No, caro Lodoli!

No, caro Lodoli!

 di Maurizio Tiriticco

Non è affatto vero che ormai l’Umanesimo sia giunto alla sua fine! Almeno così si esprime il titolo de “la Repubblica” di ieri 31 ottobre! E a caratteri cubitali! Vado a vedere l’incipit e leggo che una professoressa lamenta di non esistere più, di essere diventata invisibile! “Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta!… La mia voce non gli arriva, parlo e vedo le parole che si dissolvono nell’aria e dopo un poco mi sembra che anch’io mi dissolvo”. Mi chiedo: la stessa cosa non potrebbe dirla anche la professoressa di matematica? E allora anche la cultura scientifica si sarebbe dissolta? Ma che test è, caro Lodoli? Due insegnanti che insistono nel fare la lezione di sempre possono costituire un test per saggiare lo stato della cultura e della ricerca nel nostro Paese? Non viene in mente alla nostra collega che forse è la sua lezione che ammorba e non i contenuti che intenderebbe “trasmettere”? Lo so che un vecchio e stantio adagio considera la cultura come un qualcosa che si trasmette e che l’insegnante sarebbe il mezzo per questa trasmissione! Ma è proprio così? Forse una volta poteva essere così! L’alunno era un numero riportato su un registro, braccia conserte su un banco scomodissimo, grembiule nero e fiocco bianco, zitto e mosca, come si suol dire. E l’insegnante che in/segna, che lancia parole che dovrebbero segnare la testa dell’alunno! E poi interroga per verificare che ciò che ha detto sia stato debitamente segnato, registrato, restituito! La scuola di un tempo, della cattedra e dei banchi, di chi parla e di chi ascolta! Ma è proprio vero che questo modello di scuola sia ancora valido e produttivo? Sempreché lo sia stato anche nel passato? Alla tua professoressa, di lettere o di matematica, non viene in mente che anche le cose più interessanti del mondo, quando dette e raccontate, possano solamente annoiare e ammorbare?

Molti anni fa l’unico modo per accedere a un qualcosa di culturale era la scuola: giornali, riviste, libri erano solo per pochi; e non c’era né radio ne telefono né la televisione! E neanche la luce elettrica! E l’Umanesimo, quello della nostra proff, riguardava più o meno l’un per cento della popolazione. Se il 90% della forza lavoro – appena 100 ani fa – attendeva al lavoro dei campi, che necessità aveva di leggere, scrivere e far di conto? Le tecniche di lavorazione erano trasmesse praticamente di padre in figlio! E l’analfabetismo raggiungeva quote percentuali altissime! E l’Umanesimo? Ma che roba è? Finalmente venne la scuola! E insegnare a leggere e scrivere, trasmettere cultura e “fare lezione” erano forse funzionali a quel contesto socioculturale assolutamente deprivato, ma oggi?! Tutto è profondamente cambiato! Tutto soprattutto nella testa, negli atteggiamenti e nei comportamenti dei nostri ragazzi, esposti quotidianamente a stimoli di diversa natura e di forte impatto! Come possiamo pensare che a scuola si possa tenere una lezione come si poteva e, forse, si doveva fare un tempo? Lo spazio vitale di un tempo era piccolo piccolo! Anche per me negli anni Trenta dello scorso secolo l’Africa e l’America erano terre lontane, immaginate e sognate! Le coordinate spazio-temporali in cui si muovevano i nostri nonni erano estremamente ristrette: la stessa Milano era lontana da Roma anni luce; e il tempo o era quello di ieri o quello della storia raccontata dai libri, o meglio dai libri di testo che spesso erano gli unici che “abitavano” in una casa! La lezione cattedratica era qualcosa di insolito, di nuovo, a volte anche di coinvolgente! Ma oggi? Quanti sono gli stimoli a cui sono esposti i nostri ragazzi? Lo spazio soprattutto sembra non avere più confini e Sharm el Sheik è alla portata di mano! Un tempo a volte si viveva un’intera vita senza avere mai visto il mare!

E allora di che si lamenta la nostra professoressa di lettere? L’Umanesimo è morto perché una classe intera si abbiocca costretta ad ascoltare le sue parole? Non andiamo oltre a scomodare i massimi sistemi! Non è morto l’Umanesimo! Non è morta la ricerca scientifica! E’ morto un modello di scuola! E’ morto un modello di insegnamento! Non le viene in mente che la cultura non si trasmette, ma si sollecita, si accende, si provoca, si fa costruire, si costruisce insieme? Si è mai chiesta la proff di Lodoli che cosa sia la didattica laboratoriale? Non sta a me entrare nel merito! Ma sia le Indicazioni nazionali che le Linee guida – le conosce la nostra proff? – ne parlano diffusamente! E dovrebbero porre qualche interrogativo alla nostra proff! Che si lamenti di meno e che si aggiorni di più! E impari a stabilire rapporti diversi con i suoi alunni! E vedrà che saranno capaci di appassionarsi! Purché i nostri ministri la piantino di tagliare fondi alla scuola di cui , invece, ha un estremo bisogno! Anche per aggiornare la nostra proff!


Farsi altrove e “passeggiare”

Farsi altrove e “passeggiare”
Per una “prima scuola” dei se e dei ma

 di Claudia Fanti

Prendo spunto dall’articolo di Lodoli “Quell’altrove culturale dove vivono gli studenti

La mia percezione di maestra è diversa dalla sua. I bambini e le bambine mi paiono proprio essere collettori genetici della “nostra storia”. Esattamente così, purchè non vengano lasciati soli nel mondo dei messaggi mordi e fuggi. Ho scritto più volte che ,al di là dei facili sociologismi, il mondo degli adulti “anziani” dovrebbe sforzarsi di andare.

Non basta soffermarsi su ciò che si “vede” nelle relazioni e nei comportamenti di superficie quotidiani del mondo giovanile, non basta. Non si può come educatori-insegnanti non lottare in modo esplicito, nero su bianco, contro schede, test, analisi formali del testo, grammatica in pillole esplicite, accumulo di informazioni. E non lo si deve fare soprattutto nella scuola primaria: qui si dà il la al modo di rapportarsi al sapere e alla ricerca personale.

Anzi, l’”arte” della comunicazione orale va ripresa fin dalla più tenera età e cioè dalla scuola dell’infanzia, e va ripresa ridando sommo valore alla conversazione prima della matita e della penna, senza super produzione di oggetti (vedi quaderni, schede, cartelloni, file, o che so io)…

Entrare in classe con la parola e ascoltare la parola è l’arma più potente contro la dissoluzione del pensiero critico e illuminato sulla realtà.

La realtà, sia essa reale od onirica-fantastica-immaginaria, va indagata insieme con i giovani infischiandosene di programmi, verifiche, voti, test, risultati subitanei da raggiungere. Anche perché i risultati arrivano eccome!

“Vedere” prima, guardare poi, osservare in seguito, discutere più avanti, infine conversare e argomentare sugli aspetti della realtà in  modo appassionato e laico riporta nella giusta dimensione speculativa adulti e bambini/e.

E’ nel bambino/a che deve “inizare” il percorso di riconoscimento della umanità di tutti, di quella umanità che cerca nel bello e nel buono le risposte per viaggiare sicuri verso un ignoto che  via via si chiarisce e quando non si chiarisce va interrogato con puntiglio e con la giusta lentezza utile a dare spazio a ipotesi, a costruzione autonoma di futuro.

Al mondo dei centri commerciali, dei giocattoli usa e getta, dei video game, del tutto e subito, quel mondo che vede bambini trascinati come valigette a correre per le corsie di un supermercato ideologico, va opposto il mondo della “passeggiata” rilassata fra le cose, quella che sa guardare in alto verso il cielo o il mare azzurro e ancora chiede perché sia azzurro, e lo indaga tramite le scienze, le poesie, la letteratura, la filosofia, la storia, la geografia, l’arte, la musica, il racconto…

E non è il numero degli argomenti affrontati nella “passeggiata” pedagogica, ma la profondità e il rigore del soffermarsi sulle proprie risposte confrontate con quelle di autori contemporanei e antichi a confronto pure essi, che fa apprendimento vero e solido.

Se con un bambino qualunque avvio una converazione su sogno (magari perché in classe qualcuno ha raccontato un “brutto sogno”) e  libertà  (magari perché qualcuno ha detto che quando si sogna si è costretti a farlo!) e gli lascio disegnare “la sua libertà”  unitamente al suo sogno e poi lo induco con la paziente attesa a parlare a lungo di ciò che ha pensato e fisso sulla carta i suoi pensieri in modo che li possa poi leggere e rielaborare, e successivamente, soltanto successivamente per non condizionarne prima l’espressione, gli presento, che so, quadri di surrealisti, senza analisi formali precoci, e gli permetto di fare ipotesi sul perché e il percome, secondo lui, sulla tela ci sono immagini stranianti, e poi leggiamo insieme la poesia di P. Eluard “Libertà” e ne cogliamo le immagini e ad esse  permetto al bambino di associare le sue, e poi gli racconto la storia in cui si inseriscono tali versi e via dicendo…mi accorgo della potenza del nostro narrarci a vicenda, mi accorgo di quanto nel bambino stesso sia presente la “nostra storia”, quella che Lodoli teme o auspica conclusa…

L’incanto che si può leggere negli occhi e nelle parole stupite di un bambino che si accorge di “sapere” prima del sapere formale di altri, e di non essere solo con le sue intuizioni, con le sue parole, con i suoi disegni, con i suoi incubi, con i suoi desideri di libertà e autonomia, è un regalo che lui/lei fa alla scuola e, in definitiva, al futuro.

Con ciò, non voglio dire che le difficoltà di apprendimento e insegnamento non esistano, voglio semplicemente far presente che nulla è perduto. Anzi, direi che forse il nostro presente sarebbe potentissimo nel suo rifornirci di strumenti d’indagine anche tecnologici a supporto degli approfondimenti che mettiamo in atto a scuola, se solo sapessimo selezionare tali strumenti e usarli come strategici supporti e non come dei che pretendono sottomissione di teste e programmi da svolgere.

Un tempo c’erano quei lunghi elenchi di parole dai quali attingere il lessico, alla Savaresi per intenderci: testo letterario su un aspetto della natura trattato in modo lirico, successivo contenitore lessicale a margine per l’espressione. Ecco, non certo questo oggi facciamo coi nostri alunni, Tuttavia il ridare gli occhi, la voce, le parole… alle cose belle, significative, mentre si materializzano davanti alla nostra coscienza, siano esse una cosa-farfalla o un cielo stellato, credo sia necessario, essenziale, d’obbligo. Il  riflettere su di esse a lungo, il rielaborare insieme e poi il riordinare le idee con l’aiuto di storia e autori appartenenti al nostro “antico sapere” sono atti pedagogici e didattici che vanno agiti e divengono il volano per spingere in avanti questi bambini e ragazzi troppo costretti nelle gabbie dei risultati, dei prodotti verificabili, dei giochini di livello che il mondo sclerotizzato propina loro riproponendo le dinamiche adulte dei rapporti e delle visioni à la page…

Davanti a una scuola, ieri, vedevo schiere di studenti e di insegnanti, allora  li ho ascoltati: parlavano di interrogazioni, di compiti in classe, di programmi più o meno onorati nella loro corposità…

Invece mi piacerebbe sentir parlare delle idee di ognuno, delle opinioni (anche fossero le più strampalate, almeno sarebbero espresse), di domande senza ancora una risposta alle quali se ne vorrebbe trovare una insieme…un bell’altrove!

In ogni caso, ritengo che non si valuti ancora fino in fondo il peso che ha avuto negli ultimi vent’anni sull’insegnamento/apprendimento lo spostamento di visione indotto, anche nei più resistenti, da una scuola degli “attesi imprevisti” alla Perticari (per intenderci) a quella degli obiettivi specifici e generali da raggiungere senza se e senza ma, della competizione, del voto, delle verifiche a crocette e dei risultati DOVUTI.

 

I poteri forti e l’attacco alla Scuola pubblica

I poteri forti e l’attacco alla Scuola pubblica

 di Pasquale Picone

Di fronte al panorama del progressivo degrado delle relazioni sociali, grazie al dilagare dei disvalori, dell’elevazione a categoria divina del profitto e del danaro, c’è da chiedersi, da dirigente di un liceo dello Stato, dove attingere l’energia quotidiana per guardare negli occhi i docenti di scuola pubblica, per sostenerli nel loro lavoro di formazione dei giovani.

Ancora di più, come guardare oggi negli occhi gli studenti liceali, così affamati di futuro, di chiarezze, di motivazioni ai valori.

Non vi possono essere più dubbi: mai come nel momento storico che stiamo attraversando la scuola pubblica è chiamata ad un’opera coraggiosa e generosa di demistificazione dei “crimini di pace” di basagliana memoria.

Franco Basaglia fu uno psichiatra che rifiutò la “delega del controllo”, della devianza e della sofferenza, che il potere costituito affidava tradizionalmente agli psichiatri ed al loro luogo di culto, il manicomio. Adottando una chiave di critica sociale, tradizionalmente lontana dalla medicina e dalla psichiatria organicista, Basaglia dimostrò che il manicomio si era trasformato in una “istituzione totale”. Una istituzione, cioè, che aveva talmente snaturato la sua ragion d’essere, da ribaltarla nel suo opposto. Istituzione nata per curare, in realtà produceva malattia. Basaglia vinse la sua battaglia. I manicomi furono chiusi per legge.

Forse c’è una vicenda di struttura scientifica per la psichiatria. Perché già Freud e Jung, insieme ad altri, si erano resi conto che per il sapere sulla psiche risultavano insufficienti le conoscenze puramente mediche ed organiciste. In tutta evidenza, l’oggetto d’indagine, la psiche, è un complesso di funzioni che, a differenza di quelle di altri organi, non è del tutto riducibile all’organo che, in prevalenza, la supporta. Per i fondatori della psicoanalisi, il sapere medico aveva bisogno di coniugarsi con le conoscenze filosofiche, sociologiche e delle scienze umane in generale. Freud riconobbe esplicitamente che la sua teoria della duplicità pulsionale, Eros e Thanatos, derivava da Empedocle. Per Jung, basterebbe una sbirciatina al recente Libro Rosso, per percepire i risvolti “filosofico-letterari”, artistici e storico-religiosi della sua concezione della mente umana. Illuminante, per tale linea di riflessioni, il più recente contributo di James Hillman, “Plotino, Ficino e Vico precursori, della psicologia junghiana” (in Jung e la cultura europea, Rivista di Psicologia Analitica, IV, 2, 1973).

Del resto, la designazione di “cura dell’anima” è insita nell’etimo stesso di philo-sophia (philo = amicizia, amore, aver cura). E già Diogene Laerzio, nella Vita di Platone, 45, aveva affermato:

«C’è anche un nostro epigramma che suona così: Se Febo non avesse dato la vita a Platone nell’Ellade come avrebbe potuto curare con le lettere le anime degli uomini? Suo figlio Asclepio è il medico del corpo: dell’anima immortale è Platone.

Ed un altro sulla sua morte: Febo generò agli umani Aslepio e Platone: l’uno per la cura del corpo, l’altro dell’anima».

Tutta quella prima generazione di psicoanalisti concepì la scuola come il comparto della prevenzione psicologica. A. Freud a Londra e S. Spielrein a Mosca fondarono scuole per l’infanzia con una metodologia psicoanalitica.

Guardando a quell’auspicio dalla posizione contemporanea, bisogna considerarlo come un’aspirazione idealizzata.

I processi di insegnamento e apprendimento accadono nella mente o negli alluci dei piedi? Esistono o no differenze nell’organizzazione della mente e della personalità della prima, della seconda, della terza infanzia; della pubertà e dell’adolescenza? L’omogeneizzazione delle professionalità di docenti e dirigenti scolastici, concepita e stimolata a prescindere dalle peculiarità delle diverse fasce di età –maturazione di competenze specifiche con l’oggetto/soggetto del proprio lavoro- con la reversibilità irrelata, acritica e incoerente tra i diversi ordini di scuola, ha rafforzato o depauperato la funzione formativa della scuola pubblica? Il falegname deve conoscere o no la morfologia e la tipologia del materiale con il quale lavora?

Nella concretezza della storia della scuola pubblica soprattutto in Italia, la battaglia, degli anni 60 e 70 del Novecento, sia per la formazione psicologica degli insegnanti sia per la presenza di uno psicologo nell’organico di ogni scuola -come c’è da cinquant’anni nei paesi di lingua anglosassone- è stata totalmente sconfitta. Grazie anche al mix di indifferenza, acquiescenza ed ostracismo delle baronie universitarie (baronie che considerano la scuola solo come terreno da colonizzare; in base al metodo della jungla “forte con i deboli e deboli con i forti” si è arrivati a proporre le 24 ore per i docenti di scuola a salario congelato ma nessuno ha parlato dei docenti universitari che fanno lezione con tre studenti), di alcuni ordini professionali di medici e psicologi, sino a pezzi delle stesse società psicoanalitiche. A conferma, se ce ne fosse bisogno, dell’interesse che i “poteri forti” hanno sempre avuto nel manipolare la scuola pubblica, sin da molto prima dell’Unità d’Italia, per mantenerla in uno stato di minorità.

Un altro grande spirito del Novecento, A. Einstein, aveva visto più realisticamente le relazioni tra poteri forti e scuola. Il 30 luglio 1932, proprio rivolgendosi a Freud sulla questione della guerra, così si esprimeva:

«La sete di potere della classe dominante si oppone in ogni Stato a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico viene sovente alimentato dalla brama di potere di un altro ceto sociale, che mira a conquistare vantaggi materiali, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di persone che, attive in ogni popolo, e inaccessibili a qualsivoglia considerazione o scrupolo sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e nel commercio delle armi, soltanto un’occasione per ottenere vantaggi personali e ampliare l’ambito del proprio potere.

Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha soltanto da soffrire e da perdere? (…) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che questa minoranza di individui al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di dominare e orientare i sentimenti delle masse, rendendoli docili strumenti della propria politica».

Se, per citare un solo esempio, un giornalista liberale illuminato ci ha informato due anni fa, prendendo la notizia dal New York Times, che «i liberi mercati sono in realtà guidati da un vero e proprio comitato d’affari dotato di risorse pressoché illimitate e della potenza politica ed economica che ne deriva» (E. Scalfari, “Nove banche vogliono dividere l’euro in due” in la Repubblica, 19/12/2010), questo è un “crimine di pace”. Del quale, si spera, docenti e studenti della scuola pubblica, prendano coscienza, anziché rimuoverlo.

Una delle funzioni fondamentali della scuola pubblica deve ritornare ad essere quella di educare alla consapevolezza e non alla rimozione, alla negazione e allo scotoma cognitivo.

Se, come dicono Grillo, Monti e Tremonti, “siamo in guerra”, qui non si tratta più solo di debito pubblico e di salvezza degli Stati. Il vero dilemma è tra civiltà o barbarie.

La scuola pubblica dovrebbe dissociarsi con disprezzo da un’Europa che sta affossando la Grecia, fons et origo della nostra civiltà.

La scuola pubblica è nata lì. Nell’Accademia di Platone e nel Liceo di Aristotele.

I popoli dell’America latina, a partire dall’Ecuador, stanno fornendo una lezione di altissimo valore formativo per tutti.