Siamo persone o topi?

Siamo persone o topi?

di Claudia Fanti

Non appassiona per nulla tutto questo vociare di valutazione di sistema.

Cade male, molto male. Sì, perché la scuola spesso è più avanti. Ci si è già accorti da tempo che la valutazione per  fungere da stimolo al miglioramento deve farsi il più possibile discreta. Deve camminare in punta di piedi come una ballerina. Da tempo immemorabile abbiamo capito che rifarsi a modelli  stranieri non ha senso.

Vorrei farvi immaginare “addirittura” una scuola che non dà voti, che non assegna punteggi, che non scrive bravo o bravissimo su quaderni o elaborati.

Seguitemi, per una volta, nell’osservazione di un bambino che entra in prima classe e con le sue maestre e i compagni lavora per tutta la durata della scuola elementare, libero da un giudizio esterno a lui sconosciuto.

Si applicherà unicamente nell’arte dell’imparare, la sua concentrazione sarà tutta volta all’oggetto dell’apprendimento in sé per sé. Sarà aperto al mondo circostante, porrà domande senza timore, si guarderà intorno curioso come lo è per natura e in una scuola così si dedicherà come soggetto all’oggetto per manipolarlo, analizzarlo, per affrontarlo con le arti che gli sono proprie: la seduzione, l’allontanamento, l’avvicinamento…a volte lo temerà se lo sentirà difficile, a volte lo elaborerà a modo suo, oppure alla moda di chi è stato più veloce nel coglierne le caratteristiche.

Potrà capitare che sia lui a consigliare a un altro la modalità con cui ha imparato, oppure riceverà suggerimenti dai compagni e dalla maestra. Non farà altro che lavorare su ciò che le discipline gli proporranno con la mediazione dell’insegnante o degli strumenti che questi gli metterà a disposizione.

Non si stancherà inutilmente nel misurarsi con verifiche a punteggio. Anzi, le sue energie saranno convogliate unicamente verso i saperi e spesso brucerà le tappe volute dai programmi ministeriali senza i lacci e i laccioli imposti inoltre da una rigida e segmentata programmazione delle discipline fatta per standard da raggiungere in una determinata classe ed età.

Capiterà che indaghi a fondo su qualche informazione in modo spontaneo spinto dall’unica motivazione della meraviglia che gli darà la soddisfazione di conoscere qualcosa di sconosciuto.

Succederà che gli altri, per imitazione, indaghino ulteriormente. Sarà bellissimo vederli relazionare a voce alta e ferma le loro scoperte. La scuola diventerà gioia che annulla la fatica che pure ci sarà sempre e comunque, ma non sarà mai fine a se stessa.

Ciò non toglie che il ruolo dell’insegnante non sarà ugualmente fondamentale. Anzi, sarà proprio la sua preparazione a coordinare, a indirizzare, a stimolare, a fare da specchio. Ma sarà, il suo, un insegnamento volto a passare il testimone in modo socratico. Leggerezza e profondità dovranno coniugarsi, armonizzarsi.

La scuola, in generale, senza accorgersene il più delle volte, castra alcune tipologie caratteriologiche ancor più che intellettive. Non considera le persone e le loro sfaccettature. Preferisce chi si conforma, chi risponde in un unico modo ai quesiti. I docenti della scuola pubblica dovrebbero invece  riappropriarsi della loro peculiarità e cioè quella di insegnare ricordando che la scuola è il luogo preposto a insegnamento/apprendimento. La mania di spostare le energie nella direzione dell’organizzazione del sistema ha bruciato le sinapsi di più di una bella professionalità docente. Essi dovrebbero sentirsi sicuri del fatto che hanno in mano la possibilità di scegliere come insegnare e valutare. Essi hanno alle spalle secoli di pedagogia dalla quale attingere a piene mani per rielaborarla, aggiustarla, usarla per andare oltre a loro piacimento, se il piacimento sarà quello di dare a tutti i ragazzi una chance.

Esistono tipologie di scuole private che già adottano “sistemi senza voti” e lo fanno basandosi sulle più svariate radici pedagogiche. Qualche benpensante dirà la solita frase che mi sento ripetere spesso: “scuola sessantottina dello spontaneismo”, oppure “scuola buonista, che disastro!” oppure “e il ruolo dell’insegnante quale sarebbe?” e amenità di questo tipo.

So soltanto che così non è! Anzi, nella scuola senza voti si studia di più, si suda,  si maneggiano più strumenti, soprattutto si ragiona senza tregua, senza interruzione, non c’è pausa, mai. Si apprende punto e basta, ma lo si fa nel modo più alto e forte, perché è il modo dell’artigiano orgoglioso di esserlo. E’ quello per cui non si guadagna nient’altro se non la soddisfazione di vedere i propri prodotti finiti e il loro valore quando ce l’hanno. E se non ne hanno, si ricomincia. Questa è la scuola dell’empatia tra soggetti e soggetti, fra soggetti e oggetti. E’ la scuola che ci vuole per preparare alle sfide dello studio per tutta la vita. Quella che aiuta a diventare forti e sicuri dinanzi agli insuccessi e alle difficoltà che presenta l’oggetto in sé, quella che dice a un bambino o a una bambina “stai tranquillo/a” che se indagherai sulle possibili soluzioni, ne troverai una adatta a te e alla situazione che devi affrontare; guardati intorno ma non perderti a causa degli altrui giudizi. Ascolta, approfondisci, stai attento/a a non perdere la bussola. Tu ce la puoi fare e se hai bisogno di aiuto, non temere di copiare da qualcuno per poi superarlo e superarti con le tue idee.

La scuola delle prove oggettive e dei quiz è invece quella delle verifiche continue, della codificazione, dell’apprendimento lineare e sequenziale, è quella che costringe dentro modelli precostituiti, che fa spendere energie per aderire il più possibile al modello. Lo è anche quando si finge che non lo sia per il semplice fatto che essa è legata, volente o nolente, all’ansia del risultato, del confronto dei punteggi su pochi segmenti di saperi. E su quei segmenti, volenti o nolenti, tende a specializzare…ovviamente spesso con risultati deludenti pure nella compilazione e completamento di modulistica predisposta ad hoc dagli adulti. E’ la scuola di Skinner, quella dei topi in laboratorio, quella del rinforzo.

H. Laxness, Sotto il ghiacciaio

Uno strano inizio

di Antonio Stanca

 

Un romanzo di formazione può essere definito Sotto il ghiacciaio dello scrittore islandese Halldór Laxness, nato a Reykjavík nel 1902 e qui morto nel 1998. Nel 1955 gli fu assegnato il premio Nobel per la Letteratura. È stato un autore tra i maggiori del Novecento islandese, ha cominciato a scrivere da giovanissimo, oltre a romanzi ha scritto poesie, saggi, opere teatrali, autobiografiche, ha viaggiato molto in Europa e in America, vasta è diventata la sua cultura, la sua conoscenza delle lingue, con le sue opere ha contribuito a rinnovare la letteratura islandese, a farla partecipare del clima spirituale e artistico dell’Europa del ‘900.

Sotto il ghiacciaio è un romanzo che risale al 1968 e che ora è stato ristampato dalla casa editrice Iperborea di Milano (pp. 266, € 16,00). La traduzione dall’islandese è di Alessandro Storti. In appendice è inserito un ampio saggio della famosa scrittrice e saggista americana Susan Sontag (New York 1933-2004), profonda ammiratrice del Laxness.

In un’Islanda circondata, isolata dalle acque degli oceani, dei mari, afflitta dal freddo dei lunghi mesi invernali, dalla neve, dal ghiaccio, Laxness vive gli anni della sua infanzia in una fattoria presso Reykjavík a contatto con gli ambienti contadini, rurali, con le persone del popolo dalle quali gli giungono le tradizioni, le leggende, le saghe della sua terra. Ad esse il bambino rimarrà legato anche quando sarà diventato uno scrittore, esse ricorreranno quasi sempre nelle sue opere. In queste si verifica una prima fase di carattere ideale quando Laxness si converte al cristianesimo, fa l’esperienza di oblato benedettino in Lussemburgo dal 1923 al 1924, accoglie la dottrina marxista, si entusiasma ai suoi programmi, scrive la prima opera di successo Il grande tessitore del Kashmir (1927), dove affronta problemi morali, spirituali, indaga sul rapporto tra l’uomo e Dio, sul significato della vita, della divinità. Sono problemi che ritorneranno in altre opere, assumeranno altri contorni ma più importanti risulteranno i romanzi della fase successiva, quella detta realista e venuta dopo gli anni Trenta. Inizierà con Salka Valka (1931) e proseguirà con Gente indipendente (1935), con la tanto riuscita tetralogia Mondo luminoso (1937- 40) e con La campana d’Islanda (1943). Sono le narrazioni di carattere nazionale che Laxness produce quando in Islanda si aggravano le condizioni sociali, si soffre per le truppe inglesi stanziatesi nell’isola durante la seconda guerra mondiale, per ottenere l’indipendenza dalla Danimarca, per sopportare l’influenza americana dopo la guerra. Di fronte a tante riduzioni lo scrittore sente il bisogno di rivendicare i diritti della propria gente, della propria patria, della loro storia, della loro cultura, delle loro tradizioni, del loro spirito. Lo farà nelle suddette opere e saranno quelle che lo renderanno famoso, lo faranno diventare la voce del suo popolo, lo porteranno al Nobel.

Molta fortuna avrà nel 1968 anche il romanzo Sotto il ghiacciaio dove ritorneranno i tempi, i luoghi, le leggende, i miti della vecchia Islanda. Ma stavolta hanno perso il loro ordine, le loro regole, i loro limiti, sono confusi, non fanno distinguere tra spazio e tempo, finito e infinito, terra e cielo, vita e morte, giorno e notte, bene e male, Dio e uomo, non possono servire ad un giovane che si sta affacciando alla vita, ai suoi bisogni di verità, di chiarezza. Il giovane è un teologo di venticinque anni che viene inviato dal vescovo d’Islanda a nord dell’isola, alle falde del ghiacciaio Snæfel perché indaghi sulla condotta del prete del posto. Questi da tempo non ottempera ai suoi doveri di religioso, non celebra la messa, non battezza i bambini, non è presente ai funerali, ha chiuso la chiesa e si dedica ad attività manuali, ripara attrezzi, utensili di ogni genere, fa il maniscalco. Il giovane dovrà indagare su tale strano comportamento, riportare, registrare quanto è successo e succede in quei posti senza esprimere nei rapporti la propria opinione affinché il vescovo non ne sia influenzato quando leggerà le registrazioni. Ma a questo punto non si arriverà perché il giovane prima di tornare dal suo vescovo si sentirà smarrito tra le stranezze, le assurdità che avvengono “sotto il ghiacciaio” e fuggirà “sperando di ritrovare la strada maestra”, sperando, cioè, che la sua ricerca di verità possa essere soddisfatta altrove. Anche se aveva venticinque anni quella del ghiacciaio era stata la sua prima esperienza, il suo primo contatto con la vita concreta, con la realtà ed era risultato negativo. Si sta egli formando ed ha cominciato con una negazione a causa di quanto visto, sentito, vissuto. A salvarlo, preservarlo dagli infiniti pericoli ai quali si era trovato esposto, a fargli conservare il suo bisogno di bene è stata la fede cristiana. Soltanto questa gli era rimasta e soltanto con questa aveva ripreso il suo cammino verso la vita.

Strano può sembrare che un processo di formazione sia iniziato con un rifiuto se non si tiene conto che Laxness poteva essere giunto ad un momento particolare della sua vita ed opera, quello di pensare di avviare, tramite il protagonista del romanzo, un confronto tra vecchi e nuovi valori, vecchia e nuova vita.

Chiaro, facile è il linguaggio dell’opera, ricco di riferimenti storici, geografici, letterari, filosofici, scientifici come poteva avvenire solo con un autore così colto.

Il Common Assessment Framework (CAF)

Il Common Assessment Framework (CAF)
La Scuola e il dlgs n.150/09

di Gerardo Marchitelli

 

Di solito siamo portati a costruire ragionamenti, legati alla percezione intuitiva, ai sentimenti o alle emozioni. Un approccio che riteniamo valido in quanto frutto di sensate esperienze. Il dlgs 150 del 2009, ci invita a “dare forma alla mente”, a “disciplinare le decisioni”, a “giustificarle”, a”istruirle”, ad “apprenderle nell’organizzazione” come antidoto delle pulsioni e dell’ emozioni umane. Una operazione di “rendicontazione” delle proprie decisioni, come atti tradotti in simboli, una sorte di “tessera di riconoscimento” capace di evocare la relazione tra l’oggetto concreto e l’immagine mentale, tra la conoscenza e l’azione, un certificato dei livelli di cultura della gestione delle decisioni. Sia ben chiaro, non si è di fronte alla costruzione di una intelligenza artificiale del decisore, ma alla convinzione che gran parte dei difetti di una organizzazione non è riscontrabile visivamente. Da qui la necessità di corredare, arricchire, dotare la decisione di elementi pertinenti, capaci di “orientarla”. Senza dubbio, si è consapevoli, che in ogni organizzazione vi sono conoscenze tacite difficilmente esplicitabili, e quando lo sono, non è detto che lo siano completamente. Come del resto, si è decisamente convinti, che la maggior parte della conoscenza di un individuo è tacita e non può essere esplicitata in toto e questo rende il decisore non un semplice utente all’interno dell’organizzazione-scuola, ma parte integrante del sistema, parte a cui si chiede “soltanto” di apprendere all’interno dell’organizzazione, al fine di conoscere e divenire consapevole e informato. A nessuno è dato di comprendere tutto, ma conoscere è indispensabile. In merito, Il Common Assessment Framework (CAF) è uno strumento che registra il complesso delle azioni o l’esito-valutazione di queste, annota gli approdi regolativi e autoreferenziali esistenti all’interno della scuola, la quale ha la necessità di conoscere se stessa e di avere a disposizione informazioni utili alla presa delle decisioni. “In ogni momento della vita c’è qualcosa in atto, una qualche esperienza che si sta svolgendo, una decisione da prendere”. Il CAF rappresenta l’atto in cui il pensiero del decisore si rende oggetto a se stesso, in cui il pensiero si dà un contenuto tramite il quale apprende e al contempo produce autocoscienza. Questa operazione di autovalutazione su “cio’ che si è, per decidere cosa si potrebbe essere” rappresenta la sintesi cognitiva dei processi organizzativi attivi nella scuola, in cui le innumerevoli pause, pianificate, di riflessione all’interno di essa hanno avuto lo scopo di auto-interroga-rsi , di auto-ripararsi e di auto-svilupparsi. Un modo di procedere che rende tutto il personale scolastico consapevole delle logiche sottese all’interno delle operazioni che si sviluppano nell’organizzazione-scuola. Così facendo si tende verso la qualità delle decisioni e di conseguenza in direzione di appropriate e razionali offerte, secondo i bisogni effettivi dell’utenza scolastica. La scuola, senza ambiguità, deve avere a disposizione elementi razionali capaci di:

  • specificare tutte le possibili alternative di decisione;
  • predire tutte le possibili conseguenze di ogni alternativa;
  • stimare tutte le conseguenze di ciascuna alternativa;
  • valutare la desiderabilità di ogni conseguenza;
  • calcolare quale alternativa genera l’insieme piu’ desiderabile.

Una mappa, in cui la natura dell’organizzazione, la si coglie dunque nell’azioni concrete, che non si limita a fornire un sapere statico, fine a se stesso, ma propedeutico all’agire, in quanto sprona l’Io-decisore-organizzazione-scuola a muovere verso la scoperta di sé, l’autocoscienza, l’autovalutazione e il miglioramento di “cio’ che si è, per decidere cosa si potrebbe essere”. Un ciclo dinamico di osservazione, al termine del quale il sistema non torma mai allo stato iniziale, un continuo modo di essere, in cui la velocità e l’accellerazione dei piani di miglioramento variano in funzione delle effettive esigenze dell’utenza. Un moto circolare senza fine.