Attacchi di panico o ”sindrome di pinocchio”?

Attacchi di panico o ”sindrome di pinocchio”?

di Adriana Rumbolo

Perché non chiamare l’attacco di panico, sindrome di Pinocchio?
Il burattino è imprigionato nel proprio corpo di legno, rigido.

Non può avere conoscenza e coscienza di quel corpo tanto da organizzarlo e usufruire dei suoi mezzi, e forse per questo passa da una sventura all’altra.

Così un soggetto con il corpo ingabbiato e irrigidito da paure e insicurezze di fronte anche a piccoli problemi quotidiani, non godendo della coscienza e della conoscenza del proprio corpo, verrà sopraffatto dai sintomi allo sbando di molte funzioni fisiologiche e neurologiche coinvolte nella sofferenza corporea e percepirà l’angoscia di una fine imminente.

Per fortuna che l’attacco di panico è reversibile e non lascia danni fisici: resta il percorso in salita alla ricerca di chi e che cosa abbia bloccato quel corpo con massicci messaggi di paure e disistime.

Una volta liberato il corpo, si ristabilirà la fortissima associazione tra la regolazione del corpo all’interno del cervello e il corpo stesso.

Addio, attacchi di panico!

L’eufemismo dell’Inferno di Dante

L’EUFEMISMO  DELL’INFERNO DI DANTE

di Vincenzo Andraous

L’estate è sbilanciata in avanti, le temperature alzano il tiro, i corpi ammassati tentano disperatamente di resistere, i malati più deboli muoiono, quelli più sani combattono dentro una resistenza senza riparo, altri stanno lì senza il più piccolo sollievo, nè capacità di avvertire la propria colpa.

Il carcere non è più spauracchio dell’illegalità, strumento deterrente, non è più ultima trincea a difesa di ogni libertà. E’ diventato altro, come Dante e il suo inferno sono diventati un mero eufemismo, e Benigni  un cantore in disuso, entrambi non più corrispondenti alla disperazione di un luogo perduto alle coscienze.

Cos’è il carcere oggi, a cosa ed a quale dissacrante dottrina si è ridotto, se non all’indifferenza? Sovraffollamento che non è più riconducibile al solo problema endemico all’Amministrazione Penitenziaria: è il risultato di recidive alimentate da politiche ingannevoli, più galera per tutti, meno misure alternative che invece insegnano a lavorare, a faticare, a scegliere la responsabilità, in un patto di lealtà sociale.

Carenza di personale professionale e dimezzamento dei fondi di investimento al settore giustizia non sono sufficienti a confermare il livello di disumanità che circonda un penitenziario, una cella, un cittadino detenuto, perché ancora tale è, come sancito dalla Costituzione, dalla condizione di persona momentaneamente privata della libertà, non certamente del diritto di sperare.

Quando penso al carcere, malandato, umiliato, percosso dalle intelligenze addormentate, mi vengono in mente le pretese di giustizia di un certo Peter Moskos, ex funzionario di Polizia, ora docente di diritto penale, salito prepotentemente alle cronache per un report di 154 pagine, con cui ritiene di superare il fallimento del sistema penitenziario americano, debellando il più devastante sovraffollamento carcerario della storia dell’umanità, attraverso la punizione della flagellazione.

E’ soltanto una boutade sconcertante di un illuminato senza più luce né ragione, oppure c’è qualcosa che fa al caso nostro? Al sistema americano certamente sì, con la pena di morte, con il carcere privatizzato, con la violenza intramuraria che neppure i films riescono più a immaginare, figuriamoci raccontare.

Nel paese della selva oscura dell’Alighieri e del Benigni che disconoscono i gironi ben nascosti di un inferno in continua ebollizione, forse qualche nerbata potrebbe passare, come pena alternativa a un carcere che mi ostino a dire che ancora non c’è.

Oppure il solo pensare a una punizione come questa scandalizza, perché ci ricorda la schiavitù, qualche reminiscenza di tortura, di inquisizione, di pene illegali.

Certo non è semplice optare per una condanna alla frustata, al ritorno del sangue statuale, ma con qualche scudisciata ben assestata, il 70% di popolazione detenuta potrebbe nell’immediato lasciare le anguste e sovraccariche celle italiche.

Il dott. Moskos pare più attrezzato a scioccare e banalizzare, che a risolvere una violenza carceraria che ha superato ogni livello di guardia nel suo paese. Ma in questa partitura medioevale è possibile trovare qualche indicazione, quanto meno ripartire da una riflessione.

Disturba fare ricorso anche solo con le parole a una violenza che dovrebbe “sanare”  altra violenza, che “ripara” il male con altro male,  eppure come è possibile inorridire assai meno per una pena che rapina le dignità con inaudita perseveranza, tant’è che a metà anno abbiamo perso il conto dei tanti “evasi” con i piedi in avanti, detenuti e agenti.

Sobbalziamo al pensiero di trascendere alla fustigazione, rimanendo impassibili di fronte al grado di violenza cui è sottoposto il detenuto, e non solo, l’intero impianto penitenziario.

Abbandono e indifferenza, morte dei corpi e delle menti, morte di ogni possibilità di comprendere di sé e del proprio esistere nella vita che rimane, nonostante la cella, nonostante il carcere.

E’ un degrado che polverizza ogni speranza di sentirci ancora utili, parte di una società che professa la difesa del diritto alla riabilitazione, che giustamente rigetta il teatrino dei dinieghi alle frustate,  ma non intende guardare al di là del muro, dove l’ultima solitudine è concessa senza timbri sul passaporto.

E’ morte assunta con una stringa allacciata alla gola, in un giorno dove Dio è morto dentro una cella.

 

Intorno a TEST, TFA e INVALSI

INTORNO A TEST, TFA e INVALSI: UN PERCORSO VIRTUOSO PER COSTRUIRE UNA CULTURA DELLA VALUTAZIONE

 

In questo caldo agosto si è sviluppata una sacrosanta polemica sui marchiani errori di contenuto e di metodo presenti nei test proposti nell’ultimo concorso a dirigente scolastico e – ancor più – nelle prove per l’ammissione, peraltro a pagamento, ai corsi di Tirocinio Formativo Attivo. Segnali che confermano quanto continui ad essere sottovalutata la questione del reclutamento del personale scolastico, futuri dirigenti e docenti. Purtroppo però l’occasione è stata colta in ambienti diversi, in alcuni casi anche inaspettati, per rimettere in discussione l’emanazione del regolamento sul sistema di valutazione. In alcuni casi le negative esperienze citate sono stati utilizzate per ridicolizzare l’idea stessa della rilevazioni basate su test. In altri, più seriamente, si è ragionato sul sintomo di un malessere profondo che può essere curato solo attraverso una pausa di riflessione nelle procedure valutative allo scopo di cercare di costruire una reale consapevolezza, attualmente assente sia tra gli insegnanti sia nelle Università, ma soprattutto al Ministero.

Ora, a nostro parere, occorre innanzi tutto tenere ben distinte cose che sono assolutamente diverse. Una cosa sono i “quiz”, il cui solo scopo sembra essere quello di costruire quesiti adatti a sfoltire lo stuolo dei concorrenti a un posto di lavoro o di studio; tutt’altra le prove che organismi specializzati come l’INVALSI o gli esperti OCSE-PISA costruiscono sulla base di un’ormai lunga esperienza di ordine didattico e statistico per rilevare lo stato di funzionamento e l’efficienza di un sistema.

Gli errori e le improvvisazioni che hanno caratterizzato i primi rappresentano una vergogna e testimoniano dell’impossibilità di affidare ad improbabili e improvvisati esperti il compito non validato da nessuno di costruire gli strumenti di selezione dei docenti e dei dirigenti. Non tanto per via delle cantonate o delle oscurità nella formulazione di taluni item, quanto perché davvero qualcuno dovrebbe spiegarci perché mai dovrebbe essere più adatto ad insegnare filosofia chi ricorda meglio il nome di un oscuro sofista o il titolo di un’opera filosofica del medioevo. Non ci sono, o dovrebbero essere, gli esami universitari a garantire in maniera seria il possesso delle conoscenze di base? E perché mai il dirigente potenzialmente più capace dovrebbe essere quello che più rapidamente connette alla domanda X la risposta Y? L’analisi di Bartezzaghi su Repubblica ha avuto sicuramente il merito di mettere il dito su una piaga nota da decenni: la persistente incapacità di individuare modalità di assunzione più legate alla effettiva professionalità docente e al contesto ambientale e culturale in cui operano quelle persone in carne ed ossa che sono gli allievi. Ma si fonda a sua volta – come non manca di notare, per esempio, Maurizio Tiriticco – su un presupposto errato: che questo modo arbitrario di accertamento delle conoscenze e delle competenze sia l’unico modo “oggettivo” di valutare. E così certamente pensano molti insegnanti, che non hanno saputo o voluto cogliere lo sforzo che proprio dai ricercatori INVALSI viene operato di connettere la formulazione degli item con le competenze da accertare, cioè delle operazioni cognitive che gli allievi utilizzano per risolvere la situazione-quesito. Si tratta di un procedimento molto delicato, certamente perfettibile per quanto riguarda la costruzione degli item, basato su una metodologia che va al di là delle opzioni vero/falso, per mettere in relazione certe premesse con certe conseguenze. Proprio in questo, notiamo, consiste il valore orientativo delle scelte epistemologiche e didattiche dei Quadri di Riferimento esplicitati dall’Istituto di Valutazione

Non sono molti, in questo paese, gli esperti che si muovono in questa direzione. Certo non le università che, salvo lodevoli e rare eccezioni, ignorano la ricerca educativa applicata e il rapporto reale con le scuole. Il Ministero, poi, non può contare quasi più sugli Ispettori tecnici (ormai sono in servizio quasi solo quelli di nomina politica, meglio lasciar perdere…). Gli IRRE sono stati chiusi, sta di fatto per chiudere l’ANSAS. Cosa ci si può aspettare?

Certo, rimangono le scuole, alcune delle quali svolgono un lavoro pregevolissimo. Ma sono proprio queste che chiedono di essere aiutate in un’attività che non è semplice e non è riconosciuta. Ma proprio perché il quadro è questo, quale sarebbe il vantaggio di un rinvio sine die dell’emanazione del Regolamento sulla Valutazione?. L’unico risultato certo sarebbe di lasciare nella più assoluta precarietà proprio l’unica istituzione che – in collegamento con il lavoro dei ricercatori OCSE-PISA – ha lavorato in questa logica. Si può infatti criticare questo o quell’aspetto delle prove INVALSI, questo o quell’utilizzo politico fatto dei dati rilevati, ma non il loro essere fondate su un legame definito ed esplicitato con le competenze attese.

E’ piuttosto necessario ed urgente considerare come assolutamente prioritario l’investimento nella valutazione del sistema e delle singole istituzioni, come del resto chiedevano gli unici due punti riguardanti la scuola della famigerata lettera della BCE al governo italiano dell’agosto 2011.

L’ANDIS ha più volte indicato in questa direzione alcune condizioni di sviluppo del processo:

a) che sia strutturata una collaborazione continuativa dell’Istituto Nazionale di Valutazione con quella grande maggioranza di docenti che responsabilmente vivono il momento della prova senza boicottare, senza suggerire le risposte (non vogliamo pensare alle conseguenze educative di una tale esperienza), senza obiettare che la correzione degli elaborati non è loro competenza (di chi allora?) e senza adottare la metodologia del “teaching test” come unica risposta agli stimoli provenienti dalle rilevazioni;

b) che i tecnici INVALSI esplicitino con sempre maggiore chiarezza i criteri con cui sono state scelte le competenze il cui conseguimento viene testato e – in relazione ad esse – quelli di costruzione degli item e delle griglie di correzione. In questo modo sarà anche più facile per gli insegnanti ricavare preziose informazioni circa gli strumenti di verifica usati ordinariamente e circa i percorsi capaci di mettere gli allievi in condizione di raggiungere gli esiti di apprendimento attesi.

c) In questo quadro, consideriamo essenziale l’attenzione che i dirigenti scolastici rivolgono a questi aspetti, proponendo piani di formazione che prevedano l’analisi (non l’accettazione acritica) dei quadri di riferimento delle prove, l’analisi dei rapporti conclusivi e la discussione comune delle modalità di verifica interne. Fondamentali, da questo punto di vista, le considerazioni svolte da Daniela Notarbartolo sul rapporto tra ricercatori, dirigenti e docenti per “salvare” le prove rendendole funzionali alle problematiche reali della nostra scuola. Su questo piano l’Andis Lombardia ha partecipato attivamente con l’Ansas Lombardia per la definizione di Linee guida per i dirigenti scolastici, ritenendo strategico il loro ruolo per l’implementazione del sistema di valutazione degli apprendimenti.

d) Frutto della collaborazione all’interno di questa filiera virtuosa dovrebbe essere la definizione, da troppo tempo attesa, degli standard così come avvenuto nel settore dell’istruzione e formazione professionale. Ciò renderebbe più precise e finalizzate le stesse rilevazioni, ma soprattutto diventerebbero chiari i punti di arrivo della progettazione didattica degli insegnanti.

e) E’ ovvio, ma di questi tempi non è banale dirlo, che l’INVALSI va potenziato, sia sul piano quantitativo, sia sul piano qualitativo, con l’ampliamento dei quadri e la definizione delle professionalità necessarie, rivalutando anche i compiti più propriamente formativi dell’Istituto, già presenti nella legge istitutiva

Come si vede, anche noi parliamo di “condizioni” perché migliorino sensibilità nell’opinione pubblica e risultati, ma riteniamo che esse possano progressivamente realizzarsi proprio e solo nel quadro di una prosecuzione e di un rafforzamento del processo di valutazione in atto e dell’affido formale all’INVALSI opportunamente potenziato di quei compiti di monitoraggio, formazione e consulenza al Ministero che svolge, ad esempio, l’OFSTED inglese.

Proprio la necessità di sviluppare una cultura della valutazione, insomma, e di valorizzare il patrimonio costituito dalle scuole, in un rapporto dialettico tra valutazione esterna ed autoanalisi di istituto, ci inducono a considerare essenziale una forte iniziativa che vada nel senso di consolidare la pratica delle rilevazioni degli apprendimenti. Sarebbe invece infausto per la nostra scuola un passo indietro come quello costituito da ulteriori ritardi nell’emanazione del Regolamento o come quello proposto dall’emendamento – fortunatamente bocciato al Senato al ddl di riforma degli organi collegiali – che proponeva il ritorno alla rilevazione “a campione”, cioè a una metodologia totalmente al di fuori dalla logica dell’interazione tra valutazione esterna e autoanalisi d’istituto.

Ci sembra piuttosto che un altro punto sia da affrontare nella prospettiva che qui sosteniamo: quello del rapporto tra valutazione nazionale di sistema e valutazione del singolo studente. Se, correttamente, la prima è compito del Servizio Nazionale e la seconda dei docenti, ci pare giunto il momento di fare un’analisi seria dei problemi emersi negli ultimi due anni nell’esame conclusivo del primo ciclo. La prescrizione della media aritmetica, tra gli esiti delle prove nazionali, delle prove proposte dalle Commissioni e del voto di ammissione, non è stata condivisa pressoché da nessuno ed ha creato gravi imbarazzi, paradossalmente proprio sugli allievi con miglior rendimento. E’ infatti vero che la prova nazionale rappresenta un utile correttivo ai troppo diversificati livelli di difficoltà e parametri di giudizio, ma secondo molti docenti e dirigenti non si possono somministrare agli studenti impegnati nel loro esame gli stessi item utilizzati per la valutazione di sistema. Andando oltre, andrebbe chiarito il significato di un esame di stato che di fatto non è più al termine della scuola dell’obbligo.

Ci pare un punto nodale, anche in vista della prossima formulazione nazionale della terza prova all’esame di stato del secondo ciclo, su cui non a caso i tecnici INVALSI sono sempre stati molto prudenti.

Pensiamo che sia venuto il momento di richiedere con forza che a discutere di questo nodo cruciale non siano commissioni ristrette, ma che tutte le scuole siano coinvolte in riflessioni motivate sui criteri di costruzione, di somministrazione, di definizione delle prove e sui pesi da attribuire in sede di valutazione finale. Ai tecnici INVALSI il compito di fare una sintesi ragionata del dibattito.

Crediamo che su questo piano si possa contare anche sulle Associazioni Professionali, prima fra tutte l’ANDIS.

LOREDANA LEONI

ALDO TROPEA