Il boom dei tecnici e dei professionali: era ora!

Il boom dei tecnici e dei professionali: era ora!

Non avevo alcun dubbio che sarebbe andata così, e che meglio andrà nel futuro! Lo dice uno che sa di greco e di latino e che si è formato – si fa per dire – sui classici! E che non ha mai amato i licei: una sorta di ossificazione della cultura: più spocchia e arroganza che stile e autenticità! In effetti, ho sempre saputo che le due culture sono una disdicevole invenzione degli ultimi cento anni! Almeno da noi! L’Italietta del 1861 necessitava di alcune cose molto importanti per fare il balzo in avanti che potesse affiancarla ai grandi Paesi unitari, come Francia e Regno Unito ad esempio: laddove le borghesie locali avevano già condotto le loro rivoluzioni! Ma nel nostro paese, con una “p” minuscola, con una borghesia ancora frammentata e che parlava anche lingue diverse, attraversata da una piccola nobiltà arroccata su privilegi che riteneva secolari, divisa in due da uno Stato pontificio in cui la pena di morte era ancora norma, e fino al 2001 (sic!), con una nobiltà più latifondista che nobile, polverizzata attorno a corti di origine europea più che italiana, le cose erano ben diverse. E non era affatto facile fare dismettere alla nostra borghesia quell’abito di arlecchino che per secoli l’aveva marcata, pressoché unica sull’intero continente!

E poi c’erano problemi concreti, da risolvere anche nel breve tempo, se si voleva concorrere con i grandi Stati unitari d’Europa! Occorreva abbattere quell’analfabetismo endemico che, nonostante la ricca tradizione artistico-letteraria, indubbiamente molto forte ma fatta da pochi e per pochi, interessava ancora il 90% della popolazione. Occorreva che il più rapidamente possibile molti “regnicoli”, ancora cittadini di serie B, sapessero leggere e scrivere perché si doveva creare un apparato amministrativo con cui si potesse finalmente governare e amministrare un Paese che, pressoché ultimo in Europa, aveva finalmente raggiunto l’unità nazionale. Occorreva trasformare migliaia di contadini in operai e tecnici per dar vita a un apparato industriale con cui confrontarsi con gli altri Paesi del centro Europa. Occorreva anche e soprattutto creare un gruppo dirigente che avesse un alto profilo culturale: commis di Stato, giudici, avvocati, economisti, medici, ingegneri, generali anche e via dicendo. E, per formare questo gruppo dirigente tutto nuovo, a che cosa occorreva appellarsi se non a quella tradizione artistico-letteraria che tutta l’Europa in effetti ci aveva sempre invidiata? La cultura latina e quella greca e in parte anche la stessa cultura italiana – basti pensare al linguaggio della musica – quella dei grandi poeti e dei grandi artisti che tutta l’Europa ci aveva sempre invidiato e che solo il contadiname dei tanti staterelli della penisola né conosceva né praticava, andavano assolutamente recuperate, censite, valorizzate, enfatizzate anche. E infatti i nostri autori italiani, dal Dolce stil nuovo fino a De Sanctis e a Manzoni, nulla avevano da invidiare a Varrone e a Virgilio, a Cratete di Mallo e a Callimaco, ai classici della cultura latina e greca sulla quale si innestavano, e che così decorosamente replicavano e innovavano! E architetti, scultori, pittori, musicisti ne avevamo avuti a iosa, quindi…

Così i “regnicoli” furono tutti o in gran parte mobilitati e avviati alle nuove scuole nazionali. Dopo quattro anni di scuola elementare, di cui due obbligatori, si proseguiva con il ginnasio, come lo chiamavano i tedeschi, e poi con il liceo, per non far torto ai francesi. E a monte, a elargire contenuti – ma non edifici, in gran parte requisiti dal nuovo Stato – c’è tutta la ricca tradizione dei seminari cattolici e dei collegi pontifici, là dove la cultura, o una certa cultura, era di casa. Insomma, non fu affatto difficile impacchettare il meglio della nostra tradizione colta e dar vita al ginnasio-liceo, classico ovviamente! Durava otto anni e se ne usciva a 17 anni di età, pronti per accedere all’università! E mai si sarebbe pensato a un liceo scientifico… una contraddizione in termini! Ci avrebbe pensato più tardi Gentile, obtorto collo! L’istruzione tecnica ebbe pure la sua parte, una scuola tecnica biennale, seguita, per chi avesse voluto e potuto, da un istituto tecnico quadriennale con uscita a 15 anni di età: un ordine di studi finalizzato, ovviamente, agli operai e ai quadri tecnici intermedi. E questo dualismo è durato per tutti i 150 anni che abbiamo da poco celebrati.

Un dualismo, quindi, duro a morire, che poi non appartiene di fatto alla nostra storia preunitaria. Brunelleschi era un semplice mastro, ma ai nostri occhi un grande architetto. E un mastro era Ghiberti, lo scultore della Porta del Pardiso. E i grandi pittori uscivano dalle botteghe e non avevano lauree o riconoscimenti accademici. E chi può dire se un Leonardo o un Raffaello fossero dei classici o dei tecnici? Dipingevano, certamente, ma progettavano anche come valenti ingegneri! Insomma nella nostra migliore tradizione non c’erano né lauree né diplomi né si discettava su che cosa fosse di pertinenza del classico o del tecnico. E la distinzione medievale tra artes sermocinales, per i politici e gli avvocati, e le artes reales, per gli uomini del fare, non incideva più di tanto, stante l’analfabetismo che la faceva da padrone! Del resto ci pensò Galileo a liquidare le due artes con quel metodo sperimentale che fu di grande utilità sia per un Francesco Redi che per un Emanuele Tesauro o un Muratori: ricerche diverse in campi diversi, ma condotte con grande rigore scientifico! E non c’è poesia o passo di danza che non sia esito di una rigorosa ricerca! Euterpe e Tersicore possiamo pure lasciarle sull’alto dell’Elicona, dove peraltro nessuno le ha mai viste!

Insomma, le cosiddette due culture da noi sono nate con lo Stato unitario! Un’Italia che si unisce politicamente, ma che adotta due culture, quella della testa e del cuore e quella della mano! Ciò non significa che le due culture non abbiano attraversato anche altri Paesi e altre società, se è vero che Charles Snow negli anni Cinquanta del secolo scorso intervenne con un celebre libro per comprendere le ragioni profonde per cui scienziati e letterati, ingegneri e pittori, matematici e poeti pensavano di perseguire intenti e strade non solo diverse, ma addirittura contrapposte. E da noi il muro che separa le due culture è stato particolarmente duro a morire.

Oggi i dati delle iscrizioni al secondo ciclo di istruzione sono già il segnale di un’inversione di tendenza. E’ la cosa, a mio vedere, era di fatto scontata! Del resto, è lo stesso criterio che ha ispirato e dettato il riordino dell’istruzione secondaria di secondo grado che ha segnato l’inizio della fine del primato del liceo classico, non degli studi classici in quanto tali, di cui non nego affatto la necessità. Si veda il bel libro di Martha Nussbaum, Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, edito per il Mulino, che ho recensito tempo fa per la rivista on line educationduepuntozero. Ma una vera cultura umanistica non ha nulla a che fare con una sua enfasi e pretesa superiorità! Oggi, quando in tutte le scuole europee e anche nella nostra comincia a soffiare il vento delle competenze, queste diventano anche la discriminante per un reale processo di riforma. Quando andiamo a leggere le Indicazioni nazionali dei licei e le compariamo con le Linee guida degli istituti tecnici e professionali, appare evidente dove emerge il nuovo e dove si tenta di conservare il vecchio. Nelle Indicazioni nazionali le competenze sono appena accennate, più per un omaggio ai tempi che corrono che per una implicita convinzione. Nelle Linee guida, e soprattutto in quelle dei trienni, una didattica per competenze viene di fatto indicata e accettata, anche se ulteriori lavori di limatura saranno necessari, soprattutto per quanto riguarda la terminalità degli studi in cui la certificazione delle competenze dovrà modificare ex novo l’attuale modello di esame di Stato.

Per non dire della felice partenza degli Istituti Tecnici Superiori, fondazioni che poco hanno a che vedere con il sistema scolastico e con lo stesso sistema universitario, fondazioni fortemente legate, ma non connesse, con la concreta offerta di un mondo del lavoro che – nonostante le difficoltà del momento – è strutturalmente cambiato e ancora cambierà.

Con tutto ciò non voglio dire affatto che il declino del liceo mi faccia piacere tout court! Io sono per gli studi classici, ma sono per un loro assoluto ridimensionamento, per una loro diversa connotazione e collocazione. Finora lo studente che si iscrive al liceo, di fatto “viene iscritto”, indipendentemente da una sua precisa volontà. Pesano la tradizione e il costume che vogliono che il figlio dell’operatore intellettuale – chiamiamolo così – o del borghese più o meno illuminato o arricchito che sia, vada dritto agli studi liceali indipendentemente da una sua precisa vocazione. Anche perché si dice che gli studi liceali “aprono le menti”, “formano” o altre amenità di questo tipo. Non è così: gli studi tecnici non sono affatto meno severi e meno formativi di quelli liceali, anche perché l’avanzare delle ricerche ha conferito a una formazione tecnica input qualitativi per nulla inferiori rispetto a quelli della migliore tradizione classica. La svolta che si sta profilando in materia di scelte post-scuola media da un lato rafforzerà lo spessore degli studi tecnici e contribuirà ad una seria modifica dei curricoli liceali.

Anche perché sempre più verrò maturando il concetto, che del resto ho già espresso in altre sedi, per cui non esiste un tecnico capace di studiare e progettare un motore ibrido che sia inferiore a un tecnico che sia capace di decodificare un papiro scoperto nel Mar Morto! E forse si sporca di più le mani chi lavora con sessola e pennellino a “cavar cocci” rispetto a chi progetta motori con il software cad/cam!

Maurizio Tiriticco

Venezia, la scuola e il suo Urlo

Venezia, la scuola e il suo Urlo

Carissimi tutti/e, cos’è un ministro se non colui che amministra?
Bisognerebbe che si limitasse a questo. Appunto. Amministrare. Il potere come ci ha insegnato Machiavelli non è mai solo bene, spesso è male. Fa ciò che serve in quel momento e in quella epoca. L’etica non è una categoria che gli appartiene per sua natura.

Chi amministra pensa ad amministrare e a fare i propri interessi. Insegnare è arte e artigianato che spetta a noi, unici che dall’interno riescono a destreggiarsi con scienza e coscienza fra diverse tipologie di esigenze sia intellettive sia emotive sia relazionali. Chi conosce le motivazioni all’apprendimento di bambine e bambini del 2012? Noi e i loro genitori. Nello specifico dell’esperienza scolastica, il piano delle conoscenze utili, delle difficoltà e delle potenzialità che vengono rivelate quotidianamente nella comunità classe, lo conosciamo noi che mai veniamo interpellati dall’amministratore.

L’amministratore e i suoi funzionari possono stravolgere ogni possibilità di miglioramento annichilendo, bloccando sul nascere e a volte a un passo dal traguardo qualsivoglia atto pedagogico agito in basso e questo accade con una ricorsività che lascia senza fiato, perciò l’azione del salvataggio spetta a noi. Noi possiamo neutralizzare le assurdità ricorrenti con la nostra visione pedagogica, con i nostri pensieri in situazione.

Ma dobbiamo avere il coraggio, la passione, la caparbia convinzione che noi valiamo e che ciò che sosteniamo nell’esercizio della nostra professione è da difendere con ogni mezzo. Prendiamo l’iniziativa de “L’urlo della scuola” del prossimo 23 marzo. E’ un bellissimo modo di mettere le orecchie a chi non vuol sentire. Auguro a tutti noi e al Paese che la giornata sia un successo, ma anche se non lo fosse (e mi dispiacerebbe alquanto!), credo che il fatto che tanti docenti, genitori, studenti, ricercatori abbiano lavorato insieme, riflettuto, scritto, comunicato all’esterno, sia un valore del quale essere fieri.

Le parole, che ogni giorno sentiamo alla radio o in tv, di coloro i quali dovrebbero agire per favorire lo sviluppo della scuola, dell’ Università e, in ultima analisi, del Paese, sono invece vuoti annunci espressi al modo condizionale, sono richiami vaghi e privi di significanza per la base. Essi ripetono le parole dell’amministratore fino allo sfinimento: educare alla flessibilità, alla mobilità, perfino educare all’espatrio i talenti, affinché (afferma l’amministratore) si arricchiscano di competenze, di conoscenze, il tutto condito dal solito refrain “i giovani sono il futuro, noi pensiamo a loro…”. Non ci crediamo, quando i fatti mostrano tutta la loro drammatica verità oggettiva: tagli, accorpamenti selvaggi, assoluto disinteresse per la voce della base di insegnanti, dirigenti in gamba e studenti.

L’amministratore procede con le sue azioni che parlano una lingua sconosciuta: più studenti per classe, meno docenti, meno sostegno, meno tempo scuola, meno strumenti. Salvo poi usare la propaganda per far luccicare qualche scuola modello (di cosa?) al fine di renderci ancora più succubi di ciò che già siamo volenti o nolenti.

La nostra scuola è come Venezia: splendida nei suoi angoli più pittoreschi e nascosti, nella rete di canali minori che fanno navigare le intelligenze vive e creative che scivolano silenziose sulle acque antiche dei saperi che si incontrano. Putrescente a causa del disimpegno dei poteri che la prosciugano facendone emergere le muffe degli abbandoni e delle dispersioni. Una Venezia malinconica, persa nelle nebbie di fumose elucubrazioni che le sono totalmente estranee. Studiata, analizzata, mortificata, priva di quelle risorse che altrimenti, se condivise con il popolo che la conosce in profondità e in superficie, la potrebbero restaurare con la collaborazione di tutti i naviganti.

Una Venezia tutta italiana ricca di talenti adulti e giovani, quella Venezia che viene nominata soltanto quando la si può sfruttare e dimenticata quando le luci della ribalta si spengono.

A volte siamo noi stessi insegnanti che non riusciamo a comprendere quanto sia importante ed essenziale il nostro lavoro, quanto esso sia rivoluzionario mentre naviga tra corruzione e piccineria. Spesso siamo noi stessi a rintanarci senza più speranze, a rifiutare la collaborazione. E’ un vero peccato. Sì, perché non è vero che le cose non possono cambiare. Non è vero. Siamo tanti anche se vorrebbero diminuirci e sminuirci. Il nostro lavoro è silenzioso. Tuttavia non è il silenzio degli arroccamenti in difesa che ci salverà. Noi siamo pacifisti per tradizione e cultura, ma dobbiamo rivendicare il nostro ruolo di intellettuali al servizio del Paese e di chi lo abita anche ai piani più bassi.

Inoltre ricordiamoci che siamo cittadini tre volte: paghiamo le tasse; paghiamo come tutti gli altri genitori per i nostri figli e per i materiali che servono a loro nella scuola pubblica sopperendo al vuoto dello Stato; paghiamo come insegnanti materiali, libri, riviste, pc…senza che possiamo scaricare nulla dalla dichiarazione dei redditi.

Un Urlo qualche volta serve!

Claudia Fanti

Donne e morale

Donne e morale

di Antonio Stanca

Molto si è detto e scritto in questi giorni a proposito della Giornata internazionale della donna o Festa della donna che si celebra l’8 Marzo. Si è parlato di quanto le donne hanno sofferto nel tempo, di come siano state discriminate e come siano riuscite a conquistare dei diritti in ambito privato e pubblico.

In Italia nel 2011 è ricorso il primo centenario di questa celebrazione poichè nel 1911 avvenne per la prima volta. Quest’anno, come altri anni, il MiBAC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali) si è mostrato partecipe dell’avvenimento ed ha consentito a tutte le donne, nella giornata dell’8 Marzo, l’ingresso gratuito a musei, ville, aree archeologiche, archivi e biblioteche di Stato.

Nel Salento il “Lions Club Lecce Sallentum Universitas” di Lecce, presieduto dalla professoressa Anna Maria Colaci dell’Università Salentina, e il Centro Studi “Chora-Ma” di Sternatia, diretto da Donato Indino, hanno organizzato e svolto la ricorrenza nei locali di quest’ultimo la sera di Sabato 10 Marzo. Il tema della serata è stato “L’etica della donna:ieri ed oggi”. Su questo ha tenuto una relazione la professoressa Colaci. Dopo la presentazione dell’avvocato Gisella Candito, che ha sostituito l’assente Marta Martina, la Colaci ha illustrato l’aspetto etico del problema femminile a partire dal secolo scorso. Ha chiarito come fino agli anni ’50 l’opinione corrente attribuisse alla donna una condizione di totale subordinazione all’uomo, come contrario alla morale diffusa fosse ritenuto qualunque pensiero o atteggiamento che le permettesse di sentirsi libera dall’uomo. Nella famiglia dei genitori o in quella propria essa doveva rispettare precise regole di comportamento, occupare una posizione ben determinata sapendo che ogni altra l’avrebbe fatta accusare o incolpare. Era succube, aveva solo dei compiti da svolgere perchè quella era l’etica del tempo.

Col passare degli anni, con le conquiste avvenute in ambito femminile, con l’avvento di nuovi costumi, la situazione della donna si era modificata, più autonoma, più libera dall’antico vassallaggio poteva considerarsi. I nuovi ambienti avevano promosso una nuova etica estesa pure alle donne. Ma se positiva per molti aspetti questa era stata anche negativa, secondo la Colaci, dal momento che procedendo nel tempo avrebbe condotto a quella libertà sessuale alla quale oggi si assiste, avrebbe abolito ogni regola di comportamento e fatto rientrare tutto, compreso lo scandalo, tra i modi di vivere. Bisognava, ha detto la studiosa, guardare al valore della figura femminile, considerare la sua funzione all’interno e fuori dalla famiglia, attribuirle le qualità di pensiero e di azione proprie dell’uomo, riconoscerla a lui uguale.

Su quest’ultimo argomento si è soffermato, in conclusione, il Sindaco di Sternatia, Pantaleo Conte, che ha ribadito come soltanto il riconoscimento dell’uguaglianza e della parità tra l’uomo e la donna possa garantire un futuro per l’umanità.

Sono state, poi, recitate alcune poesie che hanno avuto come tema la donna, la sua bellezza, l’amore. La serata è continuata tra canti e musiche fino a concludersi con un buffet.

La Chiesa tra certezze e accuse inossidabili

La Chiesa tra certezze e accuse inossidabili

di Vincenzo Andraous

Facciamo pagare l’Ici o l’Imu anche alla Chiesa! L’affermazione è così perentoria da non lasciare scampo al dubbio, fa intendere, che, lì, dove Cristo sta alla croce e gli uomini ai suoi legni, c’è un bel po’ di magna magna, quanto meno di furbetti da una parte e di allocchi dall’altra.

Quando la coperta è troppo corta e il popolo adirato, c’è sempre spazio per alimentare il desiderio di forche dialettiche, mentre le eventuali risposte svelanti truffe e raggiri fanno  mancare le domande all’appello, obbligate a stare in disparte, come fossero di poca importanza.

Qualche giorno fa allorché si è fatto man bassa di accuse e certezze inossidabili, leggendo le molteplici richieste di equità e giustizia nei riguardi della Chiesa, per farle pagare la tassa in oggetto, ho detto sottovoce e senza alcuna verità nelle tasche di andarci piano con il plotone di esecuzione, perché c’è sempre tempo per quello.

La riflessione è ben altra: se davvero la Chiesa è padrona e ladrona come qualcuno si ostina a dire per mezzo della famosa e indiscussa cassa mediatica, se le proprietà che la contraddistinguono sono adibite a lucro continuo, e non come risorsa e strumento di emancipazione per i poveri, i prevaricati, i dimenticati, se davvero questo è un business conclamato e permeato da un’accettazione statuale, occorrerebbe anche chiedersi, come mai si è giunti a questo status quo.

E’ un interrogativo che in questi anni di saltimbanchi, di prestigiatori, di commedianti più o meno noti, non ha mai avuto riscontri, non è mai stata posta neppure all’interlocutore, per il semplice fatto che la Chiesa non ha mai lesinato di offrire il suo servizio, nei riguardi di quanti sono stati rapinati di un pezzo importante di futuro, di coloro che titolari di residenza o di domicilio, rimangono dei rifugiati ai margini della società autoctona e globale.

Enti ecclesiali, religiosi, cattolici, che travestono gli spazi ludici e di intrattenimento, in luoghi di culto, di preghiera, di ritiro spirituale e di accoglienza, debbo dire che è alquanto inverosimile. Piuttosto credo, perché lo so, perchè ho avuto modo di constatarlo di persona, che gli edifici della Chiesa sono territori della solidarietà e della accoglienza che diventa salvezza della vita, un servizio vero e senza orpelli a contrassegno per trarre di impaccio chi è piegato nella disperazione.

Dunque, in ogni spazio della Chiesa occorre chiedere l’Ici come per qualunque altro ente o possessore di attività destinata a fare economia? Se così è come conseguenza di una Chiesa che non paga e non corrisponde quanto deve, o non rende quanto invece ha preso, è evidente che debba mettersi in regola, mi pare però un’esagerazione costruita a misura, infatti non credo nella dichiarazione dei redditi che non si trovano.

Forse oltre a rimuginare pensieri di rivalse nei confronti della Chiesa, rumoreggiando sulle  tasse che non sarebbero pagate, occorrerebbe meglio chiarire i fondamenti del lavoro che svolge, che sempre svolgerà, questa grande casa della fede, della contemplazione, delle azioni che liberano e emancipano gli uomini e le donne in tutto il mondo, quello lontano e quello vicino, dove c’è sempre più bisogno di chi non chiede tornaconti, interessi, medagliette da appuntare al petto,  nel consegnare aiuto a chi ne è sprovvisto, a chi è derubato persino della speranza.

La Chiesa non dovrebbe essere supplente di un vuoto istituzionale, ma protagonista assoluta di un ripensamento culturale, affinché ogni persona mantenga e custodisca la propria dignità nel rispetto dovuto.