Carne da macello

Carne da macello

di Vincenzo Andraous

Migranti arrivano sopra barconi che stanno a galla per un qualche miracolo aerodinamico, questa volta, come altre volte, con un grave e drammatico tributo di vite umane, nella rincorsa di una libertà che comunque non ci sarà.
Cecità del cuore e ottusità della mente, in troppi sanno tutto, hanno capito tutto, riescono a risolvere tutto in una sola parola, indifferenza.
Migranti, profughi, stranieri d’accatto, una parte di umanità che non merita attenzione, nè possibilità di cambiamento, di trasformazione, unicamente la “necessità” di inseguirne le orme imprigionate alle onde, ai venti, alle stive, che allontanano ogni pietà.
Migranti e letteratura ridotta a poco più di un fumetto, vite usate impropriamente da parolai in bella mostra, ma una cattiva accoglienza costringe a indossare abiti sdruciti, scarpe rotte, ferite insanabili che non consentono incontro né fratellanza, addirittura impongono di non dare alcuna scelta, fosse anche l’ultima, agli ultimi del pianeta: la scelta di morire con dignità, anche la morte è diventata non vedente, non udente, non sempre credibile.
Migranti e mare che ingrossa la fossa comune di superfice, ma non parla di quella al fondo, come a voler fare vergognare quella parte di umanità che non intende guardare per non dovere comprendere e condividere cosa sta accadendo, una mattanza continua, persistente, inarrestabile.
Migranti e informazione che non racconta chiaramente l’indicibile, senza cura e rispetto della verità, quella che non sopporta manipolazioni, giustificazioni, che creano disincanto che deresponsabilizza.
Migranti galleggiano senza più occhi, carne alle ossa, cenci alla deriva, “cose” che non avevano valore prima, ora anche meno, e pure la fatica della raccolta è un lusso, una spesa, per cui la compassione è modellata a contenitore di numeri, di quantità, di materiali avariati da smaltire in fretta, perché altre “cose” stanno per sopraggiungere tra le onde uniche compagne commosse.
Uomini, donne e bambini sono avanzo da non più considerare, tenere a mente nelle carte processuali, anche quelle sono finite a mare, i colpevoli cambiano di posto, s’afferrano agli abiti degli altri, persino le parole non sanno più chiamare con il suo significato quanto sta accadendo: una carneficina.
Dove i barconi arrancano, alle dita strette ai legni è sfuggita la speranza, il miracolo ha chiuso i battenti, non può dare di più, è rimasto senza più fiato né forza per salvare chi soffre e annega.
Il presagio corre di generazione in generazione dove la storia si ripete nelle catene di schiavitù, nei mari inebetiti di violenza, nell’indifferenza che travolge le povertà più feroci e dimenticate.
Stranieri, rifugiati, uomini e donne in fuga, la meta è la vita, il prologo è una continua emergenza, usata furbescamente per saltare un passo avanti, non dare conto di quanto accaduto ieri e accadrà domani, quando altri esseri umani saranno concessi come ostaggi a un problema tutto ancora da risolvere.
Migranti costretti alla diaspora dai tiranni, dalle guerre, dalle intolleranze religiose, dalla paura che non è custode di alcun rispetto, anziani e bambini privati della possibilità di vivere.
Finchè ogni uomo non saprà fare tesoro degli affanni degli innocenti che non hanno scelto le assenze, le scomparse, le morti sopraggiunte, a poco servirà voltarsi da un’altra parte per non farci i conti con questa terribile ingiustizia.

Ecologia della relazione donna-uomo

Ecologia della relazione donna-uomo
L’identità di genere e la cultura delle Pari Opportunità.

di Cinzia Mion

Le nuove Indicazioni per la scuola del primo ciclo e le recenti interessanti “Misure di accompagnamento” mettono a fuoco, tra gli altri argomenti educativi, anche la tematica dell’identità di genere, da affidare ad un intervento precoce,  per cercare di realizzare i presupposti di una relazione futura,  tra uomini e donne,  più armonica e  senza prevaricazioni o sudditanze, di cui le cronache oggi sono tragicamente costellate.

Offro questo contributo per aiutare le scuole in rete ad impostare un eventuale progetto su tale tematica.

 

L’argomento che ci  apprestiamo a trattare non è semplice e soprattutto sembra non avere molte attrattive se succede, come succede, che spesso ci ritroviamo in poche persone a partecipare a degli incontri in cui si dibattono argomenti che toccano queste tematiche.

L’interesse per l’identità di genere appare verso la metà del secolo scorso.

Simone de Beauvoir diceva “Maschi e femmine si nasce, uomini e donne si diventa”.Significa che il passaggio da una posizione all’altra consiste in un processo culturale ed educativo, lungo e a volte anche difficile che accompagna i soggetti dalla nascita in poi.

Gli stereotipi sessisti a quel tempo non solo non erano debellati ma nemmeno scalfiti e connotavano caratteristiche superate ed anacronistiche, il più delle volte all’insegna  ella sopraffazione del maschile sul femminile, sotto l’egida del cosiddetto patriarcato.

A dire il vero però le donne, uscendo di casa per lavorare, riscattandosi da rapporti di sudditanza, avevano già conquistato pian piano, attraverso una nuova autonomia , anche una nuova identità, arricchita di capacità di assumere responsabilità, prendere decisioni, affermarsi nel lavoro, appannaggio un tempo solo degli uomini.

 

Il movimento femminista intanto aveva accelerato la spinta verso l’emancipazione delle donne avendo presente però soprattutto l’ assimilazione alle caratteristiche del maschile in quanto “genere privilegiato”. In altre parole questo movimento  tentava la carta dell’uguaglianza sul piano dei diritti, trascurando le peculiarità che facevano del genere femminile una differente soggettività.

Sulla differente soggettività si concentrò il pensiero della differenza.

 

Il pensiero della differenza

 

La risoluzione epistemologica compiuta dalla filosofia del pensiero della differenza consiste nel leggere lo scarto tra maschi e femmine non come deficit,  come è sempre avvenuto tradizionalmente, bensì come differenza che dà origine a due distinte modalità di pensiero, per tentare di trasformare in risorsa alcuni aspetti fino a quel momento svalutati, perché femminili.

Il pensiero della differenza nasce come critica alla omologazione al maschile del femminismo e come sofferenza per una uguaglianza troppo costosa, che richiede di rinunciare a parti di sé.

Il differenzialismo, così E.Badinter ha definito tale pensiero , si è però insabbiato in una eccessiva, anche se suggestiva,  enfasi intorno ad una visione biodeterministica della essenza della femminilità che deriva dal “poter concepire e nutrire un vivente con il proprio corpo”( L.Irigaray, La democrazia comincia a due, p.132, Bollati Boringhieri)

Da questa affermazione deriva un ritorno al sublime materno, esaltazione finalizzata non a segregare a casa le donne, ma ad esortarle a privilegiare i rapporti tra loro.

La differenza deve diventare un motivo di orgoglio, un privilegio, una spinta ad affermare il proprio protagonismo a fronte di un mondo dominato dal maschile, assunto come neutro, dove questo “ordine dell’uno” è stato costruito su un’amnesia, amnesia che ha fatto cancellare o dimenticare la differenza di genere, nella fattispecie quella femminile.

Il pensiero della differenza si è fortemente contrapposto al concetto di uguaglianza affermato dal femminismo ma attraverso la pedagogia della differenza, vale a dire l’applicazione educativa a scuola di tale pensiero, ha privilegiato l’universo femminile, puntando sulla separazione dei sessi,  teorizzando differenze insuperabili perché ancorate appunto al  determinismo biologico, e auspicando dei rapporti privilegiati tra docenti donne ed allieve, attraverso la pratica chiamata dell’affidamento o dell’affiliazione.

Questa pratica – ora abbastanza abbandonata per ovvi  motivi di sperequazione di trattamento in classe ed anche perché, come vedremo,  il genere maschile ha perso arroganza e pretese –  serviva alle insegnanti ad aprire alle loro allieve le vie della conoscenza e del riconoscimento che si nutre di stima ed affetto.

In questo modo si intendeva legittimare il  desiderio nascosto di protagonismo delle ragazze.

Il differenzialismo si è affermato come pensiero filosofico ma non come pensiero pedagogico perché in questo ambito ha mostrato tratti di radicalismo ed è stato rifiutato dalla scuola. Non era possibile lasciare da parte i maschietti, altrettanto bisognosi di attenzione per privilegiare le femminucce. Ad un certo punto le fautrici di tale posizione si sono rese conto della sua insostenibilità ed hanno cominciato a declinare le loro raccomandazioni anche al maschile ma si sentiva lontano un miglio che questa inclusione era solo un’espressione linguistica usata per parare le critiche ma che il loro pensiero restava intatto, anche perché altrimenti avrebbe perso tutta la sua originalità e fondamento.

Luce Irigaray , la più autorevole esponente di tale movimento, è stata la prima a non essere d’accordo con la trasposizione del pensiero della differenza in una pedagogia così attiva e pedissequa,  raggiunta dalle sue seguaci.

Sia femminismo che differenzialismo sono stati il frutto comunque del paradigma culturale della linearità che obbediva alla logica binaria “o” uguaglianza “o” differenza.

A tentare di fare la sintesi negli anni 80 è apparso nella comunità scientifica il paradigma della complessità. (v. BocchiG.,Ceruti M..,a cura di,  La sfida della complessità, Feltrinelli, 1985).

La complessità,  con la sua dimensione multilogica e multidimensionale, ci ha permesso di coniugare uguaglianza e differenza da cui è scaturito il pensiero delle Pari Opportunità, vera rivoluzione culturale per mettere in moto dei processi dinamici adeguati a migliorare la situazione e la visione del mondo utili a tutti e due i generi.

La differenza va riconosciuta, rispettata come limite, parzialità, per entrambi i generi, perché è questo che garantisce la vera intersoggettività: la relazione paritaria che deve evitare la fusionalità, il possesso e l’esercizio del potere con la riduzione dell’altro ad oggetto.

La violenza sulle donne nasce dalla non accettazione di questa relazione paritaria.

 

Le Pari Opportunità

 

Questo sforzo di coniugazione dovrebbe essere realizzato per dare appunto ad entrambi i generi differenti ma equivalenti opportunità di crescita sia emotiva che affettiva (quindi relazionale) sia di protagonismo, di affermazione e di autonomia, (quindi autorealizzativa).

Senza le correnti di pensiero precedenti non avremmo raggiunto però tale lucida conclusione.

Soltanto dentro alle PPOO potremmo avviare quel processo di cambiamento che garantisca la co-responsabiltà dei generi nel progetto di vita; altrimenti la donna sarà sempre condannata alla doppia presenza, alla frustrazione e alla rabbia represse e l’uomo sfuggirà al suo ruolo di padre rifugiandosi nel lavoro, fuori casa…

La vera rivoluzione delle PPOO non consiste però nel costituire all’interno di ogni organismo un comitato parasindacale di protezione e difesa delle donne nella società e negli ambienti di lavoro; la cultura delle PPOO si realizza attraverso un progetto educativo,  a partire dalla prima infanzia, che riesca a trasformare gli stereotipi sessisti – che impediscono la realizzazione di identità di genere rinnovate – attraverso l’ assunzione di nuovi ruoli sociali, nuove relazioni tra uomini e donne, improntate ad una dimensione ecologica.

Se infatti l’Ecologia è lo studio scientifico della Interazione tra gli organismi e il loro ambiente, nel più largo senso possibile, individuando gli aspetti favorevoli o sfavorevoli all’armonico sviluppo o mantenimento di queste interazioni si può parlare di ecologia della relazione ed anche di ecologia della relazione donna-uomo.

 

La prima agenzia formativa è indubbiamente la famiglia la quale però è contraddistinta dalla conservazione per cui può esserci il rischio che certi stereotipi continuino ad essere trasmessi inconsapevolmente, assunti dall’ambiente culturale di appartenenza, come si assume il latte materno.

Sembra infatti che nell’immaginario genitoriale quando nasce un maschio emerga ancora la domanda :-Chi diventerà? quando nasce una femmina invece:-Chi sposerà? E naturalmente per fare un buon matrimonio e dedicarsi con competenza al lavoro di cura servono una buona relazionalità e la capacità a “mettersi nei panni degli altri”.

Storicamente gli stereotipi sessisti maschili erano grossomodo rappresentati da: logos, razionalità , iniziativa, protagonismo, forza, decisionalità, competitività, machismo, ecc.

Quelli femminile invece da: eros, sentimento, emotività, remissività, dolcezza, tenerezza, accettazione, adattamento, sensibilità, sottomissione, ecc.

Dicevamo all’inizio di questo contributo che le donne hanno cominciato presto a contaminare questi stereotipi tra loro e a legittimare la loro parte maschile del desiderio di autoaffermazione.

In famiglia rimane un problema perché se un tempo i maschi in seno ad essa erano indirizzati all’autorealizzazione e le femmine alla relazionalità, (perché destinate storicamente al lavoro di cura) ed oggi per fortuna per le ragazze giustamente si coniugano le due dimensioni, (semmai i rischi sono annidati in un’altra regressione di cui parleremo più avanti) abbiamo ancora dei dubbi che per i maschi questo avvenga, vale a dire che l’attenzione all’alfabetizzazione emotiva e alla valenza relazionale siano assunte nel progetto educativo.

Questo comporterà che, per quanto attiene il tema dell’identità, quella  femminile risulta forse meno problematica, più solida; semmai il problema appare nella gestione della doppia presenza del lavoro in casa e fuori casa, quindi nella difficoltà dell’esistenza quotidiana.

In ogni caso le identità nuove”riconciliate” come vengono definite da E.Badinter devono continuamente intraprendere percorsi difficili ed irti di trabocchetti.

Per gli uomini appare la sfida di assumere una particolare riflessività, perché superato il machismo,  sappiano intraprendere una strada nuova, accettando la loro parte femminile e tenera, senza perdere autorevolezza per costruire un orientamento per le giovani generazioni di preadolescenti ed adolescenti che guardano ai giovani maschi come modello per capire e trovare una risposta alla domanda cruciale “sono un vero maschio?”

Vedremo che la via per una nuova virilità passerà attraverso la nuova paternità.

 

Pari opportunità a scuola

 

Negli anni 90 , e precisamente nel 1989, fu nominato un Comitato Pari Opportunità uomo-donna da parte del Ministero della Pubblica Istruzione che incardinò questo comitato presso l’Ufficio Studi e Programmazione. Il gruppo era formato da rappresentanti delle associazioni professionali della scuola, tra cui l’A.N.DI.S (Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici) e dai vari sindacati che l’avevano previsto nel contratto.

La specificità di tale comitato fu subito quella di approfondire il tema delle identità di genere, prendendo in considerazione il fatto che la scuola offre la situazione privilegiata della coeducazione di entrambi i generi,  per fare proposte che aiutassero i docenti ad autopercepirsi se fossero loro stessi portatori di stereotipi sessisti,  per evitare di trasmetterli,  ed invece avviare la nascita di identità nuove attraverso un lavoro di analisi e riflessività puntuale e precisa.

Il comitato , di cui chi scrive ha fatto parte come rappresentante dell’ A.N.DI.S,  aveva quindi finalità formative a partire dall’età dei tre anni della scuola dell’infanzia.

Furono varate circolari ministeriali su suggerimento e tracce del comitato, seguite da progetti, convegni e seminari; fu sollecitata dal Ministero la creazione a livello dei vari Provveditorati agli studi di altrettanti comitati provinciali di PPOO.

Il problema però fu ancora una volta un’ambiguità di fondo: quando i presidi ricevevano il materiale e leggevano PPOO, spesso molti di loro rapportavano il tutto ad attività parasindacale di protezione delle donne lavoratrici nella scuola e, asserendo che la scuola era anche troppo in mano alle donne, metaforicamente cestinavano il tutto…

Significava che chi riceveva la circolare non andava oltre l’intestazione.

La difficoltà però non è stata solo questa: nonostante la scuola sia in mano alle donne scopriamo che è una Istituzione ancora troppo maschilista. Ci accorgiamo che spesso i colleghi, ma anche alcune colleghe, considerano le proposte del comitato delle “bagattelle” con cui alcune donne amano trastullarsi.

Nel 1999 il nuovo contratto cambia il profilo del comitato : questo diventa infatti un organismo “paritetico” con quattro  membri nominati dai sindacati e quattro nominati dal Ministero. Non abbiamo mai capito il senso di questa svolta mortifera. Le nomine furono modi per avere degli incarichi… La passione e la ricerca che avevano animato il comitato precedente svanì nel giro di qualche mese e alla fine, nel 2000, non venne più riconvocato. Chissà se i sindacati hanno mai analizzato questo flop per provare a capirne le ragioni…

 

Identità maschile

 

Negli ultimi decenni le considerazioni attuali sul disagio maschile sono state avvalorate da alcune ricerche di moderna embriologia che hanno scoperto che tutti i mammiferi, compreso l’essere umano, hanno una intrinseca tendenza allo sviluppo in senso femminile. In altri termini la femminilità è il programma di base ed occorre fare qualcosa in più affinché la maschilità prenda forma.

All’inizio del concepimento l’embrione maschile “lotta” per non essere femminile : il ruolo della Y è deviare la tendenza spontanea della gonade embrionale indifferenziata ad organizzare una ovaia, costringendola invece a produrre un testicolo, la cui funzione specializzata sarà produrre l’ormone testosterone (A.Jost Le dévelopment  sex. prenatal).

Sarà il bombardamento di testosterone a costituire la svolta verso la maschilità. Anche durante i primi mesi di vita postnatale il bambino, indipendentemente dal sesso biologico, è imbevuto di femminilità: tutta la gestalt materna penetra in lui. Nato da una donna, cullato da un grembo femminile, il bambino, contrariamente alla bambina, è condannato alla differenziazione per gran parte della sua vita.

Da quando sono state messe in luce le difficoltà dell’identità maschile non si può più sostenere che l’uomo sia il sesso forte; anzi gli si riconoscono molte fragilità fisiche  e psichiche .

Oggi il disagio maschile viene anche  accresciuto dalla consapevolezza della donna dei suoi diritti, tra cui la propria realizzazione e il proprio protagonismo. L’uomo sente che la difesa nello stereotipo sessista non regge più, sta allora cercando la propria identità in una  differenza più autentica. Lo attestano le ricerche che stanno fiorendo ma anche i fermenti che contraddistinguono la vita quotidiana e i messaggi che corrono nel web, anche se impregnati ancora di molta ambivalenza. Notevole il contributo dei gruppi maschileplurale che stanno sorgendo, all’inizio per contrastare la violenza sulle donne da parte di altri uomini, ed ora attenti anche al problema dell’identità maschile “riconciliata” , come suggerisce Elisabeth  Badinter nel suo bel libro datato, ma ancora valido, “ XYL’identità maschile “.

 

Nuovi padri

 

Le stesse difficoltà ed incertezze che sembrano contraddistinguere l’assunzione del ruolo virile sembrano connotare anche l’assunzione del ruolo paterno..

Oggi infatti, accanto ad un comportamento paterno che si defila ulteriormente dalla scena familiare e dal rapporto con i figli, delegando completamente quest’ultimo alla madre, sta emergendo sempre più, soprattutto da parte dei padri giovani, un forte bisogno di dare un senso nuovo alla paternità.

Il padre, dalla prima rivoluzione industriale, ha progressivamente perduto la principale funzione esercitata in precedenza all’interno della famiglia patriarcale, quella di socializzare i figli al lavoro. Da allora egli si trova nell’impossibilità di mostrare ai figli la propria attività lavorativa e conseguentemente di farli partecipare ad essa.

Il lavoro paterno, l’attività che più di ogni altra occupa la ragione e la passione degli uomini,  è diventato estraneo ed invisibile agli occhi del figli.

C’è però anche chi cerca soddisfazione al proprio bisogno di paternità, occupandosi del primo accudimento e della prima educazione dei propri figli.

Un padre così, che non ha avuto un modello paterno da cui apprendere – perché spesso figlio di un “padre assente” – senza aver avuto modo di maturare conoscenze ed esperienze, si trasforma in quello che in modo un po’ dispregiativo chiamano “mammo”.

Sa benissimo accudire il proprio cucciolo e questo gli permette di mettersi in contatto con la propria parte tenera e di legittimarla ed è il motivo per cui si afferma che la nuova paternità è la via per la nuova virilità e viceversa.

Il nuovo padre però spesso è in grado di prendersi cura ma non ancora di fare da guida sicura attraverso la  reciproca fiducia, di adeguata protezione (non di iperprotezione) e approvazione ma anche dis-approvazione (che non deve però mai diventare s-valutazione) nei confronti dei piccoli.  In altre parole l’approccio alle regole e la gestione dei “no” devono avvenire  in modo amorevole ma anche autorevole, senza aver paura di entrare in conflitto con dei bambini di due anni.

Forse è anche per questo che si parla di emergenza educativa.

A questo proposito nel corso degli anni  la Comunità Europea ha emanato delle raccomandazioni con cui si auspicava “di promuovere ed incoraggiare, nel rispetto e nell’autonomia degli individui, una maggiore partecipazione degli uomini nella cura e nell’educazione dei bambini al fine di assicurare una più equa condivisione delle responsabilità parentali tra uomini e donne”

 

Conclusioni

La strada per agevolare questo cambiamento non può che essere quello delle decisioni politiche. Intanto si deve capire che per costruire un’identità forte e coesa servono due processi come dice Erikson :quello dell’identificazione con il rappresentante dello steso sesso e quello della differenziazione con il genitore del sesso opposto, processi che valgono anche per le figure significative come i docenti.

Se manca la differenziazione abbiamo solo l’identificazione e quindi il rischio della mancanza di autonomia, il rischio della “clonazione”, della formazione speculare.

Ecco perché è importante che per le giovani generazioni si rendano appetibili anche ai maschi la professione docente e quella dei servizi nell’infanzia, naturalmente con adeguata formazione per tutti, perché bisogna sfatare l’idea che una donna è già per metà insegnante.

Bisogna inoltre sfatare l’idea che una donna, consapevole dei danni che può fare il mammismo italiano, sia in grado a sua volta di gestire in modo diverso il rapporto con l’eventuale figlio maschio. Qui però si apre  un fronte che non è il caso di affrontare per ragione di spazio.

Altri provvedimenti : la revisione dei tempi e degli orari delle città –  ma  questo sta già un po’accadendo -, una maggiore informazione ed attivazione di programmi formativi per le PPOO, avendo cura che non vengano fraintesi; una maggiore attenzione ai programmi televisivi oppure una maggiore competenza dei docenti ad analizzare criticamente, insieme ai ragazzi, i modelli che la TV impone, diffondendoli senza filtri di nessun genere.

Alla fine, perché no? Che venga reintrodotto un nuovo Comitato PPOO, con le medesime finalità,  che però venga implementato e sostenuto di più da tutte le Istituzioni deputate ad aver a cuore una ecologica relazione interpersonale tra gli uomini e le donne, presupposto essenziale per il benessere della cittadinanza.

 

Forse attraverso la “rinuncia”- che riguarda l’avere – diversa dalla “perdita” che riguarda l’essere – sostenendoci reciprocamente insieme, donne e uomini, potremmo non solo incarnare una decrescita auspicabile, felice o serena come si preferisce, ma anche costituire contemporaneamente la svolta per cominciare a porre le basi di “un’etica pubblica”, di cui il Paese ha un disperato bisogno.

Solo infatti attraverso le rinunce di tutti si può pensare di costruire un vero “bene comune” – che non può essere la somma dei beni individuali – e ritrovare alla radice il sapore di quei valori essenziali di relazione interpersonale autentica che le derive del consumismo, del conformismo e dell’indifferenza,  ascrivibili al neoliberismo, hanno spazzato via.

 

Classi “pollaio”: nel ragusano 80 alunni in 2 classi: tra questi, 8 disabili

Classi “pollaio”: nel ragusano 80 alunni in 2 classi: tra questi, 8 disabili

L’Anief denuncia il caso di un istituto alberghiero, in cui due classi di trovano in queste condizioni. “Effetti nefasti delle norme approvate in Italia negli ultimi anni che hanno progressivamente innalzato il rapporto alunni-docenti”

da Il Redattore Sociale
04 ottobre 2013

ROMA – 80 alunni divisi in due sole classi: per di più, otto sono disabili. Accade nel ragusano, presso l’Istituto alberghiero “Marconi” di Vittoria, ma non si tratta di un caso isolato: la denuncia arriva dall’Anief  (Associazione nazionale insegnanti e formatori), che fa notare come sia “superato ampiamente il già elevato ‘tetto’ di 33 iscrizioni indicato dal Miur per gli istituti superiori, che scende a 20-25 in presenza di alunni disabili”. All’origine del problema sono, secondo l’associazione, “i tagli e le norme pro-risparmio approvate negli ultimi anni, ma anche il Miur che non permette di sdoppiare le classi ad anno scolastico avviato. A spese della sicurezza, del diritto allo studio e del sostegno ai disabili”. Così, a quasi un mese dall’avvio del nuovo anno scolastico, “continuano a giungere conferme sull’abitudine di alcune amministrazioni scolastiche a concentrare un alto numero di alunni in un solo gruppo-classe”.

Il caso dell’alberghiero “Marconi” è però clamoroso, anche perché, nelle due classi “pollaio” in questione, sono iscritti anche 8 alunni con disabilità. “Una presenza che impone – ricorda l’Anief – di limitare il numero complessivo di iscritti per classe a 20 alunni (in presenza di alunni disabili gravi) o al massimo 25 (qualora le disabilità non fossero gravi). E non può bastare come giustificazione – precisa l’Anief – quanto dichiara il dirigente dell’istituto, come riportato da Orizzonte Scuola, secondo cui degli 80 alunni iscritti ‘molti non frequentano con assiduità’: cosa accadrà il giorno o i giorni in cui tutti i 40 iscritti per classe saranno presenti contemporaneamente?”.

“Mentre il Governo si pavoneggia con l’approvazione di un decreto sulla scuola molto di facciata – commenta Anief – dal Miur continua a prevalere la politica del risparmio ad oltranza: non possiamo che tornare a dire che si tratta di una vergogna nazionale derivante dal fatto che negli ultimi cinque anni lo Stato ha tagliato 200mila posti tra docenti e Ata, tenuto ai margini 150mila precari abilitati vincitori di concorso e cancellato quasi 2mila scuole. Con il risultato che quelli che erano nati, durante la gestione Gelmini, come limiti numerici da adottare in casi eccezionali, sono diventati la norma: nella scuola d’infanzia si è passati da 28 a 29 alunni, alla primaria da 25 a 28 ed alle superiori si sono concesse deroghe fino alla presenza di 33 alunni per classe”. Anief ricorda che prima della fine dell’estate la Commussione Cultura della Camera ha approvato lo schema di risoluzione del sovraffollamento delle classi, presentato da Fabrizio Bocchino (M5S), che prevede che in aula non possano essere presenti più di 26 persone, compresi gli insegnanti e che, in presenza di alunni disabili, “il numero complessivo dovrebbe essere al massimo di 20, in modo da facilitare i processi di integrazione e d’inclusività”.

L’autovalutazione d’istituto: quanta confusione!

L’autovalutazione d’istituto: quanta confusione!

di Enrico Maranzana

L’autovalutazione di istituto è un adempimento il cui contenuto è variegato.

In molte scuole il suo significato coincide con customer satisfaction, appagamento soppesato con l’utilizzo di questionari compilati dai soggetti che interagiscono col servizio scolastico.

Un errore da matita blu

Negli scaffali delle librerie sono apparse molte pubblicazioni per orientare le scuole alla messa a punto di procedure che rispondono alle recenti richieste ministeriali in materia di valutazione.

A titolo esemplificativo si consideri “L’autovalutazione di istituto” edito da Guerini e associati il cui sviluppo evoca quanto avvenne nel 1962 alla sonda Mariner 1: la missione spaziale fallì nonostante le sofisticatissime apparecchiature di cui era dotata; aveva perso l’orientamento. Nel libro i fini sono stati sostituiti dai mezzi: la legge, che finalizza l’istituzione scuola alla promozione delle capacità dei giovani ATTRAVERSO le conoscenze, è elusa.

                                                           La linea blu è tracciata due volte

Il D.P.R. 28 marzo 2013, n. 80 caratterizza il processo di autovalutazione enunciando le fasi del suo sviluppo. All’Invalsi è demandato l’onere di definire gli indicatori di efficacia e d’efficienza e di predisporre un quadro di riferimento che le scuole utilizzeranno per vagliare la propria azione.

Esso costituirà  il  riferimento primario, il faro sia del servizio scolastico, sia per la  formulazione di un piano di miglioramento.

Un sovvertimento irrazionale dell’organigramma, una delega in bianco: un organo di staff/di consulenza è interposto tra il Miur e le scuole, sovraordinandolo a queste.

Tre sottolineature blu

Eppure la sola lettura della titolazione dell’art. 2 della legge 53/2003 sarebbe stata risolutiva e avrebbe eretto un argine ai grossolani errori commessi: l’idea “Scuola” è stata superata e sostituta dal concetto “Sistema educativo di istruzione e di formazione”.

La visione sistemica restituisce nitido il significato di autovalutazione facendolo coincidere con feed-back, con autoregolazione, con retroazione, con controllo.

Il controllo è strumento essenziale per il governo della scuola. Esso è da esercitare non solo sullo stato terminale dei processi scolastici ma è da costituisce su tutti i nodi decisionali per

  • valutare la fattibilità dei progetti                    (controllo antecedente)
  • seguirne l’evoluzione, monitorandoli          (controllo concomitante)
  • soppesarne l’efficacia                                    (controllo susseguente)
  • osservare l’effetto nel lungo periodo           (controllo dell’evoluzione)

Per l’esercizio del controllo è necessario

  • disporre di un’appropriata struttura organizzativa [CFR in rete “Coraggio! Organizziamo le Scuole”; “Quale formazione per il dirigente scolastico?”];
  • assegnare a ogni organo decisionale uno specifico mandato espresso sotto forma di risultato atteso  [Il primo raffinamento è visibile in rete “La scuola rivedrà le stelle?”];
  • mettere a punto un sistema di comunicazione non ambiguo: i termini utilizzati devono avere univoco significato   [CFR in rete “Non dimentichi d’esser donna di scienza”].

Il rispetto della volontà espressa del legislatore che ha valorizzato l’unitarietà e l’interdipendenza dei processi scolastici restituisce al lavoro dei docenti la dignità perduta e fa riconquistare alla scuola il prestigio di cui godeva nel secolo scorso.

Una riqualificazione che nasce dai seguenti germi di cambiamento:

  • la mission del sistema educativo diverge sostanzialmente dalla mission universitaria [Il DPR sul regolamento del sistema nazionale di valutazione continua a considerare la scuola satellite dell’università, non avendo colto questa profonda difformità];
  • l’autonomia delle istituzioni scolastiche che “si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana” trova nel nuovo contesto un favorevole terreno di sviluppo;
  • la complessità e la variabilità del compito assegnato agli istituti scolastici è stata riconosciuta: l’attività docente si caratterizza per la progettualità, per la collegialità, per la ricerca e per la sperimentazione;
  • il dirigente scolastico non è  più visto come un tuttologo: i suoi compiti afferiscono principalmente all’unità dell’istituzione e al mandato conferito agli organismi collegiali e ai docenti di cui deve garantire il rispetto;
  • l’assegnazione di specifiche problematiche da affrontare e da risolvere agli organi della scuola elimina l’indeterminatezza che ha sterilizzato la partecipazione: l’origine e il senso delle decisioni/azioni sono espliciti.
  • l’indebita intromissione dell’Invalsi nella fase di determinazione dei traguardi formativi, educativi e dell’istruzione è respinta: la relativa elaborazione avviene nel solco Miur-scuola.

L’attività dell’istituto di valutazione riguarderà esclusivamente il controllo susseguente che avrà come unico riferimento i POF degli istituti. In particolare i test nazionali saranno modulati per accertare l’intensità delle competenze generali e delle competenze specifiche che le scuole hanno dichiarato nel documento di programmazione e che hanno indotto con la loro azione.

G. Allulli, F. Farinelli, A. Petrolino, L’autovalutazione di istituto

autovalutazione_di_istitutoGiorgio Allulli, Fiorella Farinelli, Antonino Petrolino, L’autovalutazione di istituto, modelli e strumenti operativi, con moduli e questionari disponibili online, pagg. 208, Guerini e Associati, Roma, 2013

di Maurizio Tiriticco

Com’è noto, sulla questione della valutazione del sistema di istruzione e dell’autovalutazione di istituto il dibattito e, per certi versi, un notevole gradiente di preoccupazione sono molto vivaci. Soprattutto per una carenza di informazioni al riguardo. Da un lato vi è il linguaggio di un regolamento (dpr 80/2013), ovviamente sempre anodino e iussivo, come in genere sono le disposizioni normative; dall’altro vi sono insegnanti che, in larga misura, difettano di quelle informazioni che solo una diffusa cultura della valutazione dovrebbe garantire. Pertanto, sono molti gli insegnanti che incontrano “difficoltà di lettura” in materia di valutazione di sistema, preoccupati, inoltre, dall’incalzare di quelle prove Invalsi che sembrano più gettare nello sconcerto che garantire un sostegno alla valutazione degli apprendimenti.

In una situazione così complessa e controversa un intervento autorevole sulla valutazione dopo anni di silenzio – almeno per quanto mi risulta – è assolutamente bene accetto. Una tematica su cui si scontrano solo preoccupazioni e interventi polemici necessitava di una voce che proponesse una riflessione seria sulla base di argomentazioni scientificamente fondate e – cosa forse più importante – presentasse una serie di buone pratiche di cui prendere atto e su cui riflettere.

A monte di tutto, e quindi anche a monte della stessa valutazione di sistema, c’è, a mio avviso, il sistema in quanto tale. Mi spiego meglio. Con l’avvio del difficile processo dell’autonomia che, com’è noto, non ha riguardato e non riguarda solo la scuola, ma l’intero apparato istituzionale e amministrativo dello Stato (legge 59/97), e con il novellato Titolo V della Costituzione, si è avviata una vera e propria rivoluzione in materia di istruzione e della sua organizzazione. E non so quanto l’enunciato di “Sistema educativo di istruzione e di formazione”, di cui all’articolo 2 della legge delega 53/03, sia diventato materia viva di un nuovo modo di “fare scuola”. In tale contesto, non so neanche quanto lo stesso riordino del Ministero dell’Istruzione, avviato con la legge 300/99, abbia provocato significativi cambiamenti negli assetti organizzativi delle istituzioni scolastiche, nei concreti “comportamenti insegnanti” e nella stessa quotidiana conduzione delle classi. Valga questa semplice riflessione, avanzata dai nostri autori: “Quanto alla scarsa familiarità degli studenti italiani con le prove somministrate in forma di test, era anch’essa un elemento su cui riflettere in quanto segnale di un’altra tipicità non proprio positiva e certamente non immodificabile del nostri sistema scolastico, cioè la sostanziale assenza di un quadro preciso di standard condivisi di riferimento” (p. 23). E’ quindi in un contesto organizzativo così incerto che – almeno a mio vedere – il solo parlare di valutazione di sistema e di autovalutazione di istituto non può non creare – a parte alcune isole felici – una serie di perplessità.

In tale scenario così precario, la necessità di fare un punto fermo su di una materia così complessa, sulla quale vi sono molte incertezze, si avvertiva da tempo! E ringrazio gli autori di essere intervenuti con un testo che, lungi da qualunque “prosopopea dottrinale” – che in una materia così complessa per certi versi sarebbe anche giustificata – vuole semplicemente proporre spunti di riflessione sulla necessità di una valutazione “altra”, quella di sistema e quella di istituto, sulla quale per chi da sempre è abituato alla sola valutazione degli apprendimenti, costituisce un territorio assolutamente nuovo su cui l’informazione, anche da parte della stessa Amministrazione centrale, è di fatto carente! In effetti, è difficile che si inducano e si rafforzino comportamenti nuovi solo a colpi di decreti!

I tre autori sono “uomini di scuola” in senso lato. Vengono da esperienze diverse di formazione e di organizzazione di processi formativi e hanno conoscenze e competenze che vanno dai sistemi scolastici europei all’educazione degli adulti e alla formazione professionale: esperienze dalle quali forse la nostra scuola, a volte troppo avvitata su se stessa, avrebbe qualcosa da imparare! La loro ricerca e i loro suggerimenti non nascono tanto da riflessioni teoriche quanto da esperienze pratiche che rappresentano e raccontano con dovizia di particolari e grande semplicità espositiva. Il loro intento non è quello di “difendere” quella valutazione di sistema, su cui ci sono tante incertezze e non-conoscenze, quanto di raccontare che cosa concretamente si fa in tale materia sia in sistemi scolastici stranieri che in esperienze del nostro Paese.

Non mancano nel volume rapidi ma significativi accenni alle rilevazioni internazionali (Pisa, Pirls, Timms) e a quanto si è venuto realizzando nel nostro Paese con il “Progetto Qualità: ricerca e innovazione nella scuola”, che ha coinvolto il nostro Ministero e la Confindustria, con l’esperienza ormai più che decennale del Comitato di valutazione della Provincia autonoma di Trento, e con altre significative iniziative (il Marchio Piemontese Saperi, il Progetto Faro in Sicilia, il Progetto Caf del Formez, realizzato nel Veneto e in altre Regioni). Per non dire delle iniziative della Peer Rewew (che nulla ha a che vedere con la Peer Education), promosse e condotte dall’Isfol, e delle certificazioni Iso che interessano numerosi istituti tecnici e professionali.

Particolarmente interessante è la parte centrale del volume, che contiene una serie di indicazioni operative: le dieci regole da seguire per assicurare la qualità della scuola (capitolo 5) e i quattro passi utili per adottare una metodologia di autovalutazione della scuola (capitolo 7). Si tratta di indicazioni operative che non sconvolgono l’abituale lavoro a cui le istituzioni scolastiche sono ormai abituate almeno dal varo del dpr 275/99. In effetti è lo stesso POF che, in quanto documento di pianificazione strategica, implica il concetto di autovalutazione (capitolo 6).

Il volume offre una serie di suggerimenti operativi che, ovviamente, rinviano a quadri teorici di riferimento, ma questi ultimi non la fanno mai da padroni! L’esperienza che i tre autori hanno sul campo è tale che la loro “lezione” – se così si può dire – non ha mai nulla di astratto. Gli autori, infatti, sono convinti che c’è una reale possibilità per la nostra scuola “di cancellare una volta per tutte, l’immagine coltivata da più parti e impropriamente enfatizzata in ambito mediatico, di un sistema educativo sostanzialmente chiuso e autoreferenziale, di un corpo professionale pregiudizialmente ostile a ogni forma di rendicontabilità sociale, di un lavoro docente così impalpabile da essere percepito e talora, chissà perché, perfino rivendicato come sostanzialmente insindacabile. Un’immagine che non ha giovato alla credibilità e all’affidabilità della scuola, e che ha anzi già prodotto numerosi e concretissimi danni” (p. 10-11).

Si tratta di considerazioni che rappresentano, purtroppo, atteggiamenti e stati d’animo che non sono nati sponte sua nel personale scolastico, ma sono stati indotti da interventi normativi discutibili – l’osservazione è mia, ovviamente – che lo hanno afflitto e avvilito. E ciò si è verificato proprio in un periodo in cui il Sistema di istruzione necessitava, invece, di una svolta decisiva verso una sua riqualificazione, proprio per garantire a ciascun cttadino quel “successo formativo” di cui al dpr 275/99, articolo 1.

La valutazione di sistema è necessaria e imprescindibile, come altrettanto lo è l’autovalutazione delle “istituzioni scolastiche autonome” proprio perché sono autonome e responsabili nei confronti dell’utenza e delle istituzioni del territorio in cui operano. E sono attività che si avvieranno solo se i concreti comportamenti normativi e finanziari da parte della politica e dell’amministrazione verso l’istruzione e i suoi addetti cambieranno radicalmente in positivo.

Pertanto, in un ottimistico scenario di cambiamento il contributo del volume non solo sarà necessario ma, a mio vedere, assolutamente insostituibile!

5 OTTOBRE, GIORNATA MONDIALE INSEGNANTE: A FIRENZE CONVEGNO SU SCUOLA E LAVORO

5 OTTOBRE, GIORNATA MONDIALE INSEGNANTE: A FIRENZE CONVEGNO GILDA SU SCUOLA E LAVORO
Riflettori puntati sul rapporto tra scuola e lavoro nel convegno “Il sistema dell´istruzione e della formazione tra pensiero critico e mercato del lavoro” con cui domani a Firenze (Auditorium al Duomo, via de’ Cerretani 54/R ore 10-13) la Gilda degli Insegnanti celebrerà la Giornata Mondiale dell’Insegnante istituita dall’Unesco nel 1994.
“La grande crisi economica che molti Paesi stanno attraversando, assai accentuata in Italia dove la disoccupazione giovanile conosce dati a due cifre, – spiegano il Centro Studi Nazionale del sindacato e l’associazione Docenti art. 33 – impone di rivisitare il rapporto tra scuola e lavoro e di approfondire la discussione sulle prospettive occupazionali che il sistema dell’istruzione italiano offre agli studenti”.
Previsti gli interventi di Renza Bertuzzi, direttrice del mensile della Gilda degli Insegnanti “Professione docente”, Gianluigi Dotti, responsabile del Centro Studi Nazionale della Gilda degli Insegnanti, Fabrizio Reberschegg, presidente dell’associazione Docenti art. 33, e Valerio Vignoli, Gruppo di Firenze e dirigente scolastico. Concluderà Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti.

Concorso a cattedra

Concorso a cattedra: Anief ricorre per assicurare il ruolo agli attuali 5.048 vincitori e ai futuri 3.239.

Sono 11.542 i posti da bando di concorso che dovevano essere assegnati a tutti i vincitori proclamati in quanto collocati in posizioni utile nelle graduatorie di merito e che danno diritto a un contratto a tempo indeterminato, rispetto ai 3.255 assegnati. Il ricorso va presentato dagli 8.257 vincitori non assunti al giudice del lavoro per ottenere anche gli eventuali risarcimenti danni legati alla mancata assunzione. Scrivi a tutti.inruolo@anief.net per ricevere le istruzioni operative. Sono già 5.048 i vincitori rimasti a casa.

Il ricorso al giudice del lavoro può essere promosso da tutti i vincitori individuati con specifico decreto o all’interno del decreto di pubblicazione delle graduatorie di merito nel caso sia chiaramente espresso nelle premesse che è proclamato vincitore chi si ritrova in posizione utile, fermo restando l’accertamento dei titoli dichiarati. In assenza di tale dichiarazione o del relativo decreto, bisogna preliminarmente diffidare l’U.S.R. dal non proclamare o dal non individuare i vincitori e ricorrere al TAR regionale per accertare il diritto a essere considerato vincitore prima di ricorrere al giudice del lavoro per ottenere la costituzione del rapporto di lavoro.

Scuola, scioperi e cortei gli studenti tornano in piazza

da Repubblica.it

Scuola, scioperi e cortei gli studenti tornano in piazza

Manifestazione da Piramide alle 9 fino alla stazione Termini. “Inizia l’autunno caldo dei liceali”, che protestano contro disagi, strutture poco idonee, classi sovraffollate e scarso numero di docenti

L’aria di crisi fra i banchi di scuola non è mai passata e con l’arrivo dell’autunno il mondo degli studenti, precari, docenti e universitari si prepara ad una nuova stagione di lotte. Sul piede di guerra soprattutto i licei della capitale che hanno imparato a convivere con disagi, strutture scolastiche non idonee, classi sovraffollate e pochi docenti.
Anche quest’anno, il 4 ottobre diventa, come in diverse piazze italiane, giornata di protesta studentesca. Nella capitale i ragazzi dell’assemblea cittadina, tra striscioni, lanci di vernice e azioni dimostrative, oggi danno vita ad un corteo che partirà dalla stazione della metropolitana Piramide alle 9, attraverserà viale Aventino, via di San Gregorio fino al Colosseo, via Cavour e si concluderà a stazione Termini intorno alle 12.30. Sollecitati dalla volontà della ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, di pubblicizzare un dibattito collettivo sulla scuola pubblica, i ragazzi dei licei romani minacciano un “autunno movimentato”. “Il governo Letta non ha dimostrato alcuna intenzione di intervenire seriamente per tutelare il diritto allo studio  –  spiega Lucio Luzzatto dell’assemblea cittadina studenti medi  –  dietro una serie di annunci propaganda, permangono docenti precari, scuole pericolanti e libri di testo insostenibili; non esitiamo a cogliere l’invito della ministra e ci prepariamo ad un autunno all’insegna della lotta, scendendo in piazza per gridare il nostro dissenso, per rivendicare il ruolo che ci negano”.
Ma  le proteste proseguiranno anche nel corso della serata. Nel pomeriggio, infatti, dalla fermata Garbatella della metropolitana, un minicorteo di insegnanti e genitori del coordinamento delle scuole di Roma partirà alla volta della sede della Regione Lazio, sulla Cristoforo Colombo, per sollecitare l’assessorato alla Scuola e all’Università. L’obiettivo è richiedere “l’annullamento dei tagli degli organici, previsti nell’anno 20112012”. In attesa dell’udienza al Tar, che si terrà il prossimo 21 novembre sul ricorso presentato da 5mila genitori e insegnanti di tutto il Paese, la richiesta del coordinamento prevede che venga ridiscusso l’accorpamento delle classi, il taglio delle materie, delle ore e del tempo pieno. Una giornata in cui i genitori e docenti delle scuole di Roma intendono richiamare la Regione, che è l’ente preposto alla gestione dell’organico sul proprio territorio, ad un ruolo più attivo e di maggiore intervento soprattutto rispetto ad una ridefinizione del dimensionamento scolastico.
Le manifestazioni proseguiranno anche nelle prossime settimane e culmineranno il 18 ottobre con lo sciopero generale di insegnati e studenti indetto dai sindacati.

Le nostre scuole? Poco “internazionali” Italia in ritardo negli scambi con l’estero

da LaStampa.it

Le nostre scuole? Poco “internazionali” Italia in ritardo negli scambi con l’estero

 Il 33% degli studenti che partono scelgono destinazioni in Europa, il 24% Usa e Canada e il 23% l’America Latina
Diffuso il rapporto sulla mobilità studentesca: solo il 53% degli istituti aderisce a progetti interculturali. Gli studenti: «Colpa dei docenti: non conoscono abbastanza le lingue»

“A me ha cambiato la vita: ho scoperto la voglia e il piacere di indagare su quello che mi sta attorno, abbandonando i pregiudizi e trovando un punto di vista diverso per leggere e capire il mondo””. Parola di Jacopo Manidi, 18 anni, studente del quinto anno del Liceo linguistico “Manzoni” di Milano, da poco tornato da un anno di studio in Cina ospite in una famiglia di Shangai. Uno dei 1500 ragazzi che ogni anno usufruiscono degli scambi scolastici proposti da “Intercultura”. E proprio la “Fondazione Intercultura” oggi a Torino ha presentato il V rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca, basato su un sondaggio Ipsos che ha coinvolto 2275 studenti di Francia, Germania, Polonia, Spagna, Svezia e i cui dati sono stati confrontati con quelli degli oltre 800 coetanei italiani intervistati lo scorso anni sugli stessi temi.

La prima fotografia tratteggiata dalla ricerca è quanto mai desolante: solo il 53% delle scuole italiane aderisce a progetti internazionali, a fronte di numeri ben più significati nelle altre nazioni analizzate: 97% Germania, 89% Spagna, 88% Polonia, 81% Francia e 79% Svezia. Per chi volesse vedere il bicchiere mezzo pieno c’è però un dato importante: le singole scuole italiane, dopo le tedesche, sono quelle che se scelgono di partecipare ai programmi e riescono a coinvolgere il maggior numero di alunni. Il 57% degli studenti italiani attribuisce un voto tra 7 e 10 alla qualità dell’insegnamento della nostra scuola, percentuale che cresce in maniera significativa in Francia (67%), Polonia (66%), Spagna (67%), Svezia (70%). Mentre la colpa per la scarsa attitudine alla partecipazione a progetti di apertura verso l’estero viene attribuita alla mediocre conoscenza delle lingue da parte dei docenti italiani (solo il 32% viene giudicato adeguatamente preparato), un dato che si scontra con la migliore preparazione dei colleghi europei giudicata con voto da 7 a 10 dal 54% degli svedesi, dal 51% dei tedeschi, dal 53% dei polacchi e dal 55% degli spagnoli.

“Io faccio un liceo linguistico, e quindi la mia scuola dovrebbe essere più sensibile a queste tematiche – spiega Jacopo – quando ho scelto di fare un’esperienza all’estero mi sono informato da solo: manca l’informazione su quelle che sono le tante opportunità. Quando sono tornato dalla mia esperienza molti miei amici mi hanno confessato che se avessero saputo l’avrebbero fatta anche loro: bisogna fare molta più cultura dello scambio e dell’incontro. Anche nei confronti delle famiglie, che troppo spesso sono restie ad incentivare i figli a partire per diversi mesi”.

Il 68% degli studenti italiani dice infatti di sapere poco o nulla dei programmi di mobilità individuale. Peggio di noi solo i polacchi (69%), mentre le percentuali sono meno critiche negli altri quattro Paesi (58% Francia, 46% Spagna, 43% Svezia, 41% Germania). Attitudine comune che lega tutti gli studenti è la scelta del Paese dove vorrebbero trascorrere un anno, con una forte predominanza per le destinazioni anglofone. Gli italiani sono gli unici in controtendenza, mostrando il desiderio di aprire gli orizzonti: sono sempre di più quelli che scelgono l’Asia (13%) e l’America Latina (23%). Il rimanente 24% ha scelto gli Stati Uniti e il Canada e il 33% l’Europa, compresi i Paesi balcanici e quelli dell’ex blocco sovietico. “Io ho scelto il cinese come seconda lingua a scuola e appena ho potuto sono andato a vivere là per conoscere quella cultura dal di dentro e vincere ogni tipo di pregiudizio – conclude Jacopo – Internet, i social network e la televisione possono darti degli assaggi, ma poi è tramite l’incontro con le persone che si fa la vera conoscenza: le nuove tecnologie sono una cosa moderna, la cultura è una cosa antica e che c’era prima della Rete, e che puoi respirare e assorbire solo attraverso il contatto umano”.

Global Teacher Status Index insegnanti italiani agli ultimi posti

da LaStampa.it

Global Teacher Status Index insegnanti italiani agli ultimi posti

 L’indagine condtta in 21 paesi In Cina i  docenti che godono di uno status migliore
roma

La condizione degli insegnanti italiani è così infelice da collocarli al 18° posto, su 21, del nuovo Varkey Gems 2013 Global Teacher Status Index, pubblicato dalla Fondazione Varkey Gems. Un’indagine che analizza lo status degli insegnanti in 21 paesi ed è il primo tentativo volto a confrontare su scala mondiale l’atteggiamento nei loro confronti.

Redatto da Peter Dolton, professore di Economia presso l’Università del Sussex e da Oscar Marcenaro-Gutierrez, professore associato presso il Dipartimento di statistica ed econometria dell’Università di Malaga, il Varkey Gems 2013 Global Teacher Status Index è un sondaggio condotto su mille persone intervistate in ciascun paese oggetto di studio: Brasile, Cina, Repubblica Ceca, Egitto, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Israele, Italia, Giappone, Paesi bassi, Nuova zelanda, Portogallo, Regno Unito, Turchia, Singapore, Corea del Sud, Spagna, Svizzera e Stati Uniti d’America.

Secondo le valutazioni dell’indice, gli insegnanti che godono di uno status migliore si trovano in Cina, mentre gli insegnanti israeliani sono quelli che vivono la condizione peggiore. L’indice rivela che in Cina, Corea del Sud, Turchia, Egitto e Grecia gli insegnanti sono rispettati molto più che in tutti gli altri paesi europei e anglosassoni.

Nonostante il basso status degli insegnanti in Italia, l’indice piazza il nostro paese al secondo posto per quanto riguarda l’influenza degli insegnanti nella vita scolastica degli italiani, subito dietro la Finlandia. Agli intervistati in questi 21 paesi sono state poste domande per capire come l’insegnamento sia considerato rispetto ad altre professioni, se gli stipendi degli insegnanti siano ritenuti equi, se le persone incoraggerebbero i propri figli a dedicarsi all’insegnamento e in che misura le persone ritengono che gli studenti rispettino gli insegnanti.

Si è anche fatto un confronto sull’atteggiamento verso gli insegnanti occupati nella scuola primaria e in quella di secondo grado e nei confronti dei dirigenti scolastici, ed è stato anche valutato l’atteggiamento generale verso il sistema didattico. Per finire è stato chiesto agli intervistati se, a loro avviso, i sindacati della scuola avessero un potere eccessivo in materia di stipendi e condizioni lavorative degli insegnanti.

In passato ci sono stati numerosi raffronti sul scala internazionale nel campo dell’istruzione, quali ad esempio il Programma per la Valutazione Internazionale dell’allievo (più noto con l’acronimo Pisa) e il rapporto Education at a Glance, pubblicato ogni anno dall’Ocse. Tuttavia è la prima volta che viene svolto uno studio comparativo sulle condizioni degli insegnanti nel mondo.

Attività motoria, il Governo apre alla primaria e in tutte le scuole di pomeriggio

da Tecnica della Scuola

Attività motoria, il Governo apre alla primaria e in tutte le scuole di pomeriggio
di A.G.
L’annuncio è del ministro per gli Affari Regionali e lo Sport, Graziano Delrio, durante un question time al Senato: è nostra priorità far partire un programma nazionale di educazione motoria nelle primarie. Come far fare sport negli istituti: così si previene disagio ed emarginazione e i giovani crescono in modo sano.
Allargare la promozione delle attività sportive nelle scuole e in particolare le attività motorie nel pomeriggio, affidandole al Coni. Ma anche avviare un programma finalmente nazionale di attività motoria negli istituti primari. A dichiararlo è stato, il 3 ottobre, il ministro per gli Affari Regionali e lo Sport, Graziano Delrio, nel corso di un question time al Senato.
Il Ministro ha anche ammesso che questo intervento richiede molta collaborazione tra Coni, enti locali e Governo e lo riteniamo meritevole dei finanziamenti annuali previsti per il Coni. In ogni caso, “anche se non sarà facile, vi sono le condizioni” per “far partire un programma nazionale di educazione motoria nelle primarie. Questa è nostra priorità – ha detto il Ministro – dobbiamo riuscire a dare, in questo settore, uno stimolo più rilevante. Oltre agli accordi di programma con il ministero dell’Istruzione sugli investimenti specifici per le scuole nelle zone disagiate e sugli istituti penitenziari minorili, dobbiamo stipulare un nuovo programma per potenziare l’educazione motoria pomeridiana e far sì che prevenga disagio ed emarginazione e faccia crescere i giovani in modo sano”.
Il ministro Delrio ha ricordato che è stato presentato alla Camera un disegno legge sull’impiantistica sportiva, mentre il Governo è pronto a presentare un suo testo, “dovremo fare il punto in questi giorni per capire come coordinare queste due iniziative”.

“Concorsone”, ma non doveva far assumere giovani docenti?

da Tecnica della Scuola

“Concorsone”, ma non doveva far assumere giovani docenti?
di A.G.
Due vincitori su tre erano già nelle GaE e più della metà over 35. Flc-Cgil: selezione che non serviva e il fatto che 70% dei vincitori fosse già abilitato significa che pure tra i precari vige il ‘merito’. Anief: autogol del Miur, che ha precluso l’accesso ai laureati degli ultimi 10 anni. Il sindacato di Pacifico punta poi l’indice sulla nuova norma che esclude i non abilitati dalle graduatorie d’istituto: c’è il rischio di assumere con discrezionalità.
Ha prodotto più polemiche che apprezzamenti l’“operazione trasparenza” sul concorso a cattedra svolto bandito dal Miur dopo 14 anni. Le informazioni pubblicate da viale Trastevere, in particolare la tabella dei vincitori – divisi per età, sesso, presenza o meno nelle GaE – hanno messo in evidenza un dato inequivocabile: i due terzi di chi ha preso o prenderà il ruolo nel prossimo biennio è in realtà un precario della scuola.
Certo, si tratta di dati ancora parziali relativi a circa il 70% dei posti a concorso (8.303 su 11.542), perché in alcune Regioni le procedure devono ancora concludersi. Ma già la tendenza è tracciata. Tanto che la Flc-Cgil sostiene che dai dati ministeriali si può già “ricavare una fotografia dei vincitori che smentisce tutte le motivazioni che erano state addotte a giustificazione di tanta urgenza”. Prima tra tutte quella che “non è stato un concorso per giovani, né un concorso che ha premiato un merito diverso da quello dei docenti che da anni garantiscono il funzionamento delle scuole. Il dato più eclatante – continua il sindacato Confederale – è che il 70% dei vincitori è già incluso in graduatoria ad esaurimento a dimostrazione che non si tratta di docenti privi di ‘merito’”.
La Flc-Cgil coglie quindi l’occasione per ribadire che “il tema del precariato della scuola pubblica venga risolto da un piano straordinario di stabilizzazioni che dia prospettive occupazionali a quanti vi stanno spendendo la loro preparazione e la loro professionalità. I docenti precari iscritti nelle GAE, i vincitori dei Concorsi e dei TFA, gli aspiranti ai PAS hanno bisogno di certezze, non di continui ricorsi per reclamare il diritto al lavoro”, conclude l’organizzazione guidata da Mimmo Pantaleo.
C’è poi un altro dato su cui riflettere. Quello relativo all’età dei vincitori: oltre il 50% ha più di 35 anni (come coloro che sono inclusi nelle graduatorie). “Ma il Ministero dell’Istruzione non può prendersela che con se stesso, visto che nel bando di concorso, atteso da 13 anni, ha escluso dalle prove tutti coloro che si sono laureati dopo il 2002”, ha tuonato l’Anief. Che parla anche di vero “autogol del Ministero”.
“Con la preclusione a tutti i laureati negli ultimi dieci anni – ha detto il suo presidente, Marcello Pacifico- il Miur ha creato i presupposti per aggravare, anziché alleggerire, l’età media dei docenti italiani. Che, è bene ricordare, è già la più alta al mondo. Il nostro sindacato aveva denunciato da tempo questa situazione paradossale. Tra l’altro aggravata dalla ‘fuga’ dei commissari, a seguito del pericolo di lavorare in estate nei giorni di ferie e dei compensi irrisori loro destinati dall’amministrazione”.
Sempre l’Anief, nei giorni scorsi ha “bacchettato” il Miur per una novità sul regolamento di inclusione degli aspiranti docenti nelle graduatorie d’istituto. “Nel silenzio più assoluto – ha scritto il sindacato autonomo – il Miur modifica l’accesso alle graduatorie d’istituto introducendo una restrizione storica: attraverso il regolamento ministeriale (data 4 luglio 2013 n.d.r.) recante modifiche al decreto n. 249 del 10 settembre 2010, il Ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza ha stabilito che d’ora in poi per essere inseriti nelle graduatorie delle 8.047 scuole italiane servirà obbligatoriamente l’abilitazione conseguita attraverso i Percorsi abilitanti speciali (PAS) o i Tirocini formativi abilitanti (TFA)”.

Con questa discutibilissima scelta – sostiene Pacifico – il Miur ha sovvertito una prassi avviata da 15 anni: permettere a tutti i laureati o a coloro che sono in possesso di un titolo di studio utile all’insegnamento di formulare la propria candidatura direttamente alle scuole. Ed essere inseriti in graduatoria, sulla base del voto conseguito, di altri eventuali titoli conseguiti e di supplenze già svolte”. “Il timore – conclude Pacifico – è che in assenza di una graduatoria, d’ora in poi i dirigenti scolastici possano scegliere i docenti sulla base di metodi discrezionali e non più obiettivi. L’unica buona notizia è che, in questa fase transitoria, – conclude il sindacalista Anief-Confedir – tutti coloro che oggi sono già inseriti nelle graduatorie d’istituto non saranno esclusi”.

Miur pubblica il decreto sull’accessibilità

da Tecnica della Scuola

Miur pubblica il decreto sull’accessibilità
di Aldo Domenico Ficara
Il decreto del Miur del 20 marzo 2013 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 16 settembre 2013) che modifica l’allegato A del decreto del Ministero per l’Innovazione e le Tecnologie, D.M. 8 luglio 2005, evidenzia e sottolinea il fatto che tutti i siti web della P.A. devono essere accessibili in ogni loro parte.
L’accessibilità di un sito web è definita quale “capacità dei sistemi informatici, nelle forme e nei limiti consentiti dalle conoscenze tecnologiche, di erogare servizi e fornire informazioni fruibili, senza discriminazioni, anche da parte di coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari”.  Il sopracitato decreto del Miur del 20 marzo 2013 introduce delle novità in tema di accessibilità in relazione al decreto del Ministero per l’Innovazione e le Tecnologie, D.M. 8 luglio 2005, il quale riporta i “Requisiti tecnici e i diversi livelli per l’accessibilità agli strumenti informatici”, modificandone in particolare l’allegato A. Con queste modifiche sono state recepite le indicazioni date dalla Commissione Europea nella comunicazione “A digital Agenda for Europe COM (2010) 245”, in base alla quale al fine di garantire servizi pubblici inclusivi, i siti web della pubblica amministrazione e i servizi on line devono essere resi compatibili con i nuovi standard internazionali in tema di accessibilità del web.  A tal proposito i requisiti contenuti nella legge Stanca si basavano sulla versione “stabile” delle specifiche di accessibilità emanate dal consorzio mondiale del Web (W3C) nel 5 maggio 1999. Oggi però queste specifiche non sono adatte alle tecnologie nate successivamente, tra cui i social media e il web “dinamico”. Pertanto i nuovi requisiti si basano sull’ultima versione delle specifiche di accessibilità, W3C WCAG 2.0, necessarie per poter garantire alle PA i diritti di tutti gli utenti di usufruire dei servizi digitali. Senza i nuovi requisiti, inoltre, ci sarebbe anche un problema per il rispetto dei criteri di valutazione della qualità dei servizi erogati ai cittadini tramite web. Infatti, uno dei criteri di valutazione della qualità dei siti web delle P.A., indicato nelle linee guida è proprio il grado di accessibilità ed usabilità dei servizi mentre un ulteriore criterio di valutazione è il cosiddetto Amministrare 2.0.

E se il merito nella scuola fosse un bluff?

da Tecnica della Scuola

E se il merito nella scuola fosse un bluff?
di Lucio Ficara
I dubbi e le perplessità che accompagnano il progetto del Governo di agganciare lo stipendio del personale della scuola al merito e alla valutazione sono molteplici.
Ma siamo certi che il sistema di valutazione, legato alle prestazioni dei docenti e il relativo premio collegato con la progressione di carriera, che per altro è stato proposto ufficialmente nel documento di economia e finanza, prodromico alla prossima legge di stabilità, sia basato su presupposti seri ed oggettivi? E se questo sistema meritocratico, che si vuole inserire a tutti i costi nella scuola, per rimpiazzare i vecchi scatti di anzianità, fosse un bluff? D’altronde è opinione diffusa, tra chi la scuola la vive dal basso, che una vera e seria valutazione, come quella che ci verrebbe chiesta, o per meglio dire imposta, dall’Europa, non è facilmente attuabile nel nostro scassatissimo sistema scolastico. Bisogna ricordare che il nostro sistema scolastico, che sarebbe dovuto essere autonomo, forte ed indipendente, è invece più che mai ancorato alle decisioni ministeriali sia dal punto di vista delle risorse finanziarie che da quello della burocrazia normativa. Quindi si tratta purtroppo di un sistema scolastico debole e commissariato dalle decisione verticistiche del Miur o dell’Europa. Per evitare cocenti delusioni, in chi crede veramente in un sistema meritocratico, dove potranno progredire nella propria carriera, i docenti più bravi ed esperti nella didattica, bisogna fare un’onesta operazione di verità. A tal proposito è giusto ricordare, attraverso una corretta analisi storica che, negli ultimi venti anni, la politica italiana, sia di centro-destra, ma anche quella di centro-sinistra hanno contribuito allo sfascio completo della scuola pubblica, avvilendo il ruolo professionale del docente, sia da un punto di vista economico, che da quello del prestigio sociale. La scuola, in questi ultimi lustri, è stata vista come un salvadanaio da cui prelevare risorse, attraverso tagli, risparmi di spesa e investimenti promessi, ma poi dirottati verso altri capitoli di spesa. Vediamo ogni giorno, mentre qualcuno parla di scuola digitale, di registri elettronici, di scuola dei sogni che sta nei pensieri dei nostri ministri burocrati, scuole che cadono letteralmente a pezzi, scuole in cui piove dentro, dove non esistono collegamenti alla rete internet e dove fare lezione è veramente difficile.
Senza contare che oltre il gravissimo problema, tutt’ora irrisolto, dell’edilizia scolastica, i docenti e tutto il personale scolastico ha un contratto scaduto da quattro anni e retribuzioni indecorose, soprattutto rispetto ai carichi di lavoro a cui il personale scolastico è sottoposto.
Allora è del tutto lecito porsi le seguenti domande: “E se il merito nella scuola fosse un bluff, per risparmiare i soldi degli scatti d’anzianità? E poi in che modo si dovrebbe valutare o misurare il merito di un docente?”. Quello che è certo e che l’unica cosa che è valutabile e misurabile, è la miseria in cui, una politica miope e distratta, ha condotto il mondo del sapere e della conoscenza. Valutare lo stato attuale del nostro sistema scolastico, sarebbe come valutare la stabilità di un palazzo, sulle sue macerie, o valutare lo stato di salute di un malato quando si è sottoposto a terapie sbagliate e di accanimento.
Esiste il timore che dietro il presunto merito, che con ogni probabilità verrà proposto con la legge di stabilità 2014, ci possa essere il grande bluff, consistente nel tentativo di scardinare il sistema degli aumenti stipendiali collegati all’anzianità di servizio, a favore di un opinabile e non ben precisato meccanismo di progressione di carriera legato alla produttività del docente. Ma sorge spontanea un’altra domanda che inquieta molti docenti: “Chi tarerà il nuovo strumento del “produttometro professionale degli insegnanti”?”. Questo è ancora un mistero, che non ha avuto nessuna risposta da parte del ministro Carrozza. Su questa questione, cresce il timore di chi sostiene, che questo sistema meritocratico sia un vero e proprio bluff.

Borse di studio per la mobilità, ma solo 889 gli studenti beneficiari

da Tecnica della Scuola

Borse di studio per la mobilità, ma solo 889 gli studenti beneficiari
Il Miur comunica che sono oltre 4mila le domande  per usufruire delle “borse di mobilità” come sostegno agli studenti diplomati con un voto pari almeno a 95/100 e che intendono immatricolarsi in un’Università di una regione diversa da quella di residenza. Il 71%  proviene da Regioni del Sud e Isole, ma a beneficiarne complessivamente sono soli 889 studenti
Scaduto il 26 settembre scorso il termine ultimo per la presentazione delle domande, il Miur comunica che sono state presentate 4.160. di cui 2.902 di studenti che vogliono immatricolarsi in un corso triennale, 530 per lauree magistrali a ciclo unico di 5 anni, 728 per lauree magistrali a ciclo unico di 6 anni. Il 71% dei richiedenti proviene dalle Regioni del Sud e dalle Isole, il 13% dal Centro e il 16% dal Nord.
L’importo di ciascuna borsa è di 5mila euro per anno di corso. Tenuto contro che il finanziamento disponibile è di 17 milioni di euro, i beneficiari, ad oggi, sono 889. E’ stata stilata una graduatoria provvisoria dei vincitori che sarà confermata nei prossimi giorni. L’attribuzione delle borse, infatti, resta subordinata a tre condizioni: l’effettiva immatricolazione, entro il 14 ottobre, in una regione diversa dalla propria o della propria famiglia, la verifica dei requisiti economici e del voto di maturità. Le 889 borse attribuite sono così suddivise: 606 destinate a studenti che hanno scelto corsi di laurea triennale, 117 per studenti che hanno scelto corsi di laurea magistrale di 5 anni e 166 per ragazzi che si iscrivono a una laurea magistrale di 6 anni. Tra i vincitori di borsa in graduatoria prevalgono quelli del Sud e delle Isole con 715 borse (80,4%). Seguono gli studenti del Centro con 92 borse (10,4%) e quelli del Nord con 80 borse (9%). Il maggior numero di borse, guardando alla regione di residenza, va ai candidati della Puglia: 204. Seguono gli studenti della Sicilia (151 borse ottenute), Calabria (141), Campania (90). Regione di approdo maggiore degli studenti in mobilità è la Lombardia, scelta da 145 borsisti. Seguono Piemonte (scelto da 100 borsisti) e Toscana (scelta da 77 borsisti). Va detto che 368 studenti vincitori di borsa non hanno ancora esplicitato la loro scelta. L’analisi dei dati disponibili ad oggi racconta che gli studenti del Sud e delle Isole sono quelli più disposti a viaggiare e a scegliere atenei anche lontani da casa (Lombardia, Piemonte, Toscana, Lazio ed Emilia Romagna le mete preferite). Mentre gli studenti in mobilità del Nord tendono a non scendere sotto la Toscana.