Insistere sulla riforma degli organi collegiali e del governo delle scuole autonome

INSISTERE SULLA RIFORMA DEGLI ORGANI COLLEGIALI E DEL GOVERNO DELLE SCUOLE AUTONOME

di Gian Carlo Sacchi

Se da un lato riprende la revisione costituzionale del titolo quinto, con tutto quello che ne consegue sul piano del governo del “sistema educativo nazionale di istruzione e formazione”, dall’altro deve avere compimento la riforma degli organi collegiali della scuola: due facce della stessa medaglia. Ad una riorganizzazione di poteri e competenze che valorizza l’autonomia scolastica deve corrispondere una visione territoriale dei servizi che fanno riferimento all’education, in cui la comunità è coinvolta e che attraverso la partecipazione arrivi a conseguire gli obiettivi dati a livello nazionale e ad ampliare lo sguardo verso l’Europa e le altre culture.

La scuola infatti non è più l’unica struttura tesa a garantire il diritto dei minori alla crescita personale e culturale, ma rimane il presidio pedagogico della Repubblica. Il suo riferimento è lo Stato-Regioni-Comuni per quanto riguarda gli standard da raggiungere e la programmazione dei servizi e la comunità in cui opera per l’offerta formativa ed il contributo da dare allo sviluppo del territorio, integrandosi con gli altri servizi formativi.

Parlare di riforma degli organi collegiali vuol dire andare oltre la dicotomia che si è creata negli anni tra partecipazione e gestione; garantire cioè la presenza dei vari componenti della comunità scolastica non solo sul versante della proposta, ma anche su quello della decisione e della verifica. Autonomia significa autodeterminazione ed anche valutazione sociale, impegno a raggiungere i traguardi comuni di tutto il sistema e maggiore flessibilità per interpretare i bisogni educativi del territorio.

Si potrebbe aprire una parentesi per evidenziare quanto un sistema rigido oggi sia causa di insuccesso e di abbandono, mentre uno flessibile sia più in linea anche con quanto avviene in altri Paesi e più in generale con il contesto europeo. Tale riflessione offre ulteriori spunti perché l’autonomia abbia una solida base costituzionale ed all’autogoverno della scuola, inserita nel suo territorio, una maggiore efficienza e qualità dell’azione educativa.

Tutto ciò se si va oltre la partecipazione e la pura rappresentatività negli organi collegiali e ci si spinge verso una maggiore funzionalità in relazione alle richieste dell’utenza e del territorio stesso. E’ sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche autonome che ormai si concorda, ma sul modo di realizzarlo esistono ancora diversi punti di vista, dettati più dalle difese corporative delle singole componenti che dalla disponibilità ad uno sforzo comune.  Non c’è dubbio però che tale azione comune debba essere fatta su basi di chiarezza e senza ideologie più o meno manifeste, la cui contrapposizione mantiene il sistema sostanzialmente fermo. Ed è quello che è successo nel dibattito sul disegno di legge n. 953 approvato dalla VII Commissione della Camera.

E’ interessante riprendere questa discussione in quanto l’allora Senatrice Giannini, oggi ministro dell’istruzione, aveva recuperato quella proposta per darle gambe nell’altro ramo del Parlamento (atto del Senato 3542), anche se con alcune e non secondarie modifiche.

Il ddl 953 voleva cercare di andare appunto verso l’autogoverno e configurare progressivamente il sistema dell’education, ma da più parti è stato richiamato ad un’impostazione che potremmo definire statalista; l’atto 3542 al contrario ha inteso l’autogoverno in un’ottica neoliberista, per  garantire il “diritto alla libertà di scelta educativa delle famiglie” prevedendo anche la riallocazione delle risorse tra scuole statali e paritarie. Queste due impostazioni prevedono sostanzialmente gli stessi organismi che vengono indicati per le sole scuole statali.

E’ forse l’occasione buona perché si provi a conciliare le posizioni in maniera efficace all’interno della stessa maggioranza politica, in modo da far progredire parallelamente le due questioni sulla governance: quella esterna e quella interna, all’insegna della funzione pubblica di tutto il sistema, facendo maggior ricorso alla sussidiarietà nella gestione.

Iniziamo col dire che questa legge fa parte delle “norme generali sull’istruzione”, che devono cioè indicare gli obiettivi e i principi ispiratori, lasciando poi alle singole scuole autonome, con tanto di statuto, di stabilire le  modalità per metterli in pratica, in base al contesto in cui operano, e verificarne l’efficacia in base agli standard nazionali/europei ed ai “livelli essenziali delle prestazioni”.

Bisogna uscire dalla logica che ha fin qui imbrigliato gli organi collegiali e cioè quella della partecipazione sociale alla gestione statale. Con l’approvazione della legge sull’autonomia e del conseguente regolamento per le scuole riconosciute autonome viene conferita alle stesse la possibilità di iniziativa in materia di offerta formativa e di autonomia didattica, organizzativa, finanziaria e di ricerca e sviluppo; la possibilità di associarsi, di costituire reti e consorzi, ecc. Tale configurazione pone le scuole più verso le autonomie territoriali, ma in proposito si aspetta ancora il decentramento delle competenze previsto dal DL 112/1998. La garanzia di far parte di un sistema pubblico è riposta nelle suddette norme generali  e più che nell’ordinamento negli standard da conseguire, lasciando alla comunità scolastica ed alle sue esigenze la liberta di organizzare la risposta, attraverso appunto organismi formati in modo partecipato.

A questo punto c’è il salto rispetto a prima ed un conseguente rischio che va evitato dimostrando maturità proprio nella partecipazione-governo di qualcosa che rimane sempre un’istituzione della Repubblica e non si trasforma in una “scuola di tendenza” o peggio ancora in un’agenzia privata.

La nuova legge sull’autogoverno dovrebbe tenere in equilibrio queste dimensioni, favorendo l’implementazione di un sistema autonomo, quello educativo-scolastico-formativo, in dialogo con gli altri sistemi del territorio, avente una riconosciuta rappresentanza ai diversi livelli di governo fino a quello nazionale. Saranno le scuole autonome, singole o in rete, ad essere rappresentate e non altri organi collegiali territoriali scuolacentrici, vissuti in passato secondo l’ottica ministeriale.

In questa prospettiva ci sta il diritto della famiglia alla scelta educativa e la valutazione sociale dell’attività; molte di queste cose esistono già e l’introduzione dei nuclei di autovalutazione e di un sistema nazionale di misurazione dei risultati ne sono una conferma. Ciò che manca è un maggior grado di libertà tra i risultati e le decisioni conseguenti, sia sul piano didattico, sia su quello del controllo di qualità complessiva dell’offerta. Si è già detto in precedenza che la rigidità delle strutture aumenta la disuguaglianza e impedisce il recupero e addirittura il prevalere degli indirizzi mantiene la percezione sociale della gerarchizzazione dei saperi.

Sono quindi gli statuti a creare la cerniera tra le norme generali e la realtà locale, ad essi l’indicazione delle modalità di partecipazione della comunità e di migliore organizzazione delle professionalità. Un’autorità governativa, da stabilire a quale livello, approverà gli statuti stessi e commissarierà gli inadempienti .

Le due proposte di legge concordano nel distinguere  funzioni di indirizzo, gestionali e didattiche, ma differiscono sull’attribuire la presidenza del “consiglio dell’autonomia”, l’organo appunto politico: la 953 prevede di mantenere la presidenza ad un rappresentante delle famiglie, mentre la 3542 la affida al dirigente scolastico. Con la prima soluzione si darebbe maggiore equilibrio alle diverse componenti: scuola e famiglia dovrebbero essere le principali responsabili dell’azione educativa e si vedrebbe il dirigente scolastico oltre che come garante per lo Stato anche più vicino a quella che usa chiamarsi la leadership educativa, mentre nel secondo caso si darebbe a questa figura più un valore manageriale, di organizzazione delle diverse risorse presenti nella scuola. E’ sicuramente preferibile una visione di scuola-comunità piuttosto che quella di scuola-organizzazione.

E’ l’autonomia che deve saper analizzare i bisogni del territorio, la qualità che deve promuoverne lo sviluppo, il pubblico, in un’ottica di sussidiarietà, che deve garantire i diritti dei cittadini; organismi di partecipazione costituiscono un atto di trasparenza da estendere progressivamente anche ad altre agenzie educative e formative: statali, regionali, comunali, paritarie o autorizzate. Tale “sistema pedagogico” deve avere, come si è detto, una sua rappresentanza e potere di interlocuzione con altri sistema territoriali e più in generale con il sistema politico, economico, ecc. Qui le due proposte convergono e questo potrebbe aprire la strada ad una rapida approvazione.

Un Consiglio Nazionale delle Autonomie Scolastiche e non solo, come organo di partecipazione e corresponsabilità tra Stato, Regioni, EELL e autonomie scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione e non un consiglio della corona, con compiti meramente consultivi, di cui i ministri si sono serviti o che hanno anche in buona parte disatteso. Organo di tutela della libertà di insegnamento, di analisi della qualità del sistema e di garanzia della sua piena autonomia.

Ogni Regione può mettere in atto analoghi strumenti di partecipazione, attraverso l’istituzione di Conferenze regionali che tra gli altri compiti abbiano anche quello di trattare con lo Stato sulla definizione degli organici, che si auspica possano essere assegnati a livello di istituto o di rete, proprio al fine di conferire stabilità e continuità al servizio locale. Da qui possono derivare la costituzione degli ambiti territoriali (unioni di Comuni) con compiti di programmazione della rete dei servizi e delle relative Conferenze di ambito.

Un’ultima osservazione riguarda la presenza degli studenti degli istituti del secondo ciclo. Pur con toni diversi tutti riconoscono la loro rappresentanza nel consiglio dell’autonomia in misura paritetica a quello dei genitori; è lo statuto, che deve essere approvato del consiglio medesimo, che deve disciplinare le modalità della necessaria partecipazione degli alunni e genitori, comprese le assemblee, in base ai diversi organismi istituiti. E per quanto riguarda la loro presenza in decisioni che comportano movimenti finanziari, il loro voto non può essere consultivo (3542) se maggiorenni; essi infatti devono essere coinvolti nelle scelte gestionali, anche per ragioni educative, cioè di responsabilizzazione nell’uso del denaro pubblico o per pubblica utilità.

E’ singolare che la sen.Giannini, una volta diventata ministro, tra i tanti argomenti anticipati sui media non si sia soffermata su un provvedimento presentato proprio da lei, anche perché questa apertura offerta alla legge 953 avrebbe bisogno di un percorso accelerato proprio come quello che si intende far seguire al rieccolo titolo quinto.

CONCORSO DIRIGENTI SCOLASTICI TOSCANA: INCONTRO CON IL MINISTRO

CONCORSO DIRIGENTI SCOLASTICI TOSCANA: INCONTRO CON IL MINISTRO
Roma, 25 marzo 2014

Dopo l’affollato sit-in della mattina, con numerosi dirigenti scolastici della Toscana (convenuti
davanti al Ministero per esprimere la propria preoccupazione per gli sviluppi successivi alla
sentenza del Consiglio di Stato che ha parzialmente annullato le prove), si è svolto nel pomeriggio
l’incontro con il Ministro, sen. Stefania Giannini. Presente una delegazione dei dirigenti toscani,
insieme con le rappresentanze nazionali e regionali dei sindacati dell’area V (ANP, CISL, FLCCGIL
e UIL). Presenti anche tutti i Dirigenti di vertice del Gabinetto.
Il Ministro ha esordito comunicando essere pervenuta proprio oggi la notifica ufficiale della
sentenza del Consiglio di Stato. Ha poi proseguito enunciando le due linee di azione cui intende
ispirarsi nel gestire la situazione che si è venuta a creare:
– il rispetto per il giudicato della suprema magistratura amministrativa;
– la tutela dei diritti di coloro che ne sono stati coinvolti senza loro colpa.
Per far questo, è stata predisposta e sarà inviata nelle prossime ore una lettera all’Avvocatura dello
Stato affinché interpelli il Presidente di Sezione del Consiglio di Stato in ordine a due questioni:
– come dare attuazione alle indicazioni contenute nella sentenza relativamente al rinnovo parziale
delle prove concorsuali in presenza di talune criticità di fatto (citata esplicitamente la problematica
garanzia dell’anonimato delle prove, ormai oggetto di numerose richieste di accesso);
– come gestire la fase transitoria fino alla rinnovazione della procedura concorsuale, stante
l’interesse pubblico alla continuità dell’azione amministrativa e l’esigenza di far salvi gli atti e le
decisioni che rischierebbero di essere indirettamente travolti dall’attuazione del giudicato.
Parallelamente, è fermo intendimento del Ministro presentare al prossimo Consiglio dei Ministri
utile (se possibile, già venerdì 28 marzo) il testo di un decreto-legge che mantenga nelle funzioni gli
attuali dirigenti vittime dell’annullamento degli esiti concorsuali, fino al termine delle procedure di
rinnovazione del concorso medesimo.
Da parte sindacale, è stata espressa parziale soddisfazione per quanto comunicato per l’immediato:
ma è stato anche sottolineato come la soluzione ipotizzata risolva il problema solo per quanto
riguarda l’Amministrazione, un cui errore ha innescato l’attuale situazione; mentre mal si
comprende come si faccia carico delle condizioni dei vincitori e degli idonei, colpiti dalle
conseguenze di errori non loro. E’ stato anche chiesto che il decreto-legge sia redatto in modo tale
da poter essere applicato in via ordinaria anche nel deprecabile caso che situazioni come quelle
della Toscana avessero a riprodursi in altre realtà.
Il Ministro ha garantito che quest’ultima esigenza sarà tenuta presente, ed al contempo ha
manifestato la volontà di farsi carico nella massima misura possibile della tutela dei diritti di coloro
che sono stati coinvolti. Ha anche garantito la continuità dell’interlocuzione con le parti sindacali
circa gli sviluppi successivi.
A conclusione dell’incontro, si è svolta un’assemblea con la partecipazione di tutti i dirigenti
convenuti a Roma per il sit-in di protesta.
Il giudizio unitariamente espresso è stato complessivamente positivo, soprattutto per quanto
riguarda la chiarezza con cui il Ministro ha assunto l’impegno a gestire la vicenda tenendo presenti
le aspettative degli interessati. Un canale di comunicazione che fino ad oggi non esisteva è stato
aperto e sarà mantenuto attivo nelle prossime settimane, fino ad una conclusione la più
soddisfacente possibile nelle circostanze date.
Al tempo stesso, il sindacato ha dichiarato l’intenzione di mantenere la mobilitazione dei dirigenti
toscani e la pressione sul Governo e sul Parlamento per il seguito delle decisioni da assumere.
E’ stata anche garantita la massima assistenza legale e sindacale nella fase intermedia, quando si
tratterà di resistere – tramite diffida o altri strumenti – all’eventuale preavviso di risoluzione del
rapporto di lavoro che dovesse essere notificato agli interessati.
La giornata di oggi – resa possibile dall’efficace azione in sede locale dei dirigenti e delle loro
rappresentanze e dalla corale partecipazione al sit-in della mattina – non rappresenta la chiusura
della vicenda, ma l’avvio di un percorso che non sarà necessariamente breve. Le OO.SS. che qui si
firmano esprimono il proprio impegno nel seguirlo passo passo in tutte le sue fasi e nel tenere
informati i colleghi degli sviluppi.

ANP CIDA
F.to G.Rembado
CISL SCUOLA
F.to M.Guglietti
FLC CGIL
F.to G.Carlini
UIL SCUOLA
F.to R.Cirillo

Concorso dirigenti Toscana, Giannini incontra delegazione al Miur

Concorso dirigenti Toscana, Giannini incontra delegazione al Miur
“C’è la ferma volontà di trovare una soluzione”

Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini ha incontrato questo pomeriggio una delegazione dei 112 presidi toscani vincitori dell’ultimo concorso che è stato annullato in parte da una recente sentenza definitiva del Consiglio di Stato a seguito della quale i dirigenti dovranno lasciare il loro posto. Oltre cento scuole rischiano quindi di cambiare vertice ad un passo dalla fine dell’anno scolastico.

“La sentenza ci è stata notificata oggi – ha spiegato il Ministro -. Sto scrivendo al Presidente del Consiglio Matteo Renzi, al Sottosegretario alla Presidenza Graziano Del Rio e al Ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi per chiedere che nel prossimo Consiglio dei Ministri sia approvato un decreto che, in attesa del rifacimento del concorso, ci consenta di non spostare questi dirigenti fino alla fine dell’anno scolastico”.

Il Ministro stasera chiederà anche, tramite l’Avvocatura di Stato, un’interpretazione su alcuni punti della sentenza in vista della sua applicazione. “Capisco la manifestazione legittima di disappunto da parte dei presidi toscani che hanno negli ultimi due anni svolto un lavoro importante nelle scuole – ha detto Stefania Giannini -. Noi non possiamo non rispettare la sentenza, ma da parte mia garantisco che c’è la ferma volontà di trovare una soluzione”.

Non era meglio la CEE?

Non era meglio la CEE?

 di Maurizio Tiriticco

Nei primi anni Cinquanta nel nostro Paese cominciammo ad assaggiare quello che poi fu il boom socioeconomico. La guerre era finita nel ’45 e in un quinquennio il nostro Paese aveva già compiuto miracoli! Inaspettati! Tanto pesanti erano state le distruzioni che avevamo subite: riguardavano città intere, case, servizi, fabbriche! Eppure, ce la facemmo! A pensarci adesso, le difficoltà che stiamo attraversando oggi sono infinitamente minori rispetto a quelle dell’immediato dopoguerra. Eppure ci sembrano pressoché insormontabili.

Un gran desiderio di pace e di lavoro accomunava noi tutti! Anche perché avevamo una Repubblica, uno Stato tutto nuovo e una Costituzione che era la più bella del mondo. E ricostruivamo il Paese e anche la nostra vita civile! Poi, quando nel 1951 nacque la Ceca, la Comunità economica europea del carbone e dell’acciaio, per opera dell’iniziativa di Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, Paesi che fino a qualche anno prima avevano combattuto su campi avversi, fummo in molti a capire che si stava cominciando a tracciare una nuova strada anche in campo internazionale! Non c’erano più né vinti né vincitori, ma un insieme di popoli che intendevano costruire per la prima volta insieme una nuova Comunità, anche con la C minuscola, di intenti, di lavoro, di speranze! Ovviamente una strada difficile! Ma che avrebbe potuto garantire una pace futura così pesantemente compromessa in quel lungo secolo che Qualcuno più tardi ha voluto definire invece come Secolo breve.

Comunque, qui in Italia avvertivamo che cominciava a prender corpo la visione mazziniana della Giovane Europa! O forse quella del federalismo di Cattaneo! O di quel socialismo europeo di Pisacane! I sogni ottocenteschi stavano diventando ormai qualcosa di più solido. In effetti, il Manifesto redatto nel confino di Ventotene da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni non aveva nulla di utopistico e disegnava con sufficiente chiarezza i propositi e i passi di una progressiva unificazione europea in chiave federalista. E a quei nomi imparammo ad associarne altri! Oltre al trentino Alcide De Gasperi figuravano il tedesco Konrad Adenauer, i francesi Robert Shuman e Jean Monnet, il belga Paul Henri Spaak. Utopisti? Sognatori? Anche, ma soprattutto dirigenti politici convinti di una comune prospettiva europea.

Quindi, la Ceca, e poi l’Euratom e poi la Cee, quella Comunità economica europea che firmammo qui a Roma nel 1957, potevano costituire l’avvio di un nuovo percorso. Le attese erano indubbiamente molte! L’avvio di un mercato comune, l’incremento dei trasporti e l’introduzione di nuove tecnologie nei processi lavorativi rendevano necessarie, se non ineludibili, intese che solo fino a qualche decennio prima sarebbero apparse impossibili. Non mancavano atteggiamenti critici: la cortina di ferro ormai da quasi dieci anni spaccava in due l’Europa e il mondo intero, per cui una comunità economica che riguardasse solo i Paesi di una determinata area forse avrebbe rafforzato quel sistema capitalistico che i movimenti della sinistra invece osteggiavano e combattevano. Fu così che alle speranze e alle attese di certe parti politiche si associavano le diffidenze e i sospetti di altre parti. Ma la nuova Comunità cominciò a produrre i suoi effetti, nel campo dell’economia, degli scambi commerciali, del lavoro, dei processi lavorativi e, ovviamente, della stessa formazione professionale. Se nei diversi Stati membri i processi dell’istruzione cosiddetta “generalista” procedevano secondo le necessità civiche e culturali interne ai singoli Stati, la formazione professionale, invece, doveva fare i conti con quelle tecnologie che anno dopo anno investivano i processi lavorativi indipendentemente dai confini nazionali. E la classe operaia poneva le sue rivendicazioni economiche, professionali e culturali su basi che cominciavano a travalicare i confini nazionali. Per tutti gli anni Sessanta i gli operai italiani,francesi, della Germania federale e del Benelux, lavorarono di conserva a implementare i loro profili professionali. E la Cee fungeva da grande richiamo. In seguito, a partire dal 1973, con l’ingresso del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, la Cee comincia ad ampliare i suoi orizzonti e i suoi assetti cooperativi.

Fu così che tutta la formazione professionale cominciò a uscire dal ghetto in cui era stata relegata per decenni. Si era sempre trattato di una formazione di second’ordine – non a caso si era sempre parlato addirittura di puro addestramento professionale – nella quale si formava l’operatore per ciò che avrebbe dovuto eseguire nel processo lavorativo, indipendentemente da una visione complessiva attinente ad aspetti culturali e civili di ampio spettro. Da sempre i “padroni” assumevano mani sicure e teste non troppo pensanti. Ma le cose stavano rapidamente cambiando. Anche nel nostro Paese in quegli anni l’attenzione al lavoro operaio e all’intera formazione professionale compie un enorme passo avanti. Per merito delle lotte operaie, ovviamente! Nella legge quadro 845 del 1978, relativa al riordino dell’intero sistema professionale regionale, all’articolo 1 non scrivemmo soltanto che “la formazione professionale è strumento della politica attiva del lavoro, si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e tende a favorire l’occupazione, la produzione e l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro”, ma anche che “la Repubblica promuove la formazione e l’elevazione professionale al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro ed alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità dei lavoratori attraverso l’acquisizione di una cultura professionale”. Analoghe attenzioni normative riguardarono in quegli anni anche gli altri Paesi della Cee. E non a caso nel 1975 viene istituito il Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale: si tratta dell’agenzia europea incaricata di promuovere e sviluppare l’istruzione e la formazione professionale in tutti i Paesi della Cee e oggi, dell’Unione europea.

Tutto sembrava procedere per il meglio I risultati ottenuti dalla Cee erano molto interessanti, non solo in termini di complessivo sviluppo economico dei Paesi membri, ma anche in termini di continue nuove adesioni. Nel 1981 entra nella Cee la Grecia; nel 1986 entrano la Spagna e il Portogallo. Il progressivo consolidamento della Cee riceve ormai riconoscimenti da ogni parte politica. Lo stesso Partito comunista, da sempre non tenero nei confronti delle iniziative politiche della Comunità, sotto la direzione di Enrico Berlinguer, fin dal 1976 aveva dichiarato di guardare con favore al Patto atlantico, a quella Nato, come garanzia di sicurezza e di pace per tutti gli Stati europei, contro la quale, invece, si era battuto con estremo vigore fin dalla sua costituzione, nel lontano 1949. Quindi la stessa Cee non viene più vista come l’organizzazione del capitalismo dell’Europa dell’Ovest. Anche perché i risultati, in termini di aumentata circolazione delle merci e di aumentato benessere sono più che evidenti.

Ed è proprio da questi successi – reali senz’altro ma quanto duraturi è difficile a dirsi – che insorge l’idea di giungere ad una costituzione più solida, che superi l’ambito della pura “economia” e investa quello ben più ampio della “politica” a tutto tondo. Si ravvisa che è giunto il momento di passare da una semplice Comunità ad una vera e propria Unione. I sogni dei grandi europeisti, da Mazzini a Spaak, sono quindi realizzabili! Si avvia così quel processo che conduce al Trattato di Maastricht con cui nel febbraio del ’92 i dodici Paesi della Cee danno vita all’Unione europea. L’ambizione è tanta! Ormai si affrontano tutti i settori della vita di un Paese. L’istruzione generalista costituisce un punto di grande attenzione e si avvia un processo finalizzato a realizzare una vera e propria Dimensione Europea dell’Educazione. Non è un caso che nel 2000 il Consiglio Europeo si propone l’ambizioso obiettivo di trasformare l’Unione nell’“economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”.

E in politica si auspica che occorra giungere a una vera e propria Costituzione. In questa prospettiva si pensa anche ad una moneta unica! Lo Stato federale che deve coniarla ancora non c’è, ma è solo questione di qualche mese… questo avranno pensato i politici dell’Ue? Mah! Comunque al Campidoglio in Roma nel 2004 viene firmata con il massimo della solennità la nuova Carta costituzionale dell’Unione europea. Un documento lungo, complesso, circa 500 articoli, di non facile lettura. Ma… i conti senza l’oste! Quando la Carta deve compiere tutti i passaggi attraverso i 12 Paesi, emergono tutti gli intoppi del caso. Non sto a riassumere tutti gli aspetti della vicenda! Resta il fatto che dalla Costituzione si deve ripiegare ad un più semplice Trattato. Che viene firmato a Lisbona nel 2007. In soli tre anni il grande sogno è svanito! Quali i motivi di questo disastroso arretramento? Non sono in grado di analizzarli! Resta comunque il fatto che abbiamo compiuto il passo più lungo della gamba! Abbiamo lanciato al cielo un pallone che è scoppiato prima del tempo! E ora ci ritroviamo con un‘Europa che non c’è e non si sa che fine farà – tante sono le tensioni nazionalistiche emergenti – e con una Cee che non c’è più! Con una moneta ingovernabile, con un mercato impazzito e con le banche che fanno il buono e il cattivo tempo! Altro che sovranità popolare!

Che ne sarà dell’Europa di Mazzini, di Spinelli, di Schuman? Dell’Europa che abbiamo sognato? Viene da chiedersi: non era meglio la Cee?

La prevenzione dell’omofobia e il sottosegretario che rema contro

da L’Espresso

La prevenzione dell’omofobia e il sottosegretario che rema contro

La Presidenza del Consiglio ha varato da tempo una serie di iniziative scolastiche sul tema dell’omosessualità. Ma ora l’alfaniano Toccafondi, approdato all’Istruzione, parla di “indottinamento Lgbt”. E vuole cambiare rotta

di Michele Sasso

La sitcom ‘Vicini’, voluta a suo tempo dal governo Monti, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il progetto, finanziato dall’Ufficio anti discriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio (Unar) racconta in cinque episodi i diversi pregiudizi della società italiana e su iniziativa di Palazzo Chigi viene diffuso nelle scuole. In una delle puntate si affronta anche il tema dell’omosessualità. Tanto è bastato per far gridare allo scandalo il sottosegretario all’Istruzione del Nuovo centrodestra Gabriele Toccafondi: «L’Unar produce materiale per gli studenti e gli insegnanti con un’impronta culturale a senso unico. A questo punto il governo deve decidersi a intervenire chiarendo, una volta per tutte, ruolo e funzioni dell’Unar»».

Insomma, per i conservatori al Governo parlare di differenze sessuali in classe è fuori luogo, eppure l’Italia è al 36mo posto in Europa tra i Paesi per tasso di discriminazione. E troppo onerose sono considerate le consulenze da 250mila euro per realtà legate alle comunità Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender) per diffondere la cultura della tolleranza. Sotto tiro anche gli opuscoli ideati dall’Istituto di psicoterapia Beck per “Edu­care alla diversità a scuola”, costati oltre 24 mila euro.

La battaglia dei difensori della famiglia tradizionale ha spinto il mondo cattolico più intransigente a prendere posizione contro la visita di Vladimir Luxuria al liceo Muratori di Modena. L’incontro sul tema della transessualità organizzato dagli studenti con la ex deputata e bandiera della comunità arcobaleno era prevista per metà marzo, ma un gruppo di cinquanta genitori ha scritto una lettera ai dirigenti scolastici facendo scoppiare il caso. La loro paura? Che potessero rimanere sconvolti o traumatizzati incontrando una transgender che parla dei diritti della comunità Lgbt senza contraddittorio, fino a portarli a riconsiderare alcune convinzioni assorbi«Un’offensiva per introdurre la teoria del gender nelle scuole italiane» viene descritta dal settimanale ultracattolico ‘Tempi’che soffia sul fuoco delle proteste. Così mentre l’Unar lavora con il Consiglio d’Europa per mettere a punto una strategia nazionale con azioni pilota (come nel caso della sitcom ‘Vicini’) che puntino alla prevenzione e al contrasto dell’omofobia, il sottosegretario alfaniano rema contro. Il direttore Unar Marco De Giorgi preferisce non replicare. Sono le associazioni per i diritti civili a sollevare il caso e a rivolgersi al premier Matteo Renzi:«Il Governo sostiene la posizione di Toccafondi?».

«È in atto in questo periodo un attacco concentrico da parte dell’associazionismo cattolico contro la “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”, varata dal governo Monti», commenta Aurelio Mancuso, presidente della onlus Equality Italia, che chiede inoltre al Governo quali siano «le vere intenzioni del ministero dell’Istruzione”. Proprio in questi giorni, puntualizza Mancuso “sono stati rinviati corsi di formazioni previsti da tempo con motivazioni labili. Indice di un preoccupante mutamento della linea politica sui temi delle discriminazioni». Anche Andrea Maccarrone, presidente del Circolo Mario Mieli di Roma punzecchia il sottosegretario: «Le istituzioni e gli insegnanti hanno il diritto e il dovere di proporre contenuti e offerte educative che promuovano i valori della legalità e del rispetto delle differenze, il contrasto alle discriminazioni e alla violenza. E questo non lede in alcun modo la libertà dei genitori o degli studenti».

Maccarrone chiede che a Toccafondi vengano immediatamente ritirate le deleghe per inadeguatezza rispetto al delicato ruolo istituzionale che ricopre. Lui, l’alfaniano fiorentino sopravvissuto al cambio Letta-Renzi, non cambia di una virgola la sua posizione: «Ho sempre tenuto a sottolineare con forza l’imperativo di contrastare con ogni mezzo qualunque tipo di discriminazione. Un conto, però, è lavorare contro le diseguaglianze, un conto è nascondersi dietro questi temi per introdurre nelle scuole una sorta di indottrinamento Lgbt, in cui si presentano posizioni unilaterali sulla famiglia e la sessualità senza informare il ministero dell’Istruzione».

Gli studenti italiani saranno ancora liberi di discutere di bullismo e omofobia senza l’obbligo del contraddittorio e l’imprimatur del Miur?te in famiglia.

«Dovete pagare»: quei contributi volontari che la scuola esige

da Corriere.it

IL CASO

«Dovete pagare»: quei contributi volontari che la scuola esige

Da 60 a 200 euro a famiglia. Una situazione inaccettabile, secondo il Miur, tanto da far intervenire anche il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini

di Leonard Berberi lberberi@corriere.it

L’ultima circolare lo scriveva chiaro il 7 marzo del 2013. E non cambiava, di una virgola, quello che aveva già sostenuto l’anno prima. «I contributi scolastici sono volontari». E ancora: «Nessun istituto può subordinare l’iscrizione degli alunni al preventivo versamento del contributo». Se succede questo «non solo è illegittimo, ma si configura come una grave violazione dei propri doveri d’ufficio». Più esplicito, non si può.  E invece, le cose non stanno proprio così. Decine di istituti scolastici — non tutti — continuano a fare finta di nulla. A volte cambiano il nome del «contributo», ma non la sostanza. In alcuni casi avvertono, usano toni da ultimatum, inviano comunicazioni in cui ricordano che bisogna pagare anche gli arretrati.

Da 60 a 200 euro a famiglia

Dai siti specializzati come Skuola.net agli Uffici scolastici regionali continuano ad arrivare decine di segnalazioni. Che costano, alle famiglie, almeno 60 euro. In alcuni casi superano i 200. Una situazione inaccettabile, secondo il Miur, tanto da far intervenire anche il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. «Mettere la scuola al centro per il governo significa non solo restaurare muri e ridipingere pareti, come stiamo facendo, ma anche tornare a investire per migliorare la qualità dell’insegnamento e dell’offerta formativa, cosa che ci siamo impegnati a fare», spiega al Corriere il ministro. «A maggior ragione non è possibile obbligare le famiglie con metodi inappropriati a pagare contributi che per definizione sono volontari. Questo deve essere un principio inderogabile. I presidi lo sanno, ma se qualcuno non dovesse ricordarselo lo faremo noi con una nota che ribadirà questo concetto».

Dalle gite alle fotocopie

Complici i tagli degli ultimi anni, le scuole hanno sempre meno risorse a disposizione, soprattutto per organizzare attività extrascolastiche. E così, per trovare un po’ di soldi, si rivolgono ai genitori degli alunni iscritti. Soldi che, a dire il vero, qualche istituto — segnalano dal ministero — ha pensato bene di destinare in parte alle voci di spesa relative al funzionamento stesso della struttura, compresi i costi per le fotocopie, il materiale didattico. «Che dobbiamo fare? Dobbiamo pagare o no?», si chiedono mamma e papà. E intanto si improvvisano giuristi, cercano sul web documenti ufficiali e leggi. Scoprono che in materia di spese per la registrazione scolastica esiste ancora — «e resiste», conferma il Miur — un Regio decreto del 3 giugno 1924. Ma devono anche leggere comunicazioni di presidi «a volte sgradevoli».

«Dovete pagare»

Prendiamo, per esempio, una circolare di un liceo di Cuneo. Punti esclamativi inclusi. Scrive il dirigente: «Si ricorda che i contributi, se pure non obbligatori, sono richiesti perché indispensabili per il funzionamento dell’istituto». Quindi il suggerimento: «Per gli alunni, le cui famiglie non intendono versare i contributi vi sono due possibilità». La prima: «Pagare ogni volta la quota relativa al servizio, all’acquisto di cui usufruiscono (esempio: pagare ogni fotocopia, ogni ingresso nell’aula informatica). Strada di fatto non percorribile!». La seconda: «Usufruire di tutti gli strumenti, di tutti i servizi, perché gli altri alunni hanno pagato».

Non paghi? Niente laboratorio

Più a est, un liceo scientifico di Milano «invita» a pagare 150 euro quale «contributo spese di funzionamento». Una scuola superiore di Rapallo ricorda «ai genitori che non abbiano versato anche i contributi per gli scorsi anni di voler adempiere alle richieste». L’istituto di Pieve Santo Stefano (Arezzo) ricorda l’efficacia del Regio decreto e aggiunge che «se non viene saldato il contributo per l’acquisto del materiale di laboratorio l’alunno potrà solo assistere e non partecipare alle attività». Per arrivare a Mestre, dove i 120 euro (per chi si iscrive al secondo anno) e i 130 euro (per la registrazione alle classi 3°, 4° e 5°) servono, tra le altre cose, anche alla «parziale copertura delle spese di fotocopiatura».

Solo volontari

«Al netto di chi ha l’esonero per merito, motivi economici o appartenenza a speciali categorie», chiariscono dal ministero, «si devono pagare soltanto le tasse di iscrizione, frequenza, di esame e di diploma. Tutto quello che eccede questa cifra – vedi alla voce: contributi scolastici – «può essere chiesto ma è del tutto volontario». Tradotto: i genitori possono rifiutarsi di pagarlo. Soprattutto nella scuola dell’obbligo. Se qualche istituto non ha rispettato questa regola, continua il Miur, «può inviare le segnalazioni agli Uffici scolastici regionali che sono responsabili della vigilanza sulle scuole». Resta in piedi il famoso Regio decreto del 1924. Che però riguarda soltanto gli istituti tecnici, professionali e l’artistico. Quei contributi, chiamati «di laboratorio», si devono pagare.

Anief, primaria a 5 anni e obbligo fino a 18

da La Stampa

Anief, primaria a 5 anni e obbligo fino a 18

La proposta dopo aver preso visione degli ultimi dati sulla dispersione e dell’esercito di giovani che non studiano e non lavorano
roma

Anticipare la primaria quando gli alunni hanno ancora 5 anni anziché 6 ed estendere l’obbligo scolastico dagli attuali 16 fino ai 18 anni di età.

A proporlo è l’Anief (Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori) «dopo aver preso visione degli ultimi dati sulla dispersione e dell’esercito di giovani che non studiano e non lavorano: in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia i dati più allarmanti, con punte del 45% di studenti che non arrivano al diploma».

Per il sindacato «non c’è più tempo da perdere: si estenda l’istruzione a 13 anni e si apra all’alternanza scuola-lavoro. Così si agirebbe su quel 36% di giovani che oggi non si iscrivono ad un corso di laurea e non lavorano. Recuperando i 50mila 15enni che ogni anno lasciano i banchi proprio quando cade l’obbligo di frequenza. Per chiudere il cerchio urge poi una riforma dei centri d’impiego e di formazione adulti».

«Estendendo direttamente l’obbligo scolastico da 10 anni a 13 complessivi – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – si potrebbe agire su quel 36% di giovani che oggi decidono di non iscriversi ad un corso di laurea: più di 150mila ragazzi che ogni anno lo Stato dovrebbe preparare al meglio per il mondo del lavoro».

«C’è solo un modo per farlo: fargli frequentare, negli ultimi tre anni di scuola tra i 15 e i 18 anni di età, delle forme avanzate di alternanza scuola-lavoro – conclude – In tal modo, questi giovani si renderebbero più appetibili alle aziende, riducendo anche del 40% la possibilità che diventino disoccupati ed evitando che vadano ad ingrossare la già folta categoria dei Neet. E il Miur non ci venga a dire che si tratterebbe di un’operazione in controtendenza’». In Europa infatti, fa notare Anief, l’obbligo formativo fino a 18 anni è già previsto in diversi paesi.

Bimbi nati prematuri più a rischio di problemi con la matematica

da La Stampa

Bimbi nati prematuri più a rischio di problemi con la matematica

Maggiore possibilità di andare incontro a discalculia
roma

I bimbi nati pretermine rischiano di avere problemi con la matematica. È quanto emerge da uno studio dell’Università di Warwick e della Ruhr-University Bochum pubblicato sulla rivista Journal of Pediatrics.

In particolare, spiegano gli studiosi che hanno esaminato 922 bambini tra i 7 e i 9 anni, ad avere problemi sono, tra i bimbi nati prima del tempo, quelli che alla nascita sono troppo piccoli per l’età gestazionale di riferimento. Per loro vi è una maggiore possibilità di andare incontro a un disturbo noto come discalculia, una vera e propria patologia caratterizzata da mancanza di abilità matematiche e di calcolo, mentre per tutti gli altri vi è un forte rischio, pur non in presenza di una malattia, di non sviluppare comunque a pieno le capacità analitiche e di calcolo.

In generale, si evidenzia infatti nello studio, essere prematuri predispone i bambini ad essere piuttosto deboli in matematica: quelli nati prima delle 32 settimane di gestazione hanno problemi con i calcoli nel 39,4% dei casi, rispetto al 14,9% di quelli nati con una gravidanza portata regolarmente a termine.

«Gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli di questo problema e aiutare i bimbi pretermine a sviluppare a pieno le capacità analitiche e di calcolo richieste per il raggiungimento degli obiettivi scolastici», spiega Julia Jaekel della Ruhr- University Bochum, tra le autrici della ricerca.

Rendimenti Invalsi top secret

da ItaliaOggi

Rendimenti Invalsi top secret

Giannini: la valutazione anche per premiare i docenti. Neanche il 30% degli istituti pubblica i risultati dei test. I presidi: trasparenza difficile

Alessandra Ricciardi

Neanche 3 scuole su 10 pubblicano on line i risultati dei propri ragazzi ai test Invalsi. Un dato che la dice lunga sulla possibilità di utilizzare in modo condiviso la valutazione esterna e nazionale, di cui oggi i test Invalsi sono il principale strumento, anche per la carriera dei docenti.

Il dossier «merito e stipendi» è tornato di grande attualità a viale Trastevere. É giunta «l’ora di valorizzare chi lavora meglio, altrimenti quel poco che c’è non solo non serve a migliorare la qualità complessiva ma neppure a valorizzare le singole persone», ha detto il ministro dell’istruzione, Stefania Giannini. Che ha avuto modo di spiegare: «La valutazione è utile se viene considerata come strumento di governo con l’introduzione di operazioni premiali e di penalizzazione altrimenti è solo un esercizio stilistico». L’obiettivo è chiaro, il percorso da affrontare impervio. E non solo perché il mondo sindacale, prima di parlare di premi, pretende quantomeno l’adeguamento della busta paga di tutti gli insegnanti al costo della vita, ma per una diffidenza molto più diffusa, e variamente motivata, contro il sistema di valutazione. Tanto che ad oggi meno del 30% degli istituti pubblica i risultati dei propri studenti ai test Invalsi (come emerge dalla tabella pubblicata in pagina), con punte di eccellenza nella provincia di Trento.

Una scarsa propensione alla pubblicità che Giorgio Rembado, presidente dell’Anp, l’associazione nazionale presidi, spiega con la scarsa diffusione della cultura della trasparenza. «É una difficoltà culturale, non si vogliono mettere in piazza le proprie debolezze», spiega Rembado, «non siamo nel mondo anglosassone, per cui le pagelle degli istituti sono tradizionalmente pubbliche». Predica prudenza, Rembado: «Sono convinto che a volte percorsi di riforma meno dirompenti dal punto di vista della comunicazione siano più efficaci sul piano dell’attuazione e dei contenuti».

I test Invalsi nel recente passato sono stati spesso contrastati dalla scuola proprio per il timore che i risultati fossero utilizzati per premiare e punire i prof. Tralasciando, è l’accusa, una serie di fattori che incidono sul rendimento degli studenti, come il contesto, la famiglia, le risorse aggiuntive di cui un istituto dispone. Un lavoro molto complesso,quello che si fa a scuola, in cui il ruolo del singolo docente è sì decisivo ma non esclusivo. E proprio per questo, ha ricordato di recente una ricerca della Fondazione Agnelli diretta da Andrea Gavosto, è difficilmente valutabile dall’esterno. Anzi, evidenzia la ricerca, legare la valutazione esterna della scuola ai premi ai docenti potrebbe essere addirittura controproducente.

Per i sindacati, che ricordano come lo stipendio dei docenti italiani è in media il più basso dei paesi traino dell’Unione europea, «differenziare i salari si può fare. Ma condividendo i processi e mettendo risorse aggiuntive. E avendo prima rinnovato il contratto di base», dicono all’unisono i responsabili di Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Snals e Gilda. Intanto, sulla Gazzetta Ufficiale di ieri è stata pubblicata la legge di conversione del decreto sugli incrementi stipendiali dei docenti e Ata. Proprio il ministro Giannini dovrà ora inviare all’Aran, l’agenzia governativa per la contrattazione nel pubblico impiego, la direttiva che consente di pagare gli scatti di stipendio per anzianità di servizio a tutti.

L’apprendistato perde lo studio

da ItaliaOggi

L’apprendistato perde lo studio

Il ministro del lavoro Poletti contro la disoccupazione punta sulla semplificazione. Salta l’obbligo di formazione pubblica, è discrezionale

Giovanni Scancarello

L’apprendistato è stato commissariato. L’istituto, pensato per innestare l’occupazione sulla formazione, è stato semplificato soprattutto nella parte che riguarda la formazione e l’inquadramento degli apprendisti in organico. Semplificazioni che dovrebbero servire come arma contro l’emergenza occupazione.

Il decreto legge n.104/2014, in gazzetta ufficiale dal 20 marzo scorso, libera le mani al datore di lavoro che potrà ricorrere all’apprendistato senza più gli obblighi formativi e di assunzione che lo hanno vincolato in passato nella stipula di contratti. La semplificazione è rivolta a favorire il ricorso all’apprendistato che negli ultimi tempi aveva cominciato ad arrancare. Il provvedimento a firma del ministro del lavoro Giuliano Poletti intende caricare invece a molla l’apprendistato per farlo diventare il driver per il primo accesso soprattutto dei più giovani nel mondo del lavoro. Ma restano i dubbi per una tenuta della riforma in Europa.

I dati in calo. Già nel 2011 l’apprendistato registra una flessione del 6,9% rispetto all’anno precedente. Il trend negativo inizia dopo il 2008, con i contratti di apprendistato che nelle aziende artigiane passa dal 32,1% nel 2009 al 31,7% nel 2011. Soprattutto i lavoratori più giovani quelli che hanno pagato maggiormente la crisi dell’apprendistato: dal 2009 al 2011 i contratti di qualifica e diploma professionale diminuiscono del 36,2%. Oggi solo il 10% dei lavoratori entra con contratto di apprendistato, mentre il 68% accede al primo impiego con contratto a termine. Di fronte ai dati disastrosi sull’occupazione (il 12,9% degli italiani è disoccupato, un giovane su due a casa al Sud, il 22,4% di 15-24enni è neet, a Poletti è stato chiesto di agire da commissario straordinario.

Via l’obbligo di formazione e assunzione. Il decreto 34 modifica il decreto legislativo n. 167/2011 intervenendo innanzitutto sull’art. 2 co. 1, espungendo l’obbligo della forma scritta del piano formativo individuale. Resta solo la forma scritta del contratto e del patto di prova. Ciò dovrebbe semplificare, almeno nelle intenzioni del governo, il ricorso dell’apprendistato da parte delle imprese, calmierando il rischio di contenzioso, che ha visto spesso soccombere i datori di lavoro . Abrogando i commi 3 bis e 3 ter dell’art. 2 del Dlvo 167, il decreto Poletti rende anche più facile assumere apprendisti. Mentre prima il datore non poteva stipulare nuovi contratti di apprendistato, se nei tre anni precedenti non avesse assunto almeno il 30% dei suoi apprendisti, adesso non è più necessario soddisfare tale requisito, in precedenza al 50%

Altra novità, la retribuzione. Verrà retribuito solo il 35% delle ore di formazione. È quanto previsto dal decreto quando parla dell’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale. «Fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, in considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonchè delle ore di formazione nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo». Diventa discrezionale, infine, l’obbligo della formazione pubblica delle regioni nella formazione trasversale degli apprendisti.

Questioni aperte. L’istituto continuerà a produrre i suoi effetti sugli sgravi fiscali riconosciuti ai datori di lavoro. Gli scettici temono che possa finire come è stato per il contratto di formazione lavoro, per cui l’Italia, nel 2011, venne condannata dalla Corte di Giustizia europea a pagare 80 milioni di euro per gli aiuti di Stato concessi alle imprese, attraverso la mancata riscossione degli sgravi da esse goduti nella stipula di contratti di formazione. Come spiegato nel 2010 (sentenza n. 19834)dalla Cassazione, c’è bisogno che il contratto di apprendistato abbia un effettivo contenuto formativo in forza della subordinazione delle agevolazioni contributive, non solo in conseguenza dell’obbligo di formazione in capo al datore di lavoro, ma anche alla partecipazione a iniziative di formazione esterne previste dai contratti collettivi nazionali. Ci si chiede se l’elemento della discrezionalità sull’attivazione delle misure per la formazione potrà bastare

Quota96.Dietro il no ragioni di bilancio, e non solo Ma così la scuola italiana continua a invecchiare

da ItaliaOggi

Quota96.Dietro il no ragioni di bilancio, e non solo Ma così la scuola italiana continua a invecchiare

di Manuela Ghizzoni* *deputato Pd, vicepresidente della VII commissione – camera

Il personale della scuola italiana è il più maturo d’Europa, con la percentuale più alta di insegnanti ultracinquantenni e quella più bassa di under trenta. Occorre riflettere sull’invecchiamento di docenti e di personale Ata. Infatti, se è vero che possono contare su un’esperienza professionale ragguardevole, hanno sempre più difficoltà a stare al passo con il dinamismo della comunità scolastica e ad affrontarne le sfide: dall’inclusione dei ragazzi con disabilità a quella degli alunni non italofoni, dall’innovazione didattica alle esigenze dei nativi digitali, dall’apprendimento informale all’insegnamento per competenze.

Pertanto, chi può lascia e, contrariamente al passato, presenta domanda di pensionamento appena raggiunti i necessari requisiti.

Magari lo fa con rammarico, ma consapevole che a raccogliere il testimone ci saranno giovani motivati e preparati a sostenere le nuove prove della scuola. Un avvicendamento indispensabile e più urgente rispetto a qualsiasi altro settore del pubblico impiego, per ridurre la distanza anagrafica e generazionale tra docente e discente.

Ma non tutti possono lasciare: per un «errore» contenuto nella riforma Fornero – scattata il 1 gennaio 2012 – 4000 tra docenti e Ata sono rimasti impigliati nella rete delle nuove norme e il loro pensionamento, previsto per il 1 settembre 2012, è stato procrastinato di anni, in alcuni casi fino a sette. E alla porta restano 4000 giovani in attesa.

Un errore dovuto al mancato riconoscimento della specificità della scuola, riferita al fatto che i lavoratori della scuola, per le giuste esigenze di funzionalità e di continuità didattica, possono andare in pensione un solo giorno all’anno, il 1° settembre, indipendentemente dalla data di maturazione dei requisiti. Unico settore della pubblica amministrazione in cui vige tale norma. Dal gennaio 2012, sono state promosse diverse iniziative parlamentari al fine di tener conto di questa specificità, ma nessuno dei tre governi coinvolti fino ad ora è stato in grado di garantire giustizia.

Attualmente è in discussione presso la Commissione Lavoro una proposta di legge – a prima firma della scrivente, confluita nel testo base della relatrice, Antonella Incerti, sottoscritto da tutti i gruppi – che prevede che i requisiti per il pensionamento previgenti alla riforma Fornero continuino ad applicarsi ai lavoratori della scuola che li abbiano maturati entro l’anno scolastico 2011/2012. A questo proposito, presso la Commissione Bilancio, entro domani si discuterà una risoluzione – anch’essa unanime – che impegna il Governo a reperire le necessarie risorse (35 milioni per il 2014 e 100 a regime), dopo che anche l’ultima copertura ipotizzata è stata bocciata.

L’aspettativa sull’esito di questo dibattito è alta, e non solo perché attesa da oltre due anni, ma perché si registra una condivisione altissima da parte dei gruppi parlamentari frustrata dalle «ragioni di bilancio». Anche se, a bene vedere, nelle motivazioni tecniche sulle precedenti bocciature pesano valutazioni politiche, più o meno espresse: dalla mancata volontà di intervenire in favore di lavoratori attivi rispetto agli esodati – per i quali ci battiamo con la stessa intensità – alla preoccupazione di mettere mano alla riforma Fornero (sebbene l’impianto non ne venga neppure scalfito) e alla apprensione per le critiche che potrebbero giungere dagli altri lavoratori del comparto pa. Ma la scuola ha la sua specificità, che andrebbe finalmente riconosciuta: speriamo sia #lavoltabuona.

Corsi di recupero, arrangiatevi

da ItaliaOggi

Corsi di recupero, arrangiatevi

Fioccano le richieste di contributi alle famiglie. Metà delle scuole non organizza le attività. Fondi ridotti all’osso, per il Mof da 1,4 mld a 481 mln

Emanuela Micucci

Obbligatori per le scuole, non per gli studenti. I corsi di recupero gratuiti, entrati nel vivo a marzo, stanno diventando un salasso. Tanto che alcuni istituti li fanno pagare, trasformandoli in una lezione privata. Colpa del fondo d’istituto ridosso all’osso. Altre scuole li annullano per l’assenza di frequentanti.

Come, dal 13 marzo, l’Itis Dorso di Avellino dove i corsisti di italiano e matematica erano scesi sotto la soglia di 1/3. Le superiori hanno l’obbligo di attivare i corsi, ma nella loro autonomia decidono discipline o aree disciplinari, modalità di svolgimento del recupero, numero di studenti, tipo di verifica, criteri di valutazione dell’alunno. Per gli studenti, infine, la normativa afferma che sono «tenuti alla frequenza» dei corsi, ma anche che i genitori possono decidere se avvalersene pur restando l’obbligo delle verifiche. I corsi non possono durare meno di 15 ore «di massima» (così l’ordinanza ministeriale 92/2007) per gli interventi di recupero strutturati in orario aggiuntivo. Per le altre attività di recupero si può ricorrere alla quota del 20% dell’autonomia scolastica o allo studio personale dello studente anche assistito da qualche ora di sportello. A svolgere i corsi possono essere sia gli insegnati della scuola sia collaboratori esterni, esclusi gli enti profit. Il compenso per i docenti è 50 euro per ore aggiuntive finalizzate ai corsi di recupero (tab. 5 del contratto collettivo nazionale del 2007). Gli esperti esterni, se non provengono dal comparto scuola, sono destinatari di contratti di prestazione d’opera (art. 40 del dm 44/2001). Le risorse finanziarie utilizzate per il recupero sono quelle del fondo per il miglioramento dell’offerta formativa, ma le regioni dell’obiettivo convergenza possono avvalersi anche dei Pon. Fondi per il recupero che sono stati falcidiati a seguito dei tagli pesanti sul Mof, il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa che nel 2011 contava su 1480 milioni di euro, nel 2013 ridotti a poco più di un terzo: 481 milioni di euro.

Così, un sondaggio di Skuola.net registra scuole in cui di 3 corsi uno solo è in piedi. E il 50% degli studenti non può avvalersi del corso. Dell’altra metà appena il 15% può contare su corsi in tutte le materie. Il 35% frequenta scuola in cui il recupero riguarda solo le discipline principali. Eppure, non gli studenti con debito sono quasi la metà. Di questi 1 su 3 ha l’insufficienza in più materie.

Le scuole si arrangiano. C’è chi ricorre al contributo volontario delle famiglie. Chi organizza corsi tra studenti, con il primo della classe in veste di tutor. E chi fa pagare il corso pomeridiano di recupero, come il Fermi di Cosenza dove un’ora costa 7-8 euro: una situazione che riguarderebbe 1 alunno su 10. L’art. 88 del contratto collettivo nazionale del2007 stabilisce che i corsi di recupero sono quelli per gli alunni con debito formativo, che esiste solo alle superiori. Quindi i 50 euro spettano solo alle superiori e solo per il recupero dei debiti (d.m. 80/2007 e o.d. 92/2007).

Le iniziative di sostegno di studenti in difficoltà d’apprendimento attraverso sportelli didattici, percorsi di studio assistito o simili alle medie ma anche alle superiori sono «attività aggiuntive di insegnamento», quindi fuori dalla norma sui corsi di recupero e sono pagate 35 euro l’ora. Alle superiori, se i corsi sono svolti oltre l’orario settimanale d’insegnamento, il recupero è attività supplementare, volontaria e retribuita 50 euro a carico del fondo d’istituto. Se invece sono svolti durante l’orario settimanale di insegnamento, rientrano nella normale attività didattica senza dare diritto a retribuzione aggiuntiva. Per questo motivo non si effettua pagamento se i corsi di recupero sono organizzati utilizzando la quota del 20% del monte ore curricolare.

Istanze on line: errori di sistema S0018, N1000 e S1001

da Tecnica della Scuola

Istanze on line: errori di sistema S0018, N1000 e S1001
di Aldo Domenico Ficara
Da qualche giorno a questa parte è tempo di compilazione per domande di trasferimento e per passaggi di cattedra. Per eseguire queste operazioni i docenti sono costretti a navigare sul portale Istanze on line, dove alcuni di loro sono incappati in spiacevoli inconvenienti di linea e di server, che impedivano l’innoltro delle domande
Su alcuni forum nati per affrontare tali difficoltà si possono leggere frasi di questo tipo: “ Avevo la domanda di trasferimento in bozza e quando sono andata a cliccare su vai alla compilazione nei trasferimenti, da ieri mi esce: Operazione momentaneamente non disponibile – nel comunicare l’errore all’assistenza indicare nella descrizione dell’anomalia oltre ai dati richiesti anche il seguente codice : N1000 “ e ancora “Quando cerco di accedere alla compilazione della domanda di trasferimento sul sito istanze on line mi compare nello schermo errore S0018. Cerco di accedere anche io e mi esce  errore S1001”. Si ricorda che il progetto POLIS (Presentazione On Line delle IStanze) ha come obiettivo lo snellimento dei procedimenti amministrativi. Esso è basato sul Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), che sancisce il diritto da parte dei cittadini ad interagire con la Pubblica Amministrazione, utilizzando gli strumenti offerti dalle tecnologie ICT in alternativa alle modalità tradizionali basate su moduli cartacei. In particolare tale normativa cita, tra le alternative atte a garantire in modo sicuro l’accesso ai servizi in rete delle pubbliche amministrazioni, quella che prevede l’uso di normali credenziali di accesso come codice utente e password, a condizione che le stesse consentano di accertare l’identità del soggetto richiedente i servizi. Però quando ci si trova a interagire con gli errori di sistema S0018, N1000 e S1001 nascono seri dubbi sul possibile raggiungimento dell’obiettivo riguardante lo snellimento dei procedimenti amministrativi.

Il decreto sugli scatti diventa legge n. 41

da Tecnica della Scuola

Il decreto sugli scatti diventa legge n. 41
di Reginaldo Palermo
E’ stata pubblicata nella G.U. del 24 marzo ed entra in vigore il 25. Adesso non ci sono più motivi per aspettare ancora: nei prossimi giorni dovrà prendere avvio la contrattazione fra Aran e sindacati per chiudere la vicenda.
Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24  marzo il testo della legge n. 41 che recepisce, con modifiche, il decreto n. 3 del 23 gennaio scorso in materia di disposizioni temporanee e urgenti in materia di proroga degli automatismi stipendiali del personale della scuola, Il provvedimento di legge, come è ormai noto, dà soluzione alle difficoltà intervenute dopo l’entrata in vigore del DL 122 (il cosiddetto “decreto D’Alia”) che aveva prorogato di un anno il blocco della progressione di carriera legata all’anzianità di servizio previsto dal “vecchio” decreto 78 del 2010. In sede di conversione in legge il decreto ha subito una importante modifica in quanto è stato inserito un comma che impedisce il recupero delle somme erogate al personale Ata destinatario delle cosiddette “posizioni economiche”. La copertura finanziaria per questa disposizione normativa arriva da un taglio di quasi 39milioni di euro al fondo per il funzionamento amministrativo e didattico delle scuole che è ormai ridotto a poca cosa e che lo sarà ancora di più quando il Parlamento approverà il decreto sugli appalti di pulizia (anche in questo caso è previsto un taglio di circa 20milioni di euro). La legge 41 entra in vigore subito e cioè il 25 marzo. A questo punto il Governo dovrà necessariamente trasmettere all’Aran l’atto di indirizzo per l’avvio della contrattazione nazionale, prevista dalla legge stessa, finalizzata alla conclusione definitiva della vicenda; per il riconoscimento degli aumenti stipendiali è infatti indispensabile reperire ulteriori risorse: Aran e sindacati dovranno quindi trovare un accordo per ridurre gli stanziamenti del fondo di istituto (FIS e MOF). Accordo che dovrà essere necessariamente concluso entro il 30 giugno, in caso contrario i 120milioni di euro messi a disposizione dalla legge 41 rientrerebbero nella piena disponibilità delle casse del Stato. Vedremo nei prossimi giorni quali saranno gli sviluppi della vicenda.

La ruota della fortuna e i perdenti posto

da Tecnica della Scuola

La ruota della fortuna e i perdenti posto
di Lucio Ficara
Il meccanismo attuale è paradossale: con 100 punti si può perdere il posto nella scuola X ma mantenerlo senza problemi nella scuola vicina. La soluzione potrebbe essere quella dell’organico funzionale di rete.
Cosa c’entra la sfortuna o la fortuna con il risultare soprannumerario in una scuola e di conseguenza perdere il posto, piuttosto che conservare la propria titolarità? Bisogna dire che la sfortuna o la fortuna in questi casi c’entrano eccome! Infatti  trovarsi in soprannumero in una data classe di concorso, magari con un considerevole punteggio, potrebbe essere anche una questione di sfortuna legata a situazioni di organici e di norme contrattuali sulla mobilità; allo stesso modo si può considerare fortunato chi, pur con un punteggio non rilevante, mantiene la propria titolarità. Facciamo un’ipotesi concreta per comprendere quanto su scritto. Se ad esempio un docente della classe di concorso A051 (Italiano e latino), titolare in un liceo scientifico e con 120 punti nelle graduatorie interne d’Istituto per l’individuazione dei docenti soprannumerari, si dovesse trovare perdente posto a causa di una evidente contrazione oraria nell’organico di diritto e di un calo delle iscrizioni della propria scuola di titolarità, è da considerarsi sfortunato, mentre in un altro liceo scientifico della stessa città, dove non si registra alcun diminuzione delle cattedre nell’organico di diritto, un’altra docente titolare nella stessa classe di concorso ma con appena 80 punti nelle graduatorie interne d’Istituto, non perde la sua titolarità. Quindi due docenti titolari nello stesso Comune e appartenenti alla stessa classe di concorso, potrebbero perdere o mantenere la titolarità a prescindere dal loro punteggio, ma a causa di situazioni legate a variabili aleatorie che non sono certamente ponderabili. Quindi in alcuni casi, come quello appena descritto, si può dire che perdere il posto è una questione di sfortuna o mantenere la titolarità è invece un caso di fortuna. In buona sostanza possiamo affermare che l’andare in soprannumero o evitare questa condizione è legato alla ruota della fortuna, che ci ha destinati nella scuola dove gli organici si mantengono piuttosto che in quella dove si determina una contrazione oraria. Come si potrebbe ovviare a questa che è considerata da tanti insegnanti un’evidente anomalia? La risposta è semplice: bisognerebbe passare ad un organico funzionale di rete di scuole o nel caso in cui è possibile di Comune. Se così fosse, non sarebbero più le scuole singole a fare l’organico delle cattedre, ma si adotterebbe, secondo le esigenze delle reti di scuole, un organico funzionale all’intera rete. Quindi in un organico di questo tipo, i docenti che saranno individuati soprannumerari, non saranno individuati più da semplici graduatorie d’istituto, ma bensì da graduatorie di rete. Per capire come potrebbe funzionare, faccio un esempio: immaginiamo che in un dato comune ci siano un Liceo Scientifico, un Liceo Classico e un Liceo delle Scienze umane, tra queste scuole verrà creata una rete scolastica. Poiché molte classi di concorso sono comuni in queste scuole, verrà stilata un’unica graduatoria di rete da cui individuare il perdente posto. Il perdente posto sarà colui che non troverà più cattedra o residui di ore nella rete di appartenenza. In questo modo non potrebbe accadere che, come nell’esempio fatto dei due docenti di A051 (Italiano e latino) titolari in due licei scientifici della stessa città, a perdere il posto possa essere quello con il punteggio maggiore. I sindacati scuola più rappresentativi sono pienamente d’accordo nel considerare l’opportunità di sostenere organici di rete, nel modello sopra esposto, chissà cosa ne pensa il ministro Giannini, che con i sindacati non si è ancora degnato di parlare.