succede spesso!) pensa di farlo in modo inadeguato.

Perchè scrivi?

Perché scrivo. Scrivo perché ne ho bisogno. Perché lo scrivere – col tempo – è diventato il mio modo privilegiato di comunicare. Scrivo perché scrivere mi diverte. Mi aiuta a superare le difficoltà, a fare chiarezza nelle esperienze, nel mio stato d’animo. Scrivo perché trovo che la mia catarsi sia mettere nero su bianco pensiero e emozione, commozione, sdegno, felicità… Scrivo perché ho scoperto che qualcuno che mi legge con piacere. Non è vero che chi scrive lo fa solo per se stesso: ciascuno di noi ha la necessità di trovare in altri condivisione, sostegno, amicizia, affetto, corrispondenza di sensazioni (tanto per parafrasare Foscolo). Sono convinta che, nonostante il bieco spirito individualistico che a volte qualche personaggio ostenta, troviamo felicità e pienezza solo nell’incontro con gli altri. Pur dentro i nostri appartamenti-scatole, pur dentro le nostre esistenze a volte pre-confezionate siamo “animali sociali”. La reciprocità, i rapporti autentici sono le mete a cui non possiamo abdicare se vogliamo continuare a vivere. e a evolvere.

Probabilmente sto scrivendo banalità, ma voglio essere schietta e rispondere senza remore…

Come mai ha deciso di scrivere per i bambini e i ragazzi?

Forse perché sono rimasta molto bambina e molto ragazz(in)a. Forse perché sono una mamma e un’insegnante. Forse perché sono sempre stata circondata da bambini e ragazzi e con loro ho trovato e vissuto momenti di autentica felicità. Forse perché mi piace l’idea di essere autentica, schietta, fragile, aperta al mondo nonostante il mondo, proprio come lo sono i bambini e i ragazzi.

A che tipo di storie preferisci dedicarti?

Storie umoristiche, storie che facciano sorridere e che non siano troppo lontane dalla realtà, ma nemmeno dalla fantasia. Storie in cui ci si possa riconoscere e ritrovare, per scoprirsi un po’ diversi da come a volte si crede di essere.

Ci racconti quando scrivi, il tuo tavolo da lavoro, e se preferisce la carta o il pc?

Scrivo quando posso, negli attimi in cui mi viene il bisogno o la voglia impellente di scrivere per scrivere. Non scrivo quanto vorrei. O meglio: non dedico alla scrittura creativa il tempo che vorrei che avesse: un tempo che dilata il mio tempo quotidiano, la mia giornata.

Scrivo su iMac, con la melina masticata che mi strizza l’occhio. Non uso carta e penna che per prendere appunti sparsi e molto disordinati. Scrivo di getto, rileggendo i testi un bel po’ di tempo dopo che hanno preso forma. A volte mi capita di cestinare gran parte delle frasi scritte. A volte no: scopro che mi piace rileggermi.

Ci sono delle consuetudini, situazioni o atmosfere che cerchi di ritrovare o ricreare perché aiutano il suo processo creativo?

No. Non esattamente. Ma mi piace scrivere in penombra, magari con qualche candelina accesa intorno. Pure in agosto!

Ha mai sognato il personaggio di una delle sue storie dopo averlo inventato?

No. Ma l’ho amato. Fa lo stesso?

Sei scrittrice, insegnante,giornalista,madre come riesci a conciliare tutto questo ? Dove riesci meglio?Quale di questi aspetti di Te preferisci?

Come riesco a conciliare i miei lavori svariati? Forse, in parte, ho già risposto a questa domanda. Riesco a stare in equilibrio tra tanti impegni perché ogni attività mi gratifica, perché ognuno di questi impegni per me ha valore. Anche quando la fatica s’insinua più o meno latente in quello che faccio. Anche quando avverto che il mio lavoro non è capito. Anche quando ricevo delle delusioni, che sono inevitabili…

Vivi tra gli adolescenti e i giovani. Secondo te come sono, di che cosa vivono? Di cosa hanno bisogno?

I ragazzi. I ragazzi sono fonte di vita. Sembra retorico, lo so. Ma io lo penso davvero! Con alcuni alunni (pochi, per fortuna…altrimenti mi sentirei molto  triste/frustrata) non ho un buon rapporto: sento la loro diffidenza, la loro chiusura. E faticosamente ripeto a me stessa che simpatia e empatia non possono dilagare…Ma io amo gli adolescenti: fragili, insicuri, poveri di mete, di valori, di obiettivi…perché sono stati privati da una società banale più che brutale di punti di riferimento importanti. Ma i ragazzi hanno una forza sorprendente. Sopratutto prima di diventare “adulti” riescono a cogliere e intuire la bellezza della vita, senza le infrastrutture mentali che poi imprigionano, omologano la maggior parte dei “grandi”.

Di che cosa vivono i ragazzi? di poco, di sogni, di amicizie, di affetti. D’amore. hanno bisogno d’amore, di ascolto, comprensione. Di orientarsi. Di capire. Di trovarsi.

Tra i libri che hai scritto quale è quello che ti ha dato maggiori soddisfazioni, quello che preferisci?

I miei libri. Li amo tutti: potrei non farlo? In ogni libro che ho scritto c’è un po’ di me. delle esperienze fatte o mutuate attraverso i racconti degli altri. Amo il primo libro Il Giornalino Larry perché mi ha aperto la strada del mondo dell’editoria. Ma sono davvero affezionata a tutti. Anche a Odio la matematica!

Come si fa per aiutare i giovani ad amare la lettura?

La lettura si ama leggendo. Sopratutto ciò che ci piace in un determinato momento. Faccio miei i dieci imprescrittibili diritti del lettore di Daniel Pennac.

Sei un’insegnante. Secondo te quale è lo stato della scuola pubblica italiana ? Di cosa ha maggiormente bisogno?

La scuola italiana? E’ allo sbando. Burocratizzata e svuotata di energia, di consapevolezza del suo valore. La scuola ha bisogno di risorse, finanziamenti, di adeguarsi ai tempi che viviamo, di contatti/contrasti con la realtà che scorre fuori dalle aule. Gli insegnanti in genere sono bravi. Sono appassionati, ma la loro passione è costante inibita, bloccata. Ah! La scuola ha bisogno di libertà! Di respirare. E gli insegnanti hanno bisogno di sentire che il loro ruolo non è accessorio, ma indispensabile (qual è in effetti).

In questo 2012 dello spread,della crisi, del governo tecnico, come possiamo aprirci alla speranza?

Speranza. Possiamo aprirci alla speranza credendo in quello che facciamo. Non facendoci imbrigliare in luoghi comuni. Sforzandoci di essere quello che siamo, senza condizionamenti. Non è (solo) la crisi economica a farmi paura personalmente. E’ la crisi etica. E pure estetica. Il fatto di essere impermeabili ai cambiamenti. Inevitabili come le delusioni a cui accennavo. Eppure importanti, indispensabili. Ineluttabili (per fortuna)

Stai scrivendo un nuovo libro? Ce ne vuoi parlare ?.

Ho delle idee per un nuovo libro. Ma sono vaghe. Spero di metterle a fuoco presto, ma è…presto per parlarne.

C’è qualcosa che vorrebbe lasciar detto in questa intervista?

Una riflessione, un pensiero, ciò che preferisce, ci dica.

Un grazie! Scrivendo le risposte, ho sorriso.

Alcuni affermano che la letteratura per i ragazzi è di serie B. Cosa rispondere a chi la pensa così?

Se è di serie B, la serie B è bellissima!

Gesuita nella coerenza e nella generosità

GESUITA NELLA COERENZA E NELLA GENEROSITA’

di Vincenzo Andraous

Quando si parla o si scrive di una persona che non c’è più, a cui ci si è legati per un lungo tragitto di vita insieme, a dispetto di qualsiasi avversità, c’è sempre il rischio di  incorrere in una idealizzazione, di appiccicare addosso medaglie e nastrini, sommando parole che non confortano il dolore di questa assenza.

Padre PierSandro Vanzan non era solamente un Gesuita senza paura, un giornalista e uno scrittore arguto e instancabile di Civiltà Cattolica, della carta stampata, è stato soprattutto un amico, un fratello, un padre, e un orizzonte a vista per tutti noi della Comunità Casa del Giovane, una “consueta” coscienza critica, a volte aspra e ammonitrice, ma sempre colma di amore, in nome dell’amicizia con don Enzo Boschetti, fondatore di questa grande casa-comunità di servizio-terapeutica.

Pochi mesi fa era tornato nuovamente tra noi per svolgere ulteriori esami clinici dal Prof. Viganò, con il quale era nato un rapporto affettivo bellissimo, basato sulla stima reciproca. Stava in mezzo a noi con il passo più lento, con l’udito meno buono, ma con la mente lucida di chi non aveva timore di sporcarsi le mani nel dolore e nelle tragedie degli uomini.

Per ogni suo amico, sono certo, ci sarà un momento di sbandamento, ma altrettanto convintamene, indipendentemente dalla fede che si professa, c’è bisogno di ricordare ciò che questo uomo diceva, scriveva, faceva, perché da questa esperienza personale e comunitaria potranno sorgere e rafforzarsi nuove energie cui fare leva, nuove forze interiori per imparare a amare con ardimento: i Santi non sono cartoline illustrate da acquistare nei giorni di festa, ma il respiro di cui non possiamo fare a meno per avere fede e credere a quella Croce dove ora Padre Vanzan sta al suo legno.

Per chi segue il solco di un Vangelo mai ripiegato su se stesso, non è difficile tradurre dalle intenzioni di tante storie tramandate, più che mai attuali, lo stile di vita, i comportamenti quotidiani, e non è irriguardoso accostare Padre Vanzan a un prosieguo della storia più antica e giovane, per continuare ad avvicinare le parole che ci ha lasciato, senza per questo disegnare una verità folgorante che gia c’è, il rischio è più palese e vicino alla terra sotto i nostri piedi, cioè di raccontare e narrare senza sosta la vita di quel legno stretto alle sue mani, facendo ulteriore prossimità con Dio, e non più a quel dubbio che ci serve a nascondere le nostre stanchezze, i nostri limiti, le nostre incapacità ad abbandonarci a ciò che è.

Nei tanti anni che ci hanno visti accanto, ho conosciuto “sottopelle” Padre Vanzan, siamo stati insieme, come lo è stata tutta la Casa del Giovane, fino a diventare la sua grande casa, non era mai un pensiero scontato, non era semplice seguire le sue tracce, le sue orme, perché a volte parevano così profonde da incutere timore, manco fossero di un orso eretto al cielo.

Sono tanti gli episodi che danno l’idea del carico di autorevolezza di questo sacerdote profeta nella santità profetica di chi lo attraversava e accompagnava come don Enzo Boschetti e le sue intuizioni, la sua vista prospettica, il coraggio delle scelte, la generosità della coerenza. Insieme hanno cresciuto un albero della vita importante, la Casa del Giovane, una radice formidabile perché affondata nel loro amore.

L’intensità della passione quando postulava Giovanni Palatucci, il famoso Questore buono, la sua capacità di raccontare quanta giustizia albergava nel cuore di questo funzionario di Polizia, di questo uomo delle istituzioni, e di quanto un uomo possa scegliere di essere giusto, mentre è schiacciato e ucciso dall’ingiustizia più inenarrabile.

C’è un bisogno sincero di onorare persone come queste, di ancorarle al cuore, alla vita spirituale di ognuno, alle fatiche dell’esistenza, per farne esempio da rileggere ogni volta che servirà.

I neuroni specchio, la didattica trasmissiva e…Vales

I neuroni specchio, la didattica trasmissiva e…Vales

di Cinzia Mion

 

Mi sono spesso chiesta, durante le mie peregrinazioni in giro per l’Italia a fare formazione ad insegnanti e dirigenti scolastici, cosa mai impedisse la ricaduta, a livello della propria pratica professionale, di quegli apprendimenti che loro stessi dimostravano teoricamente di apprezzare e di comprendere.

Quando ho scoperto Jack Mezirow e le sue ricerche sull’”apprendimento trasformativo” degli adulti – apprendimento così difficile da raggiungere perchè condizionato da vecchi schemi di significato, assunti precocemente, funzionali a vecchie e superate prospettive di significato – ho subito pensato e comunicato ai vari corsisti che la ragione di tale resistenza era diventata chiara.

Mezirow infatti spiega come questi “vecchi” schemi di significato agiscono in maniera inconsapevole mediante codici percettivi e concettuali per formare, limitare e distorcere il nostro modo di pensare, di credere e di sentire, nonché il come, il cosa e il quando e il perché del nostro apprendimento. E’ inequivocabilmente dimostrato che noi, dopo certe esperienze precoci che diventano significative, tendiamo successivamente a fare nostre solo le ulteriori esperienze che corrispondono al nostro iniziale schema di riferimento interiorizzato precocemente – tacitamente attivo a nostra insaputa – e tendiamo a scartare quelle che si discostano.

I docenti e i dirigenti – tenuti e presidiare la qualità dell’insegnamento-apprendimento della scuola di cui sono responsabili – soltanto attraverso questa consapevolezza, se accettata ed assunta in tutte le sue inevitabili conseguenze, potranno approdare ad un “apprendimento trasformativo” delle loro prassi professionali o a sollecitarlo nei docenti assegnati.

 

La valutazione

Anche la famosa  prassi valutativa, messa oggi più che mai sotto la lente di ingrandimento, dovrebbe essere guardata attraverso questa consapevolezza , per provare a capire perché viene ancora confusa spesso con l’attività di misurazione e perché comunque quasi sempre viene ricondotta alla valutazione sommativa, nonostante anche le Indicazioni per il curricolo raccomandino che nella scuola dell’obbligo la funzione della valutazione debba essere soprattutto formativa.

Nonostante le critiche sociopolitiche, docimologiche e psicologiche che si sono succedute, la valutazione è rimasta identica nella maggior parte dei casi, condizionata dai vecchi schemi di significato che nemmeno la L.517 del ’77 è riuscita a scalfire.

Sono solo stati trasformati i voti numerici decimali in giudizi. Oggi invece è stato fatto il processo contrario : i giudizi sono stati ri-trasformati in voti. Il resto è rimasto tale e quale. La didattica è rimasta nella maggior parte dei casi, salvo rare eccezioni, in modo imperterrito trasmissiva , soprattutto alla scuola secondaria di primo grado e di secondo grado. La triade : spiegazione, studio individuale, interrogazione scritta od orale – con richiesta di restituzione delle conoscenze spiegate, comprese, memorizzate, quindi apprese, con misurazione-valutazione conseguente –  è rimasta in modo quasi imperturbabile immobile nel tempo.

Le ricerche della comunità scientifica di psicologia dell’apprendimento scolastico sono passate, negli ultimi 90 anni, dal modello neobehaviorista di acquisizione delle conoscenze attraverso l’addestramento ( stimolo-risposta-rinforzo) – mediante la riproposizione frequente e rituale dello stimolo, pena l’estinzione della risposta – alla epistemologia piagetiana che subordinava l’apprendimento alla formazione e maturazione di strutture mentali; “all’andare oltre l’informazione data” attraverso l’inferenza logica su base strutturalista di bruneriana memoria fino al cognitivismo che assimila la mente ad un software del computer (information processing) per approdare alla fine all’approccio socioculturale vigotskiano dove il concetto di “comunità di apprendimento” è basilare.

All’interno della comunità che apprende dovrebbe scaturire  una costante palestra di “pensieri riflessivi” che costruiscono la cosiddetta intelligenza  interattiva ed intersoggettiva in grado di dare “senso” all’attività scolastica,  attivando partecipazione consapevole ed appassionata.

Questo percorso teorico della psicologia dell’apprendimento non  ha però innovato la didattica che è rimasta come dicevo, tranne pochi casi, sostanzialmente trasmissiva.

Continua ad esistere uno iato notevole tra la cultura professionale disciplinare e anche metodologica a livello teorico – acquisita negli ultimi tempi anche all’Università attraverso le SSIS – e le  prassi didattiche dei docenti.

Soltanto le associazioni professionali dei docenti (AIMC, CIDI, MCE, ecc.) hanno costituito nel tempo delle “comunità di pratica” attive ed aggiornate nel formare gli iscritti a prassi didattiche aggiornate.

Perché allora questo ritardo?

La domanda cruciale che negli ultimi tempi rivolgo ai corsisti è “Da chi hai imparato ad insegnare? Da chi hai imparato a valutare?

La risposta , quando affiora la consapevolezza della base iniziale della professionalità, è sempre la stessa : “dai miei insegnanti!” e questo vale anche per i dirigenti, per quanto attiene la competenza valutativa nei confronti dei docenti.

Naturalmente l’hanno imparato, quasi inconsapevolmente, vedendolo fare.

 

I neuroni specchio

E qui mi viene in soccorso la recente scoperta da parte delle neuroscienze dei cosiddetti “neuroni specchio” che dimostrano come noi siamo dotati di determinati neuroni che si attivano nel nostro cervello quando osserviamo compiersi davanti a noi un atto motorio intenzionale, allo stesso modo in cui si attivano in chi compie l’atto stesso.

Questa imitazione che non è intenzionale ma automatica viene definita “simulazione incarnata” dal prof. Vittorio Gallese che, insieme al prof. Rizzolatti, ha fatto questa importante scoperta.

Avere avuto da parte di quasi tutti gli studenti italiani, a partire dagli anni 60 in poi (da quando la scuola è diventata di massa ma potremmo risalire anche a molto prima per quanto attiene la cosiddetta scuola elitaria ) un corpo docente che ha utilizzato una didattica trasmissiva frontale, ha perpetuato generazioni successive di altri docenti con la stessa automatica formazione “incarnata”.

A questo imprinting fissato precocemente attraverso la simulazione incarnata diventa molto difficile imprimere una “trasformazione”, alla luce non solo dei neuroni specchio ma anche di quello che afferma Mezirow sull’apprendimento degli adulti.

Comunque ciò potrà avvenire soltanto attraverso un “fare alternativo”  a quello introiettato.

Andando a spulciare dentro all’intervista che ho fatto a Gallese nel luglio del 2010,  pubblicata da Rivista dell’istruzione n° 6 del 2010,  Gallese afferma esplicitamente, facendo riferimento ai neuroni specchioParadossalmente ci sono due poli estremi che hanno introiettato questo modello (la didattica del fare dell’apprendistato cognitivo) :la scuola dell’infanzia , dove vedo i miei figli lavorare in questo modo, e l’istruzione post-universitaria come il dottorato di ricerca. Tutti gli altri gradi di istruzione intermedi mi sembrano ancora fermi a una concezione ormai superata della didattica.”

Sia ben chiaro, anche la didattica trasmissiva qualche volta produce dei buoni effetti. Non a caso generazioni di studenti sono diventati nel tempo eccellenti professionisti dopo una didattica scolastica trasmissiva, attraverso però un successivo adeguato apprendistato professionale. Esistono infatti processi mentali di rielaborazione ed approfondimento  in grado di creare autonomamente connessioni intelligenti tanto da rendere “significativo” e non solo “meccanico” l’insegnamento ricevuto (Ausubel).

Il problema però rimane e possiamo riformularlo in questi termini : quanti sono gli allievi in grado di attivare da soli i processi mentali cognitivi e metacognitivi tali da raggiungere l’auspicata riflessività?  Quando poi al giorno d’oggi vengono richieste non solo conoscenze ma anche competenze sia disciplinari che trasversali, opportunamente integrate a livello approfondito ed in grado di essere mobilitate in funzione del “problem solving”, ci chiediamo :- Sarà adeguata una didattica solo trasmissiva?

La risposta non può che essere negativa.

D’altronde lo affermano anche le recenti Linee Guida per gli Istituti Tecnici e Professionali per il 2° biennio e 5° anno che,  ad un certo punto, dopo aver auspicato che venga superata una impostazione tradizionale della Scuola italiana, che risente di una impostazione gentiliana difficile  da superare, recitano :”Il miglioramento della qualità dell’offerta di istruzione e formazione si realizza, inoltre,  con l’adozione di metodologie didattiche innovative…

Si fa poi riferimento ad una didattica laboratoriale, diffusa non solo alle discipline tecnologiche ma a tutte le discipline del curricolo, didattica laboratoriale improntata alla pedagogia collaborativa del compito condiviso e del progetto che rendono l’allievo protagonista dei propri apprendimenti, attraverso l’interdipendenza tra dimensione teorica e dimensione operativa delle conoscenze, fino a costruire dei saperi di tipo professionale.

 

Alla luce di queste osservazioni bisogna anche rivedere seriamente la formazione dentro al TFA.

Al  tirocinio formativo attivo va allora assegnato un compito molto impegnativo. Attualmente dubito che le Università, con i loro saperi accademici, siano in grado di ottemperare ad insegnare attraverso la pratica le didattiche innovative.

Nemmeno tutte le scuole che si offrono per l’esperienza del tirocinio diretto riusciranno a farlo, a meno che i loro migliori docenti sul campo non abbiano già provveduto, attraverso un apprendimento trasformativo, a modificare realmente le loro didattiche. Quanti sono però questi docenti?

 

Ruolo dei dirigenti scolastici

I dirigenti scolastici , che naturalmente provengono dal ruolo docente, dovrebbero rendersi consapevoli e rendere consapevoli a loro volta i rispettivi insegnanti della presente problematica e della necessità di avviare una fertile formazione in servizio, naturalmente di tipo laboratoriale, attraverso la quale trasformare veramente la didattica.

 

Il Progetto VALES

 Il processo di miglioramento, previsto dal programma Vales – ben venga finalmente la possibilità di avviare la cultura della valutazione anche per i docenti – quale pregnanza potrà mai avere se non avverrà questa presa forte di consapevolezza e se la “comunità professionale” non se ne farà carico, provando e riprovando, a trasformare la sua prassi attraverso un reale nuovo “apprendistato”?