Puerocentrismo o adultocentrismo?

Puerocentrismo o adultocentrismo?

di Margherita Marzario

Abstract: In una società che stenta a proporre esempi di una umanità matura e responsabile, l’Autrice riscopre l’unicità e la ricchezza del punto di vista dei bambini.

 

Nei testi normativi e non, si fa un gran parlare di centralità della persona ed in particolare di quella del bambino.

Per centralità del bambino si dovrebbe intendere il tenere conto nell’azione educativa e in ogni tipo di intervento (amministrativo, politico, sociale) della singolarità e complessità di ogni bambino, della sua articolata identità in tutti i suoi aspetti (cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, etici, spirituali, religiosi), delle sue aspirazioni, capacità e fragilità (su cui bisogna maggiormente puntare l’attenzione), nelle varie fasi di sviluppo e di formazione aiutandolo (e non sostituendolo né assecondandolo) nel sollevare domande esistenziali e nell’andare alla ricerca di orizzonti di significato (mutuando la terminologia del secondo paragrafo delle Indicazioni per il curricolo del 2007 del Ministero della Pubblica Istruzione).

Nella realtà non è così, anziché il puerocentrismo sembra regnare un arrogante adultocentrismo, atteggiamento che pone al centro della percezione e dell’interpretazione del mondo, anche di quello infantile, gli schemi mentali e il punto di vista dell’adulto.

Il filosofo francese Marcel Gauchet scrive: “Se il XX secolo è stato il secolo della scoperta del bambino reale, supportata dalla nascita contemporanea della pediatria, della pedagogia e della psicoanalisi, il XXI sembra aprirsi come il secolo della sacralizzazione del bambino immaginario. La nostra società esalta a tal punto la dimensione infantile da arrivare a mitizzarla e, alla fine, a mistificarla”[1]. Secondo il filosofo i bambini che non sono figli del caso e della vita, ma di un progetto preciso, fanno più fatica ad accettare di essere persone qualsiasi. Sono abituati a genitori che si sentono in dovere di confermare loro, ogni istante, che sono stati veramente voluti. Si sentono unici e speciali, degni di una vita speciale. Altrove Gauchet aggiunge: “Genitori strateghi, interessati alla riuscita, costi quel che costi, dei loro figli, non esiteranno a mettere una scuola contro l’altra, a lasciarla alla prima mancanza o al primo segnale di cattivo funzionamento. Veri e propri guardiani della riuscita dei loro figli, rendono vana l’idea di una politica collettiva e “ridistributiva” che metta in secondo piano le loro esigenze”[2]. Si ha così una “privatizzazione” dei figli che non accettano sconfitte né sacrifici e a cui tutto è dovuto.

Nella nostra società si rincorrono in maniera quasi compulsiva atteggiamenti, nei confronti dei bambini, discordanti se non schizoidi.

Quando si discute in ogni campo della famiglia, il punto di vista dei bambini è di solito assente da questo dibattito, riguardando solo le opinioni e le preferenze degli adulti.

I genitori e gli adulti in generale sono spesso immaturi, disorientati, confusi, “adultescenti” ancora alla ricerca della propria identità e all’inseguimento dei propri sogni, per cui i coetanei prendono il posto dei genitori nella vita dei figli; fenomeno a cui lo psicologo canadese Neufeld Gordon[3] ha dato il nome di “orientamento ai coetanei”, nel senso che bambini e ragazzi tendono a rivolgersi ai coetanei per avere indicazioni rispetto ai valori, all’identità e ai codici di comportamento.

Le donne tendono ad avere figli in età sempre più avanzata (o addirittura in menopausa) e a fermarsi spesso al primo figlio togliendo ai figli la possibilità di avere madri giovani che crescano genitorialmente con loro e la ricchezza della “fratria”.

I bambini sono frequentemente percepiti come elementi di disturbo, di cui sono esemplari gli hotel o le vacanze “child free” (liberi da bambini, vietati ai bambini) o all’interno di molte famiglie l’unico bambino è il centro delle attenzioni (e non tanto dell’attenzione) di tutti (genitori, nonni, zii) diventando un’icona, un oggetto da proteggere o un piccolo tiranno.

Le politiche sono più politiche “mother friendly” (“amiche della mamma”) e non “family friendly” trascurando che il bambino non ha diritto solo ad avere una madre disponibile ma un’intera famiglia; queste politiche portano a minor coesione sociale, a deficit di reciprocità nelle relazioni tra i sessi e senso di solitudine, condizioni non ideali per i bambini.

Anche i testi normativi sull’infanzia e l’adolescenza sono concepiti da e per adulti, per cui non sono fruibili dai loro destinatari tanto che una versione semplificata della Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia è stata curata dall’Associazione Telefono Azzurro nel 1997.

La famiglia rappresentata nelle fictions è soprattutto quella “ricostituita” dopo precedenti e fallite esperienze matrimoniali o sentimentali; anche se in Italia è un modello ancora minoritario, si presta meglio a trame complesse, ma è inadatta per i bambini per i quali è destabilizzante e diseducativa.

Per non parlare di televisione in generale e altri media, videogiochi, giocattoli e abbigliamento, che non sono a “misura di bambino” ma rispecchiano sempre più il mondo degli adulti e risultano parecchio “adultizzanti”.

Perché il puerocentrismo non sia sterile o insano bisogna “credere nel bambino” e “portare la voce dei bambini”, come si legge in “Pour chaque enfant, un avenir. Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance”, dichiarazione elaborata e promossa nel giugno 2007 dal BICE (ONG sorta nel 1948), che rappresenta un’applicazione ed evoluzione della Convenzione di New York. “Credere nel bambino” significa dare fiducia, necessaria per l’autostima (per la costruzione del sé); “portare la voce dei bambini” significa dare ascolto, necessario per il dialogo (per il riconoscimento dell’altro). Fra i vari assunti significativi si legge pure: “Ogni bambino ci racconta a suo modo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità”. “Raccontare”, “richiamare”, “responsabilità” derivano tutti dal prefisso latino “re”, che indica un ritorno a uno stato precedente o un movimento all’indietro o qualcosa che si ripete di nuovo, circolarità che caratterizza una “relazione” (dal verbo latino “referre”, composto di “re” e “ferre”, “portare indietro”, “portare di nuovo”). Ebbene la vera centralità di ogni bambino si realizza proprio nella relazionalità, quelle “relazioni significative” di cui tanto si parla ma che poco si contribuisce a costruire.



[1] Dal risvolto di copertina di “Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica” di Marcel Gauchet, Milano, Vita & Pensiero, 2010.

[2] Marcel Gauchet, “Un mondo disincantato? Tra laicismo e riflusso clericale”, Edizioni Dedalo, Bari, 2008, p. 160.

[3] Gordon Neufeld e Gabor Maté, “I vostri figli hanno bisogno di voi”, Il leone verde Edizioni, Torino, 2009.

Ortopedia penitenziaria

ORTOPEDIA PENITENZIARIA

di Vincenzo Andraous

La conferenza sul carcere è terminata da qualche giorno, qualcosa mi rimanda a quanto abbiamo ascoltato, detto e risposto. Qualcosa sta di traverso, come se l’incontro svolto poggiasse le gambe su un tavolo tarlato, su un interrogativo che scava.

Dialogare sul valore della pena, della legalità, della giustizia, nasce da una esigenza profonda di sapere, di conoscere,  per contribuire al bene comune, oppure è il risultato di una curiosità, dettata da una morbosa disattenzione. per fare qualcosa di diverso, un rumore, un ritmo, una specie di crociera da spendere per passare in rassegna le isole del castigo,  negli spazi dove si è obbligati a pagare il proprio debito con la società.

La sensazione è che il pubblico-contribuente non conosca il carcere, erroneamente percepito come terra di nessuno, mentre apprezza quello rappresentato dai films o dai  fumetti, delle storie inventate.

Sovraffollamento irraccontabile, carenza endemica di personale, investimenti al lumicino, non fanno altro che rendere teatrale la sofferenza che transita dentro le celle di un penitenziario, la tragedia che incombe sui troppi morti che escono con le gambe in avanti, una cartellonistica suicidiaria che oramai travalica perfino il più alto dei muri di cinta.

Non c’è più neppure sufficiente coerenza a denominare i detenuti per ciò che sono diventati: numeri in quantità industriale, da trattare senza troppi rimorsi di coscienza.

C’è chi interviene per sostenere la cultura come badante di una “pena” ammalata, chi invoca il lavoro come unico strumento di riordino, chi confida nell’importanza di incontri autorevoli per fornire supporto a un vero e proprio ripensamento culturale.

Siamo in tanti a spendere parole, significati, contenuti, a indicare le molte strade da percorrere, siamo in pochi a individuare le possibili terze vie da intraprendere, in ogni caso partendo dal rispetto di una doverosa esigenza di giustizia di chi è vittima, e scoprendo nuove opportunità di riscatto e riparazione.

Bisogna  osservarlo bene il carcere, se intendiamo svolgere una analisi corretta che non ci faccia perdere contatto con la sostanza delle cose, con gli strumenti occorrenti per arginare il perseverare del suo meccanismo perverso.

Detenuti tossicodipendenti commettono reati per farsi, per comprare, per vendere, non si tratta di un vizio, è gia malattia, forse potrebbe essere buona cosa la presa in carico in comunità dai requisiti  a registro, dove spesso l’accoglienza è cura e salvezza di vita.

Detenuti extracomunitari, ultimi tra gli ultimi, troppi e accatastati l’uno sull’altro, in attesa di un altro niente che non sta a buona vita domani, forse occorre più autorevolezza nel protocollare intese umanitarie che risultino davvero condivise anche nei paesi di origine.

Detenuti autoctoni, microcriminalità, eccesso di reati che fanno emergenza, creano urto, fastidio e rabbia, un bacino-utenza da ripensare: dove collocare, adibire a lavori socialmente utili, dentro una pena che risulti finalmente un esercizio di responsabilità.

Sul carcere mille cose si tolgono dove già poco c’è, il cosiddetto fiore all’occhiello non basta più a coprire quanto è disperante lo spettacolo del disonore che non si vuole fare vedere, nella più disumana indifferenza.

Amnistia no, ma i tribunali rimangono oppressi e impantanati da milioni di  carte usurate dal tempo e finanche destinate alla prescrizione, camere di sicurezza elette a domicilio, detenzioni domiciliari che poco servono, c’è in atto uno svuotamento delle idee, al punto che non c’è neppure un “giusto” a sottolineare la condizione in cui sopravvive gran parte della comunità ristretta: non c’è solamente delinquenza, ma una quantità corposa di persone  espansa su tutto il territorio, che potrebbero essere diagnosticate doppia diagnosi, patologie da disturbi della personalità border-line, un disagio psichico per niente difficile da appurare, dove la problematica principale non sta nell’uso e nell’abuso di sostanze,  nei reati, nella trasgressione che è già devianza, ma in un vero e proprio schianto mentale tra start adrenalinico e latitanza emozionale dalle conseguenze imprevedibili.

Indipendentemente dalle varie e bizzarre “ortopedie penitenziarie” intese a fare camminare correttamente dentro percorsi socialmente condivisi ( cosa ci sarà mai di socialmente condivisibile in un carcere che ancora non c’è, e peggio, non si riappropria del suo ruolo e della sua funzione ) occorre confermare quanto davvero fa sicurezza, salvaguardia della collettività, forse è ora di ritornare a pensare a un carcere che “è” società, perché ne fa parte e  disegna legalità, possiede giustizia sufficiente a creare momenti di riparazione.

Un carcere che ci dice chi entra nelle sue viscere, ma soprattutto chi, non “cosa” esce: è urgente impegnarsi per un carcere diverso, per auspicare il ritorno nella società di persone migliori, questo è quello che si dice un preciso “interesse collettivo”.

Un progetto educativo che richiede condivisione

Un progetto educativo che richiede condivisione

di Cinzia Olivieri

Sebbene l’istituzione dei comprensivi non appartenga alla storia recente, essi sono tornati all’attenzione dei media da quando l’art. 19, comma 4, del d.l. n. 98/2011, Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria convertito con modificazioni dalla legge n. 111/2011, ha stabilito che dall’anno scolastico 2011-12 tutte le istituzioni di scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado siano aggregate in istituti comprensivi.