Disabilità, la denuncia: nessun aiuto per chi vuole diventare imprenditore

Disabilità, la denuncia: nessun aiuto per chi vuole diventare imprenditore
Il caso di Virginia, 20 anni, segnalato da Autismo Abruzzo. La ragazza autistica, con la famiglia e l’associazione, sta provando ad avviare un’attività di commercio elettronico. Ma prima ancora di aver iniziato, deve 885 euro di contributi all’Inps. L’associazione ha scritto al ministro per chiedere l’esonero, ma non l’ha ottenuto

da Redattore sociale
23 marzo 2016

ROMA – Virginia ha 20 anni e un disturbo dello spettro autistico. Sta provando, sostenuta dai suoi familiari e dell’associazione Autismo Abruzzo, ad avviare un’attività lavorativa “in proprio”, una sorta di e-shop, che potrebbe gestire senza troppe difficoltà, naturalmente con il supporto necessario. Ma l’impresa sembra davvero impossibile: prima ancora che abbia incassato un euro, l’Inps già gliene chiede oltre 800 di contributi: 885, per l’esattezza. Ed è sola la prima di 4 rate. In un anno, la sua attività, indipendentemente da quanto frutterà, le costerà oltre 3.500 euro di burocrazia.

L’associazione che la sostiene, di cui è presidente suo papà, Dario Verzulli, non ci sta: trova che sia un’ingiustizia, un impedimento che davvero si potrebbe evitare, un ostacolo ingiustificabile che si potrebbe rimuovere. E le sue ragioni le spiega direttamente al ministro del Lavoro, in una nota inviata un anno fa, in cui chiede che i lavoratori disabili autonomi siano semplicemente “sgravati” di questa spesa. E agevolati, in un certo senso, proprio come accade per i datori di lavoro quando assumono un lavoratore con disabilità. “Ritengo opportuno segnalarle una anomalia importante del sistema previdenziale, per la quale i referenti locali e regionali non hanno saputo fornire risposta – scriveva Verzulli al presidente Mattarella e al ministro Poletti – Virginia Verzulli è una ragazza autistica di 20 anni e nonostante le sue difficoltà la sua vita scorre serena tra le attività scolastiche e quelle riabilitative a carico del sistema sanitario regionale. Le marcate difficoltà di Virginia che deve essere assistita 24h al giorno non ci hanno fermato e dopo aver ottenuto la nomina di ‘amministratori di sostegno’ dal Giudice tutelare a favore di entrambi i genitori, sono stati necessari oltre 6 mesi per convincere la locale sede della Camera di Commercio ad accogliere la richiesta di iscrizione al registro imprese da parte di nostra figlia”. L’idea era quella di avviare una piccola attività di commercio elettronico, in cui Virginia potesse impegnarsi, con il sostegno dei familiari e dell’associazione.

“Pur consapevoli delle difficoltà di gestione degli oneri derivanti, abbiamo avviato il tutto fiduciosi che la natura particolare di nostra figlia potesse essere in qualche modo tutelata e quantomeno parificata ai disabili lavoratori dipendenti – riferisce Verzulli – Per i lavoratori disabili dipendenti vengono riconosciuti ai datori di lavoro agevolazioni e sgravi importanti inesistenti per il lavoratori autonomi disabili. Le scrivo questa lettera oggi perché Virginia ha appena ricevuto dall’Inps la prima delle quattro rate di contributi Inps previsti per la sua attività. Complessivamente dovrà versare per una attività da avviare e per la quale non ha ancora emesso alcuna fattura la somma di 3.543,00€ (885,75 x 4 rate). Virginia continuerà a ricevere dall’Inps per tutta la sua vita una pensione di invalidità di 289 euro mensili che nell’arco di un anno le garantirà la cifra di 3.757 euro. Virginia alla battaglia di vita quotidiana dovrà aggiungere l’onere di pagarsi la propria pensione di invalidità per tutta la vita” Di qui la richiesta di “esonero dai contributi obbligatori per i lavoratori disabili autonomi, in modo da incentivare e agevolare la nascita di piccole attività autonome in grado di coinvolgere direttamente le persone con autismo”.

La risposta, però, si è fatta attendere oltre un anno. Ed è stato un “burocratico no”. Scrive per il ministro Poletti il direttore generale Tangorra: “Occorre evidenziare che gli incentivi alle assunzioni previsti dall’articolo 13 della legge 12 marzo 1999, n.68 sono concessi ai datori di lavoro privati che assumono persone con disabilità alle proprie dipendenze con contratto di lavoro subordinato. Viceversa, per l’avvio e lo svolgimento di attività lavorative autonome, la legge 5 febbraio 1992 n. 104 attribuisce alle regioni la possibilità di provvedere con proprie leggi a disciplinare le agevolazioni alle singole persone con disabilità. Inoltre – continua il ministro – incentivi in favore dell’autoimprenditorialità nei diversi settori della produzione di beni e incentivi in favore dell’autoimpiego sono disciplinati dal decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 185”.

Del tutto insoddisfatto Dario Verzulli: “Non abbiamo inviato una nota per un capriccio o per un pettegolezzo, non abbiamo richiesto tutele per diritti acquisiti o per privilegi. Volevamo solo comprendere la ratio di una norma che impone ad un lavoratore autonomo disabile il pagamento di oneri previdenziali obbligatori Inps pari a 295,25 euro al mese a fronte di una pensione di invalidità di 289 euro al mese. Avevamo proposto – aggiunge – l’esonero dai contributi obbligatori per i lavoratori disabili autonomi, in modo da incentivare e agevolare la nascita di piccole attività autonome in grado di coinvolgere direttamente le persone con autismo. Nessun costo aggiuntivo per il governo, solo una grande opportunità di lavoro per la disabilità mentale. Ci hanno risposto in burocratese e hanno evitato accuratamente di sfiorare i temi. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Troppo presi a tutelare propri interessi e proprie rendite. Magari un giorno scopriremo che i 295,25 euro che pagherà Virginia saranno destinati proprio a sostenere rendite e diritti acquisiti”. (cl)

IL MIUR RICONOSCA I DIRITTI DEL PERSONALE EDUCATIVO

IL MIUR RICONOSCA I DIRITTI DEL PERSONALE EDUCATIVO

“Il personale educativo ha gli stessi diritti dei colleghi della scuola primaria e, nonostante la normativa vigente in materia gli riconosca lo ‘status’ di docente e lo equipari in tutto e per tutto agli insegnanti del primo ciclo di istruzione, il Miur continua a discriminarlo con una umiliante disparità di trattamento”. A denunciarlo è la Gilda degli Insegnanti che segnala i numerosi casi di discriminazione subiti da questa categoria di docenti.

“Il personale educativo non può ancora, per esempio, accedere alla piattaforma Istanze on line per inserire eventuali titoli professionali conseguiti nel corso degli anni; non può inoltrare domanda di trasferimento telematicamente ma deve predisporre ed inoltrare domanda cartacea con il vincolo di indicare solamente tre province; non può iscriversi telematicamente ai corsi professionali riservati ai docenti e, se nominato animatore digitale dal collegio docenti non può nemmeno iscriversi ai relativi corsi di formazione appositamente predisposti dagli Usr. Inoltre – rileva la Gilda – al personale educativo è stato negato il bonus di 500 euro per la formazione che la normativa prevede sia obbligatoria anche per questa classe di concorso”.

“Lanciamo dunque un appello al Miur – conclude il sindacato – affinché i docenti di convitti ed educandati godano a tutti gli effetti dell’attenzione e dei diritti maturati e le loro legittime rivendicazioni vengano finalmente accolte”.

Gesù dovrebbe rifiutarsi di risorgere

Gesù dovrebbe rifiutarsi di risorgere

di Vincenzo Andraous

 

La Croce indica le tante tragedie che ci colgono impreparati, nelle catene delle addomesticazioni, delle abitudini stanche alle prigionie dell’anima.

 

Le bombe stanno ai chiodi inaccettabili, documentata incoffessabilità delle strategie più disumane, statistiche accantonate di chi cade, di chi muore, di chi sopravvive violentato.

Pasqua è riconciliazione, è riparazione, è offerta di riscatto nello stretto di ogni più remota possibilità, è slargo prospettico che non ci fa dimenticare quanto è avvenuto per il nostro delirio di onnipotenza e per la nostra ipocrita capacità di commiserazione.

Corpi dilaniati, violati, in nome della democrazia che veste i panni degli interessi, dei confini ad aprire e chiudere, priva di giustezza l’idea della pace nella guerra sbagliata di ieri, come in quella di oggi dal collare sgargiante.

Pasqua è spinta forte all’attenzione, è fermata che ci chiede senza riserve di credere in noi stessi, attraverso gli altri, quindi a quella Croce che ci parla di una fede che non ha sovrappeso di vecchiezza, né tempio di esperienze arroccate in posizione di difesa.

 

Ci sono guerre da fare, contendenti in campo da armare, bandiere e ingiustizie da dissimulare, nel sangue che scorre a fiumi, la dignità di un mondo rapinato di ogni più miserabile pietà. Quando i pezzi di carne all’intorno fanno scempio del coraggio rimasto per ogni passo ad accorciare le distanze, si odono le parole del reietto “ sono inchiodato al mio destino maledetto come a una croce, come nel Golgota di Gesù, nel suo corpo piagato e nella sua parola desolata: mio Dio, perché mi hai abbandonato……..

 

Quell’urlo taglia come un bisturi la rimanenza di ogni inutile terrorismo d’accatto.

 

Gli spari, le esplosioni, hanno tolto passato, presente e futuro a ogni uomo, donna, bambino, depredandone la storia nel massacro che non ha fine, perpetrato nel nome di un Dio impazzito, ridotto al silenzio più colpevole, diventato ladro di dignità umana, culturale e politica, un silenzio dimentico di un preciso dovere, di un irrinunciabile valore, quello della giustizia, la quale induce a schierarsi apertamente verso coloro, gli innocenti, gli incolpevoli, che non vedono riconosciuti i propri diritti fondamentali, quelli elementari della libertà.

Sia Pasqua di libertà, di responsabilità, finalmente di scelte e di azione del cuore.

Petizione Classi di concorso musicali e coreutiche

Classi di concorso musicali e coreutiche: il CNAFAM lancia una petizione

Un’altra giornata simbolica, quella del 21 marzo 2016, è stata scelta dal CNAFAM per lanciare una grande petizione nazionale per la modifica delle classi di concorso musicali e coreutiche.

I nostri aderenti sanno con quanta attenzione il Coordinamento CNAFAM abbia seguito la “storia infinita” dell’approvazione del regolamento sulle classi di concorso (D.P.R. 14/02/2016 n. 19). La prima bozza di regolamento risale addirittura al settembre 2009. Alla redazione definitiva si è arrivati dopo quasi nove anni e una serie innumerevole di bozze MIUR. Il lunghissimo iter di approvazione del regolamento sulle classi di concorso può essere seguito sul nostro sito ufficiale, alla pagina La riforma delle classi di concorso.

La regolamentazione delle classi di concorso musicali e coreutiche (A-53, A-55, A-56, A-57, A-58, A-59, A-63, A-64) disconosce e rigetta le numerose osservazioni e proposte prodotte nel tempo dalle Istituzioni all’uopo preposte: il CNPI (si veda in particolare il parere del 30/11/2010), l’Accademia Nazionale di Danza, la Conferenza dei Direttori dei Conservatori di Musica e la Cabina di Regia della Rete Nazionale “Qualità e sviluppo dei Licei musicali e coreutici” (si veda in particolare la proposta del 7/10/2015); il CNAFAM (pareri e osservazioni del 25/10/2010, 9/3/2011, 13/3/2012, 11/4/2014).

Il D.P.R. 14/02/2016 n. 19 ribalta l’assetto organizzativo dei Licei musicali e coreutici, offre la possibilità di accedere all’insegnamento a nuove figure professionali inadeguate ed elimina completamente figure essenziali già esistenticompromettendo in modo irreparabile la qualità e la professionalità del percorso formativo e mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dei neonati Licei musicali e coreutici, soggetti alla richiesta di un’utenza selezionata che potrebbe realisticamente finire per convergere su altri indirizzi di studio.

Da qui la decisione di intraprendere un’azione forte e decisa a tutela del settore, attraverso il lancio di una petizione nazionale nella quale si chiede l’immediata modifica dei titoli di accesso e delle materie di competenza delle classi di concorso delle discipline musicali e coreutiche (A-53, A-55, A-56, A-57, A-58, A-59, A-63, A-64) di cui al D.P.R. 14/02/2016 n. 19.

In particolare, nella petizione si chiede di:

  1. eliminare, per le classi di concorso Storia della Musica (A-53), Strumento musicale negli istituti di istruzione secondaria di II grado (A-55), Strumento musicale nella scuola secondaria di I grado (A-56), Tecnologie musicali (A-63) e Teoria, Analisi e Composizione (A-64), gli elenchi casuali e non pertinenti di Diplomi accademici di vecchio e nuovo ordinamento, inserendo al loro posto Diplomi di vecchio ordinamento e di secondo livello che garantiscano conoscenze e competenze adeguate (rispettivamente, in Discipline musicologiche per la classe A-53, nello specifico strumento musicale per le classi A-55 e A-56, in Discipline della musica elettronica e delle tecnologie del suono per la classe A-63, in Discipline compositive e Discipline relative alla direzione per la classe A-64);
  2. inserire, nell’ambito della classe A-55, o in subordine della A-59, la previsione dell’accompagnamento pianistico della classe di canto;
  3. prevedere esplicitamente i titoli di accesso a ciascuno dei 4 sottogruppi in cui si articola l’insegnamento della disciplina Laboratorio di musica d’insieme, afferente sempre alla classe A-55;
  4. eliminare il Diploma accademico di II livello in Composizione ad indirizzo Coreografia dai titoli di accesso alle classi di concorso Tecnica della danza classica (A-57) e Tecnica della danza contemporanea (A-58), e considerare come unici titoli di accesso i Diplomi accademici di II livello in Danza classica e in Danza contemporanea, o i titoli equiparati ai sensi della normativa vigente, rilasciati dall’Accademia Nazionale di Danza;
  5. assegnare l’insegnamento del Laboratorio coreutico esclusivamente alla classe di concorso Tecnica della danza classica (A-57), e differenziare chiaramente i Laboratori coreografici per le due sezioni danza classica e danza contemporanea, affidandoli ai docenti della Tecnica di riferimento, rispettivamente A-57 e A-58;
  6. reintrodurre la figura professionale del pianista accompagnatore per la danza (classe di concorso A-59) nelle lezioni di Tecnica della danza classica e Tecnica della danza contemporanea;
  7. prevedere per l’insegnamento della Storia della danza il possesso di conoscenze e competenze adeguate a garantire la serietà e la qualità dell’insegnamento; o, in subordine, prevedere una classe di concorso autonoma;
  8. inserire in tutte le classi di concorso la previsione, imposta dalla L. 107/2015, c. 181, lett. b, punto 2.1, che i titoli di accesso siano congiunti ad almeno 24 CFU o CFA acquisiti nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e in quelle concernenti le metodologie e le tecnologie didattiche.

Concorso a Cattedra Trento

Concorso a Cattedra Trento: banditi 477 posti, scadenza 6 aprile. Anief ricorre per la partecipazione degli esclusi e contro la tabella di valutazione.

Il sindacato, che ha già vinto in passato con sentenze definitive tale contenzioso, mette nuovamente a disposizione dei ricorrenti il modello cartaceo sostitutivo di quello on line da inviare alla PAT. Sono interessati tutti i laureati e diplomati in possesso del titolo di studio valido per l’accesso all’insegnamento e i docenti di ruolo esclusi dalla procedura concorsuale esattamente come per il concorso nazionale. Possono partecipare anche gli iscritti ai corsi abilitanti III ciclo PAS per i quali è stata prevista apposita diffida.

È avviato anche un ricorso al Tar per il riconoscimento del servizio prestato per almeno 180 giorni anche non consecutivi o su posti di sostegno. È possibile aderire ai ricorsi fino al 6 aprile 2016, data di scadenza della presentazione delle domande.

Statali, contratti verso la «soluzione-ponte» sui nuovi comparti

da Il Sole 24 Ore

Statali, contratti verso la «soluzione-ponte» sui nuovi comparti

di Gianni Trovati

Una soluzione ponte sulla rappresentatività, per dare ai sindacati un tempo definito per aggregarsi e superare anche nei nuovi comparti le soglie di iscritti ed elettori necessarie a sedersi ai tavoli per i rinnovi contrattuali.

Sarà questo il meccanismo, accompagnato da criteri chiari per evitare alleanze solo di facciata, che l’Aran metterà sul piatto per superare l’impasse nella ridefinizione della geografia del pubblico impiego necessaria a far partire le trattative per il rinnovo dei contratti nazionali degli statali. L’appuntamento per quello che dovrebbe essere l’incontro finale, dopo un’attesa che si è allungata in extremis proprio per le resistenze diffuse in campo sindacale, è fissato per il 4 aprile. La nuova architettura dei comparti sarà quella nota da tempo, articolata in sanità, poteri locali, conoscenza (scuola, università, ricerca e alta formazione artistica e musicale) e poteri centrali, il compartone di ministeri, agenzie fiscali, enti non economici e di tutto quello che non rientra nei primi tre ambiti: non proprio tutto, in realtà, perché la presidenza del consiglio potrebbe rimanere fuori dalla “gabbia” dei 4 comparti dal momento che nessuno dei decreti attuativi della riforma Brunetta ha detto a chiare lettere che anche Palazzo Chigi deve trovar posto nei nuovi comparti (si veda Il Sole 24 Ore del 29 febbraio).

In ogni caso, la convocazione arrivata dall’Aran serve per provare a superare le obiezioni che ancora agitano il fronte sindacale, non solo fuori dai confederali. Il problema è più spinoso per le sigle più piccole, perché la fusione di scuola, università e ricerca nel comparto della conoscenza e della Pa statale in quello dei poteri centrali rende impossibile raggiungere senza nuove alleanze le soglie della rappresentatività; il ridisegno porta però ad aggregare anche articolazioni interne ai sindacati più grandi (per esempio la scuola e l’università), e non tutti i confederali guardano a questa prospettiva con la stessa serenità.

In tutta la partita, comunque, i nodi tecnici si intrecciano con quelli politici in un groviglio difficile da sciogliere; superare lo scoglio dei comparti riporterebbe infatti il problema dei contratti nelle mani del Governo, chiamato a costruire una proposta di rinnovo con 300 milioni di dote: questione complicata ulteriormente anche dalle sentenze dei tribunali del lavoro che in queste settimane stanno sancendo il diritto degli statali ai ritocchi in busta paga non dal 1° gennaio 2016 ma dal 30 luglio 2015, cioè dal giorno successivo alla pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» della sentenza 178/2015 con cui la Corte costituzionale ha stabilito che il congelamento era durato abbastanza.

Anche la patente Ue del computer Ecdl nei servizi della Carta dello studente

da Il Sole 24 Ore

Anche la patente Ue del computer Ecdl nei servizi della Carta dello studente

Da oggi gli studenti in possesso di «IoStudio – La Carta dello Studente» – promossa dal Miur e rivolta a tutti gli iscritti alle scuole superiori – avranno la possibilità di prepararsi e sostenere gratuitamente l’esame per il modulo It Security della Nuova Ecdl, la Patente europea del computer.
L’Aica, l’associazione per l’informatica e il calcolo automatico e ente garante per l’Italia del programma Ecdl ha infatti aderito alla Carta dello studente lanciando l’iniziativa «iocliccosicuro – con Ecd puoi», grazie alla quale sarà accedere gratuitamente alla piattaforma di formazione www.micertificoecdl.it , per prepararsi e sostenere l’esame per il modulo It-Security della patente Ue del computer, che – spiega Aica – certifica le competenze digitali di base: saper usare gli strumenti di scrittura, calcolo e presentazione; saper navigare in modo sicuro nel web, utilizzare strumenti di collaborazione on line e social network e saper fare ricerche in rete.

Come partecipare
Dopo essersi registrato sul portale IoStudio -La carta dello Studente , lo studente potrà accedere gratuitamente a www.micertificoecdl.it , la piattaforma di materiale didattico sviluppata da Aica, che raccoglie videolezioni, manuali, esercizi e test pratici.
Dalla data di registrazione al portale, ogni studente avrà a disposizione un anno di tempo per sostenere l’esame presso uno dei test center Ecdl aderenti all’iniziativa.
Per avere maggiori informazioni sull’iniziativa www.iocliccosicuro.it

Coding già in età prescolare, due italiani per una start-up innovativa

da Il Sole 24 Ore

Coding già in età prescolare, due italiani per una start-up innovativa

di Flavia Foradini

In un tempo ormai lontano, ai bambini si davano le sveglie e i telefoni rotti, perché giocassero a smontarli, e si divertissero a scoprire ingranaggi e circuiti.
Oggi molti dei dispositivi-giocattolo che debordano dalle nostre case, sono sigillati e non consentono alcuno sguardo indiscreto. In larga parte, usiamo computer, tablet, telefonini, console, senza avere la più pallida idea di come e perché funzionino, e ci consegniamo così a esperti e tecnici, chiamati a concepire, produrre e aggiustare i nostri prodotti di uso quotidiano.
In controtendenza al dilagare di infecondi giochi elettronici, l’EduTech sta divulgando tuttavia prodotti a fruizione diversa e più consapevole, rispetto al semplice azionamento di una tastiera o di un quadro comandi. E così come si abbassa sempre più l’età di utilizzo dei dispositivi elettronici e informatici, allo stesso modo i nuovi giocattoli educativi guardano ad una platea di utenti sempre più piccini.

Settore in espansione
In questo settore promette forte espansione l’insegnamento del coding, e per l’àmbito prescolare l’ultima novità viene da un gioco per bambini dai 3 anni (”Cubetto Playset”), che è al tempo stesso un’esemplare avventura di cervelli in fuga dall’Italia, e una storia di interessante ripartenza educativa. I due fondatori della start-up con sede a Londra sono infatti due italiani, Filippo Yacob e Matteo Loglio, e il gioco che hanno messo a punto in tre anni di progettazione, sperimentazioni e ricerca di capitali, è tutto fuorché un gadget elettronico, visto che riparte da un materiale antico, il legno, e nelle sue componenti si cercherebbe invano uno schermo.
Ed è quest’ultimo elemento che suscita curiosità ed attenzione, in un prodotto nato nel terzo millennio da due ragazzi nati e cresciuti nell’èra digitale: «Non abbiamo nulla contro gli schermi e le interfacce digitali, ma il rischio di usarli per imparare a programmare, è che distraggano – ci dice il Ceo Filippo Yacob -. Perciò sì, siamo convinti che nella nostra èra digitale imparare a programmare sia sempre più importante e che il coding dovrebbe essere una normale materia curricolare come lingua o matematica, però siamo orgogliosi di fare a meno degli schermi: è difficile per una bimba o un bimbo in età prescolare vedere in un dispositivo un oggetto educativo e non un mezzo di intrattenimento. Se ha in mano un device vuole farci mille cose, guardare Youtube, cambiare giochi ogni 30 secondi. “Cubetto” non ha uno schermo, è un robottino fatto di legno, e il quadro di comando che lo fa muovere ha dei blocchi colorati che corrispondono ciascuno ad una particolare funzione di programmazione e dà ai bimbi il tempo di considerare, capire, decidere come procedere per far muovere Cubetto in questa o quella direzione».

Dall’esperienza montessoriana
Un modo di programmazione che parte dalla concreta esplorazione, da parte dei piccoli informatici, delle opzioni offerte: «L’idea che ci ha ispirato è quella dell’esperienza concreta, manuale, montessoriana – prosegue Yacob – Questo modo di programmare giocando, parte dall’esperienza tattile prima ancora che visiva, tanto che fra le 800 istituzioni in 40 Paesi che hanno adottato “Cubetto” vi sono scuole per bambini ipovedenti o non vedenti. E’ inoltre un gioco che sviluppa consapevolezza dello spazio e della sequenzialità degli eventi, ed è collaborativo, perché fa scoprire che còmpiti difficili si risolvono meglio cooperando».
Anche sul sito della start-up che propone il gioco, la particolarità dell’assenza di schermo o interfaccia digitale viene ripetutamente sottolineata come elemento innovativo: «I giochi programmabili in commercio funzionano come estensioni di tablets o smartphones, per cui il coding si attua sullo schermo. Noi invece innoviamo creando un linguaggio di programmazione da toccare davvero».
Il progetto ha prodotto anche un sito apposito di supporto per docenti, con manuali e proposte didattiche, e ha raccolto attorno a sé una vasta comunità di insegnanti collaborativi. www.primotoys.com/docs

Alternanza, decreto in arrivo

da ItaliaOggi

Alternanza, decreto in arrivo

Dubbi da sciogliere sulle 400 ore di lavoro: sostitutive o aggiuntive all’orario delle lezioni

Alessandra Ricciardi

Alternanza scuola-lavoro, in arrivo il decreto che ne disciplina le modalità attuative in termini di «diritti-doveri» per gli studenti. Il regolamento, previsto dalla riforma della scuola definita dalla legge n. 107/15, è ancora in bozza in attesa che siano formulate le osservazioni del Consiglio superiore dell’istruzione.

Acquisito il parere, il provvedimento andrà alla firma dei ministri dell’istruzione, Stefania Giannini, e del lavoro, Giuliano Poletti. L’obbligo di alternanza riguarda per quest’anno 500 mila alunni delle terze classi di licei, istituti tecnici e professionali. Per i primi l’orario previsto di lavoro è di almeno 200 ore, per i tecnici e professionali si sale a un minimo di 400 ore. Il tutto sempre nell’arco degli ultimi tre anni del corso di studi.

Ma quello che il decreto al momento non dice è se queste ore, che sono definite come parte «integrante e coerente del percorso di studi», siano da intendersi come sostitutive di una quota parte dell’orario già previsto oppure se si aggiungano alle ore ordinamentali, ipotesi quest’ultima che sembra essere suffragata dalla previsione che le attività si possano svolgere anche d’estate. Una differenza non da poco, che potrebbe avere effetti non solo sui percorsi dei singoli studenti ma anche sull’assetto degli organici delle scuole per le varie discipline.

L’alternanza prevista dalla riforma della Buona scuola mette a regime le sperimentazioni finora fatte, in cui erano gli studenti a presentare la richiesta di svolgere attività in ambito lavorativo.

Un’apertura al mondo del lavoro che ha finora scontato le differenze territoriali, con un Nord più disponibile e un Sud in cui la carenza di aziende la fa da padrone. E poi c’è la struttura aziendale nazionale, fatta di un 95% di piccole e medie imprese con meno di dieci addetti, che rende difficile garantire ospitalità e tutor all’intera potenziale platea degli studenti. Difficoltà con cui aziende e presidi stanno già facendo i conti.

Nel nuovo regime, è compito del dirigente scolastico individuare le imprese e gli enti pubblici e privati disponibili per l’attivazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro e con questi stipulare le relative convenzioni: aziende, associazioni di imprese, camere di commercio, enti pubblici e privati, compresi quelli del terzo settore, ordini professionali, musei, istituti pubblici e privati operanti nei settori culturali, ambientali e sportivi.

I percorsi devono essere inseriti nel piano triennale dell’offerta formativa della scuola. Il percorso può essere svolto in un’azienda, ma anche attraverso la modalità dell’impresa formativa simulata. Le competenze acquisite vanno certificate. Gli studenti devono essere seguiti da un tutor interno indicato dalla scuola e da un tutor esterno, indicato dall’azienda.

La durata delle attività giornaliere svolte in regime di alternanza non può superare l’orario indicato nella convenzione stipulata tra l’istituzione scolastica e la struttura che ospita gli studenti. Tra le attività ricadono anche gli stage, i tirocini e la didattica di laboratorio. Ai fini della validità del percorso di alternanza è necessario che lo studente abbia frequentato almeno tre quarti del monte ore previsto dal progetto.

Gli studenti-lavoratori sono tenuti a rispettare le regole comportamentali, igieniche, di sicurezza e organizzative vigenti nell’impresa. Ogni studente, al termine del percorso, darà un giudizio dell’esperienza fatta.

Preside-sceriffo o manager i dirigenti scolastici a un bivio della carriera

da la Repubblica

Preside-sceriffo o manager i dirigenti scolastici a un bivio della carriera

Dopo l’ultima legge del governo sono aumentate le responsabilità. Mentre molti si lamentano per la perdita dell’elemento della collegialità. bisogna ancora lavorare sulla formazione.

da Repubblica Affari e Finanza

di Massimiliano Di Pace

A partire da settembre andrà a regime il nuovo ruolo dei dirigenti scolastici, ovvero dei presidi, previsto dalla riforma della Buona Scuola (legge 107/2015).

Un ruolo più organizzativo e gestionale, come riconosce il Presidente di Anp (Associazione nazionale presidi), Giorgio Rembado: «Le nuove funzioni attribuite dalla riforma sono la conseguenza logica dell’incremento delle dimensioni degli istituti scolastici, dovuta agli accorpamenti avvenuti in passato, che hanno fatto sì che dai 200-300 studenti ad istituto si sia passati a 1.000-1.500. Inoltre, per effetto delle integrazioni tra istituti, oggi i presidi si trovano a gestire contemporaneamente scuole di diversi ordini e specializzazioni: dalle scuole dell’infanzia alle scuole superiori».

Dunque, con la riforma il dirigente scolastico non sarà più un primus inter pares, con compiti di direzione del collegio dei docenti, e di applicazione delle circolari ministeriali, ma una sorta di “preside-sceriffo”, come è stato chiamato.

O meglio una sorta di manager, come riconosce Giuseppe Turi, segretario della Uil Scuola, che precisa: «Le scuole dal 2000 sono un soggetto giuridico autonomo, per cui il dirigente scolastico da tempo è già chiamato ad effettuare scelte di natura gestionale e organizzativa, ma ora gli sono attribuite anche funzioni di attuazione del piano di offerta formativa, che sarebbe stato bene lasciare a organi collegiali».

La perdita della collegialità è in effetti un aspetto non condiviso della riforma, sostiene Maddalena Gissi, Segretaria di Cisl Scuola: «Finora il preside aveva una funzione di leadership educativa, con un rapporto diretto sia con i docenti, sia con gli studenti, e le decisioni venivano prese collegialmente, ma i nuovi compiti gestionali ed organizzativi attribuiti ora solo al dirigente scolastico, insieme alla mancata riforma degli organi collegiali della scuola (il collegio dei docenti e il consiglio di istituto), rischiano di mettere in crisi un servizio pubblico collaudato».

Quindi la riforma non modifica l’impostazione della scuola pubblica, bensì la sua governance, accentrandola nella figura del preside, come chiarisce Domenico Pantaleo, segretario della Cgil Flc (lavoratori della conoscenza): «In realtà anche in passato i dirigenti scolastici avevano un ruolo organizzativo, ma con questa riforma si è ecceduto con l’attribuzione di poteri, come quello della chiamata diretta dei docenti appartenenti al bacino territoriale di riferimento (subprovinciale), che rischia di trasformare la scuola in un luogo di clientelismo, se non di enclave di una precisa ideologia, ovvero quella del preside».

Su questo punto è d’accordo Turi della Uil Scuola, che aggiunge: «Non solo la chiamata diretta dei docenti, ma anche l’attribuzione ai presidi del compito di assegnare i premi agli insegnanti più meritevoli (200 milioni l’anno, circa 24mila euro a scuola), può creare un meccanismo di soggezione psicologica del docente nei confronti del dirigente scolastico, con il possibile risultato di limitare la libertà di insegnamento, prevista dall’articolo 33 della Costituzione». Per contro Rembado dell’Anp ritiene che in realtà questi poteri non siano pieni: «La possibilità di scegliere i docenti solo nell’ambito del bacino sub provinciale rischia di rendere inefficace tale nuovo potere, senza contare che manca una vera libertà di impiego del budget a disposizione della scuola».

A fronte di qualche potere in più, è prevista una valutazione, come spiega Pantaleo della Cgil: «Alla fine del triennio contrattuale, e quindi nel 2018, ci sarà un team di valutazione nominato dall’Ufficio regionale scolastico, che predisporrà una relazione sui risultati di gestione amministrativa e di rispetto del piano dell’offerta formativa». Al riguardo il ministero ricorda che sulla base di questa valutazione l’Ufficio regionale scolastico deciderà la componente premiale della retribuzione dei presidi.

Non è solo il contenuto della riforma a suscitare qualche perplessità, ma anche la stessa possibilità di attuarla. «Per le 8.400 scuole, vi sono oggi 7.500 dirigenti – sottolinea Rembado dell’Anp – dei quali circa 500 ogni anno vanno in pensione.

Ora, se il ministero non organizza i bandi per la selezione dei dirigenti scolastici, diventerà difficile eseguire i più vasti compiti, visto che alcuni presidi continueranno a gestire in reggenza anche un altro istituto». Su questo punto però il Miur fa sapere che entro fine aprile uscirà il nuovo regolamento per il reclutamento, che permetterà di predisporre il bando di concorso per circa 1.400 nuovi dirigenti scolastici entro giugno. Il Miur stima che nell’estate 2017 vi sarà la nomina dei nuovi presidi.

Un’altra questione da definire è l’aspetto reddituale dei presidi, come sottolinea Gissi di Cisl Scuola: “Per motivi contrattuali il dirigente scolastico prende in media una retribuzione lorda di 60mila euro l’anno, ben al di sotto degli 80-90mila degli altri dirigenti pubblici. Una situazione assurda se si considera che un dirigente scolastico coordina un personale spesso ben superiore a quello degli altri dirigenti, essendo maggiore delle 100 unità».

Nonostante difficoltà e perplessità, la legge 107/2015 avvicina la scuola italiana ai modelli internazionali: «Non solo nei paesi anglosassoni, ma anche in nazioni più vicine a noi come Francia, Spagna e Germania – dichiara Anna Simioni, di Boston consulting group – il preside ha una responsabilità di natura manageriale. Ma questa trasformazione richiede l’acquisizione di competenze, per cui sarà importante prevedere per i presidi un percorso formativo che permetta loro di sviluppare competenze necessarie per i nuovi compiti».

“I professori? Negli anni sono diventati degli amici”

da La Stampa

“I professori? Negli anni sono diventati degli amici”

Lorenzo Paiano dell’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Enrico Mattei” di Maglie (LE)
federico taddia

 92 giorni all’esame: cosa provi?

«C’è un forte senso di attesa, un’attesa non brutta ma strana. In verità non vedi l’ora che tutto finisca, ma nello stesso tempo si sa che non finirà solo la scuola: dovremo abbandonare gli amici, le sicurezze, questa vita a cui siamo abituati. Il desiderio e l’impegno sarebbe quello di studiare di più nei prossimi mesi, ma il primo sole di questi giorni fa solo venire voglia di andare al mare. E, a dire il vero, è quello che stiamo facendo».

 

Cosa ti hanno dato questi cinque anni?

«Mi hanno cambiato carattere, mi hanno sbloccato, mi hanno reso più socievole. Anche il rapporto con i professori è diventato più diretto e amichevole. Mi mancheranno molto».

Cosa rappresentano per te?

«Sono professori, e fanno il loro lavoro: pretendono giustamente che ognuno di noi si dia da fare al massimo. Però in questi ultimi anni sono diventati anche degli amici. Ci si scambia messaggi via WhatsApp, abbiamo fatto un gruppo di classe e a volte se siamo in difficoltà via messaggio ci aiutano a fare i compiti di pomeriggio o ci spiegano cose che non abbiamo capito in aula fuori orario».

 

Come ti descriveresti?

«Non saprei. Sono un ragazzo normale, a cui non manca nulla: ho i genitori, i nonni, un fratello. Da qualche mese ho anche la ragazza e, poiché vivo in un paese piccolo, di 4mila abitanti, tengo tantissimi ai miei amici: infatti un giorno esco con loro e l’altro con la fidanzata. Così mantengo un buon equilibrio e nessuno si lamenta».

 

E a parte lo studio e gli amici, hai altre passioni?

«Sì, faccio molto sport: ci tengo all’aspetto fisico. Credo che a 18 anni sia importante: si ha l’età giusta per essere in forma, per stare bene, e quindi va dedicato tempo all’allenamento. Mi piace, soprattutto in spiaggia, essere piacevole. Quindi vado in palestra, dove pratico calisthenics, una sorta di ginnastica a corpo libero, e corro in bicicletta».

Cos’è per te la maturità?

«E’ la capacità di prendere decisioni importanti con saggezza, non fare cavolate. Insomma, essere responsabile e con la testa sulle spalle. E in questo, devo confessare, avere una fidanzata aiuta molto».

 

Hai già scelto cosa farai il prossimo anno?

«Sì. Mi sto già preparando per partecipare al concorso per allievi marescialli della Guardia di Finanza. Fin da piccolo sono attratto dall’uniforme. Un po’ per difendere la bandiera e un po’ perché è un lavoro che dà sicurezza, con un buon stipendio e un posto fisso tranquillo che mi può permettere in futuro di mettere su famiglia».

Come ti vedi da adulto?

«Così, come ti ho detto: l’uniforme, il lavoro, una moglie, un paio di figli, una vita serena in un piccolo paese e una casa vicino al mare. Senza mare non ci potrei stare».

 

Quale domanda vorresti che ti fosse fatta durante l’esame di maturità?

«Forse vorrei che mi chiedessero proprio questo, ovvero come mi vedo tra dieci anni. Mi piacerebbe salutare i professori lasciandogli il ricordo di me come mi hanno conosciuto e un’anticipazione di quello che sarà».

Disabili, perché lo Stato non sostiene gli iscritti alle medie e superiori paritarie?

da La Tecnica della Scuola

Disabili, perché lo Stato non sostiene gli iscritti alle medie e superiori paritarie?

Aumentano gli alunni con disabilità nelle scuole italiane. Anche in quelle paritarie, solo che lo Stato fa davvero poco per tutelare e sostenere le loro famiglie.

A sostenerlo, parlando di “grave ingiustizia che occorre sanare quanto prima”, sono le associazioni Agesc, CdO Opere Educative, Fidae, Fism. Le quali chiedono, pertanto, che sia “presa in esame ogni possibilità per sanare questa gravissima ingiustizia, salvaguardando la libertà di scelta educativa per tutti e tutelando, in particolare, le famiglie che hanno al loro interno dolorose situazioni di difficoltà, come la presenza di un figlio disabile”.

Per rafforzare il concetto, le associazioni si avvalgono numeri e percentuali ufficiali. “In questi ultimi anni – scrivono – il numero di alunni con disabilità nella scuola italiana ha registrato un incremento del 24%, passando da 174.404 del 2007/2008 a 217.563 del 2015/2016 (Focus Miur, settembre 2015), rappresentando ad oggi circa il 2,6% sul totale degli alunni (1,3% nella scuola dell’infanzia, 3% nella scuola primaria, 3,7% nella scuola secondaria di I grado e 2% nella scuola secondaria di II grado)”.

Se nelle scuole statali si registra una percentuale di alunni con disabilità, sul totale degli iscritti, pari al 2,7%, in quelle paritarie la loro presenza si attesta comunque all’1,5%. E anche “con forte tendenza all’aumento”.

I dati pubblicati dal Miur, dicono che il rapporto docenti/alunni è maggiore, in media, di 1 a 2 e il personale è sempre più stabile, grazie anche a quanto già previsto nel decreto scuola “L’Istruzione riparte ” del 2013, voluto dall’allora ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, che ha consentito l’immissione in ruolo in tre anni di 26.674 docenti in più rispetto alla dotazione organica del sostegno.

Con la legge 107 della “Buona Scuola”, poi, ne sono arrivati altri 6.446 in più. Il contingente di docenti di sostegno è passato da 88.441 unità del 2007/2008 a 119.496 del 2015/2016, con un incremento pari al 35%, si legge sempre nel comunicato (anche se quasi 30mila di questi docenti risultano su posti “in deroga” ndr).

Le associazioni ricordano che nel 2009 lo Stato ha speso per i docenti di sostegno 3,4 miliardi di euro (Miur, “la scuola in cifre, 2011). Ipotizzando un semplice incremento percentuale a retribuzioni immutate, il costo dei docenti di sostegno nel 2015 è pari al 35% in più: 4,6 miliardi di euro.

Sempre analizzando quanto pubblicato dal Miur, nel decennio 2004/05-2014/15, sempre secondo le associazioni, è possibile rilevare come l’incremento percentuale di disabili nelle paritarie, sia stato del 63,1%: è un dato che diventa quasi clamoroso, se si pensa che nello stesso periodo si è assistito ad un decremento del 2,6% del numero totale di iscritti in queste ultime strutture. E di un aumento di disabili nelle statali nettamente inferiore.

“E’ evidente – scrivono Agesc, CdO Opere Educative, Fidae, Fism – che le famiglie apprezzano sempre di più la cura e l’attenzione che nelle scuole paritarie sono rivolte agli alunni con disabilità. Purtroppo occorre rilevare che, mentre nella scuola statale molto è stato fatto in questi anni su questo tema (pur permanendo ancora situazioni di carenza a vari livelli), nulla è stato previsto per le famiglie che decidono di iscrivere i propri figli con disabilità nelle paritarie”.

“L’onere per i docenti di sostegno degli alunni disabili che frequentano le paritarie è così, oggi, interamente a carico delle famiglie e delle scuole, con l’unica eccezione della scuola primaria. Sotto questo profilo l’attuale assetto del sistema scolastico italiano realizza una gravissima disparità di trattamento in base al tipo di scuola frequentata (statale o paritaria) dagli alunni disabili. Ci troviamo, in definitiva, di fronte alla palese negazione di un diritto fondamentale della persona universalmente riconosciuto”.

Educazione alla cittadinanza: la materia non materia

da tuttoscuola.com

Educazione alla cittadinanza: la materia non materia

di Luciano Corradini
Ho letto con sollievo e con un filo si speranza l’iniziativa di Treelle, ripresa da Tuttoscuola sul rilancio dell’educazione alla cittadinanza, con qualche proposta concreta. Vorrei ricordare che secondo la ricerca compiuta proprio da Treelle, su un campione di ex studenti dai 19 ai 25 anni, pubblicata nell’aprile 2009, fra le materie ritenute più importanti compare l’educazione civica (“diritti e doveri dei cittadini, funzionamento dello Stato italiano e dell’Unione europea”): essa è collocata dai giovani al quarto posto, dopo l’inglese, l’italiano, l’informatica. Non è un cattivo “piazzamento”, rispetto alla matematica, alle scienze, alla storia, alla filosofia, alla musica. Nonostante questi dati e molti autorevoli richiami al dovere d’insegnare secondo Costituzione e la Costituzione (fra tutti autorevole, preciso, insistito quello del presidente Napolitano), la questione ordinamentale è restata incerta, per ragioni che ho più volte affrontato in serrati dibattiti, in ben quattro gruppi di lavoro ministeriali, oltre a più lungo e intenso lavoro affrontato in merito  dal CNPI (ai tempi del Governo Dini-Lombardi), dandone anche notizia alla stampa e in alcuni libri.

Che cosa si poteva fare, sulla base dei risultati deludenti dell’educazione civica di Moro, varata e accolta con tanto entusiasmo,negli anni ’60, poi lasciata languire senza adeguati approfondimenti e aiuti ministeriali? Impegnarsi a rinforzare l’educazione civica perché producesse finalmente frutti di consapevolezza e di responsabilità (cosa che cercammo di fare con Lombardi, col documento  Educazione civica e cultura costituzionale e con un curricolo continuo, rimasto nel cassetto di Berlinguer), o abolirla per scarso rendimento? Le due alternative si sono rivelate entrambe difficili da argomentare, perché sostenerle significava da un lato apparire antidemocratici, dall’altro apparire velleitari, con la pretesa di appesantire il curricolo scolastico con nuove ore e con nuovi contenuti d’insegnamento. Il Ministero ha scelto una terza strada: quella di raccomandare la trasversalità, di promuovere protocolli d’intesa, progetti con relativi concorsi, incoraggiamento di iniziative volontarie, ma nessun obbligo per docenti e studenti, nessun diritto, nessun dovere di render conto delle conoscenze dei fondamentali testi fondativi della Repubblica, dell’Unione europea e dell’ONU. Raccomandazione della “trasversalità”, affidata a docenti di buona volontà, impegno solenne di promuovere “conoscenze e competenze” relative a Cittadinanza e Costituzione”, ribadita nelle Indicazioni nazionali, questo sì, ma di fatto giuridicamente si regredisce rispetto alla legge 169/2008, neppure citata dalla 107, che dimentica addirittura di nominare la parola Costituzione.

Sembra che si torni alla stagione dei Progetti Giovani, senza il pathos e le legittimazioni costituzionali di quegli anni.

Durante il veloce percorso parlamentare voluto dal Governo per attuare il grande progetto della “buona scuola”, cercai in vario modo di mettere a disposizione il lavoro fatto nelle istituzioni in circa mezzo secolo sull’educazione civica, poi diversamente denominata, ma non effettivamente rivitalizzata. Scrissi anche una lettera ad una deputata che conosco e stimo, per ricordare che esiste negli archivi della Camera un disegno di legge presentato da un valoroso gruppo di parlamentari, che allora fu sconfitto, ma che poi si trovò a guidare la maggioranza del Governo ora in carica. Di fatto questo disegno di legge voleva completare il rachitico decreto legge Berlusconi-Gelmini, che  era stato convertito nella legge 169/2008, senza la consistenza di una disciplina, di un voto, di un quadro amministrativo dignitoso. Ecco il testo della lettera.

“Gentile onorevole Ghizzoni,

ho riletto la Proposta di legge 2135/2009, di cui Lei è stata cofirmataria con l’on Coscia. La mia viva speranza è che voi, ora in prima linea nel processo legislativo (salvo l’arrivo della “fiducia” che troncherebbe tutto il vostro sforzo di questi giorni), vogliate ricuperare quel prezioso testo, di cui mi permetto di riportare qua sotto l’art. 1.

« Art. 1. – (Cittadinanza e Costituzione).

– 1. Nel primo e nel secondo ciclo

di istruzione le conoscenze e le competenze

relative alla convivenza civile e alla

cittadinanza sono acquisite attraverso la

disciplina denominata “Cittadinanza e Costituzione”,

individuata nelle aree storicogeografica,

storico-sociale ed economicogiuridica

e oggetto di specifica valutazione.

Nella scuola dell’infanzia tale acquisizione

è realizzata mediante appositi percorsi

formativi finalizzati all’insegnamento dei

valori di rispetto degli altri, di solidarietà

e di condivisione.

2. Nell’ambito del monte ore complessivo

già previsto per le aree di cui al

comma 1, alla disciplina “Cittadinanza e

Costituzione” è attribuito un monte ore

annuale di trentatré ore.

3. Con decreto del Ministro dell’istruzione,

dell’università e della ricerca è determinato

il contenuto dell’insegnamento

di cui al comma 1. In sede di revisione

degli ordinamenti scolastici si procede al

raccordo della disciplina di cui al citato

comma 1 con le altre discipline del curricolo,

tenuto conto della trasversalità

delle tematiche che la caratterizzano.

4. All’attuazione di quanto previsto al

comma 1 si provvede con le risorse

umane, strumentali e finanziarie disponibili

a legislazione vigente ». Da mezzo secolo lavoro per l’attuazione dell’odg Moro (1947), votato all’unanimità e per difendere e arricchire il dpr Moro 1958 sull’educazione civica, che ho insegnato anche nella Sua Carpi.

Continuo a girare l’Italia, a mie spese, su richiesta di docenti e studenti di buona volontà, mentre la parola Costituzione non compare neppure come titolo nelle Indicazioni nazionali e nei relativi orari, mentre le premesse alle Indicazioni di storia parlano di “focalizzare lo studio della Costituzione italiana, dell’Unione europea e delle grandi organizzazioni internazionali:::” Si precisa che “uno spazio adeguato  dovrà essere riservato al tema della cittadinanza e della Costituzione repubblicana, in modo che, al termine del quinquennio liceale. lo studente conosca bene i fondamenti del nostro ordinamento costituzionale, quali esplicazioni valoriali delle  esperienze storicamente rilevanti del nostro popolo…”.

Perderò anche questa ultima battaglia, ma le battaglie valgono per quello che costano, non per quello che rendono. Auguri. Luciano Corradini”

(PS. Di fatto la legge 107/2015 non nomina mai né la legge 169/2008 su Cittadinanza e Costituzione, né la stessa parola Costituzione italiana.

Concorso, i presunti limiti della legge e lo spettro dei ricorsi

da tuttoscuola.com

Concorso, i presunti limiti della legge e lo spettro dei ricorsi

Il comma 114 della legge 107/15 prevede che per i concorsi appena banditi sono valorizzati, fra i titoli valutabili in termini di maggiore punteggio:

“b) il servizio prestato a tempo determinato, per un periodo continuativo non inferiore a centottanta giorni, nelle istituzioni scolastiche ed educative di ogni ordine e grado”.

Il decreto n. 94 che accompagna i bandi del concorso ha precisato però che il servizio di insegnamento deve essere prestato sullo specifico posto o classe di concorso per cui si procede alla valutazione, nelle scuole statali o paritarie di ogni ordine e grado, nelle istituzioni convittuali statali e nei percorsi di formazione professionale.

Non valgono, quindi, i mix di servizi prestati in ordini di scuola diversi.

Inoltre il decreto specifica che il servizio è valutato come anno scolastico per un periodo continuativo non inferiore a 180 giorni per ciascun anno scolastico.

Rispetto alla genericità della norma, il decreto restringe il campo di applicazione con motivazioni logiche (corrispondenza tra tipo di concorso scelto e tipo di supplenza prestata) e, circa la continuità del servizio prestato per almeno 180 giorni cerca di corrispondere alle indicazioni venute dalla nota sentenza della Corte di giustizia.

È di diverso parere l’Anief che sostiene la tesi secondo cui “I candidati che partecipano al concorso a cattedra devono vedersi valutato tutto il servizio di precariato: anche quello prestato per 180 giorni non consecutivi in scuole paritarie o su posti di sostegno agli alunni disabili”. E annuncia l’ennesimo ricorso.

Intanto, a quanto sembra, le domande di concorso non accolte per mancanza dei requisiti richiesti (in primis l’abilitazione) vengono inviate in formato cartaceo per costituire probabilmente la base per ricorsi in massa. Un concorso, insomma, che non avrà vita facile.

Decreto Ministeriale 23 marzo 2016, n. 174

Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

VISTO il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni, recante “Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59” e, in particolare, l’articolo 2, comma 1, n. 11), che, a seguito della modifica apportata dal decreto legge 16 maggio 2008, n. 85, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2008, n. 121, istituisce il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca;

VISTO inoltre l’articolo 1, comma 5, del predetto decreto legge 16 maggio 2008, n. 85,  che dispone il trasferimento delle funzioni del Ministero dell’università e della ricerca, con le inerenti risorse finanziarie, strumentali e di personale, al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca;

VISTA la legge 30 dicembre 2010, n. 240, recante “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”;

VISTO il decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, con il quale si stabilisce di procedere con decreto di natura non regolamentare del Presidente del Consiglio dei Ministri alla revisione delle modalità di determinazione dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE), di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, e ss.mm.ii., fornendo al riguardo specifici indirizzi attuativi;

VISTO il decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, recante la revisione della normativa di principio in materia di diritto allo studio, e in particolare l’articolo 8, il quale al comma 3 conferma che le condizioni economiche dello studente sono individuate sulla base dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) e dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale Equivalente (ISPE), di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, e ss.mm.ii.;  al comma 1 rinvia al decreto del Ministro, di cui all’articolo 7, comma 7, la definizione dei requisiti di eleggibilità per l’accesso alle borse di studio; infine, al comma 5 stabilisce che, fino all’adozione di detto decreto, restano in vigore le disposizioni di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 aprile 2001 relativi ai requisiti di condizione economica;

VISTO il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 aprile 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 luglio 2001, n. 172, recante “Disposizioni per l’uniformità di trattamento sul diritto agli studi universitari a norma dell’art. 4 della legge 2 dicembre 1991, n. 390” ed in particolare l’articolo 5, comma 1, con il quale si stabilisce che le condizioni economiche dello studente per l’accesso alle prestazioni per il diritto allo studio universitario sono individuate sulla base dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) e dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale Equivalente (ISPE), di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, e ss.mm.ii.;

VISTO, altresì, il comma 11 del medesimo art.5 del citato d.P.C.M. 9 aprile 2001, in cui si prevede che i limiti massimi dei suddetti Indicatori sono aggiornati annualmente con decreto del Ministro da emanarsi entro il 28 febbraio;

VISTO il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 5 dicembre 2013, n. 159, relativo alla revisione delle modalità di determinazione e dei campi di applicazione dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE), che all’articolo 8 definisce modalità specifiche di calcolo dell’Indicatore per le prestazioni per il diritto allo studio universitario;

VISTO il decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali 7 novembre 2014 con il quale si approvano i modelli di dichiarazione e attestazione ISEE, nonché le relative istruzioni per la loro compilazione, ai sensi dell’art. 10, comma 3, del citato d.P.C.M. n. 159 del 2013;

DATO ATTO che, a far data dai trenta giorni dall’entrata in vigore del succitato decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali 7 novembre 2014, è abrogato il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, e che pertanto,  nelle more dell’adozione del decreto del Ministro di cui al succitato articolo 7, comma 7, del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, a partire dall’anno accademico 2015/2016 per la determinazione dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) e dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale Equivalente (ISPE), utilizzati ai fini dell’accesso alle prestazioni per il diritto allo studio universitario, sono applicate le disposizioni di cui al d.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159;

PRESO ATTO che, in attuazione degli indirizzi forniti con l’art. 5, comma 1, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, tra gli obiettivi perseguiti con la revisione dell’Indicatore vi è quello di migliorarne la selettività, anche attraverso il rafforzamento della rilevanza degli elementi di ricchezza patrimoniale della famiglia;

CONSIDERATO che, con il citato d.P.C.M. n. 159 del 2013, il rafforzamento della rilevanza degli elementi di ricchezza patrimoniale della famiglia è stato realizzato anche attraverso la rivalutazione del valore dei cespiti immobiliari di proprietà (incluso quello relativo alla casa di abitazione) con il passaggio dal riferimento dai valori ICI a quelli IMU;

RILEVATO come l’applicazione delle disposizioni di cui al predetto d.P.C.M. n. 159 del 2013 alle prestazioni per il diritto allo studio universitario ha determinato per l’anno accademico 2015/2016 l’esclusione di alcuni studenti dalle prestazioni per il diritto allo studio universitario in ragione della rivalutazione del valore dei cespiti immobiliari di proprietà, con particolare riferimento a quello relativo alla casa di abitazione, così come evidenziato da studi e analisi effettuate a livello sia nazionale dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sia regionale dai singoli Enti per il diritto allo studio;

VISTO il decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca 14 luglio 2015 (n. 486) con il quale, ai sensi dell’art. 5, comma 11, del d.P.C.M. 9 aprile 2001, si sono aggiornati per l’anno accademico 2015/2016, i limiti massimi dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (fissati tra euro 15.748,78 – limite minimo – e  20.998,37 -limite massimo) e dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale Equivalente (fissati  tra euro 27,560,39 – limite minimo –   ed euro 35.434,78 -limite massimo) sulla base della variazione dell’Indice generale ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e di impiegati corrispondente al valore del + 0,2 %;

VISTO lo stanziamento di euro 216.814.548,00 previsto per l’E.F. 2016 sul capitolo 1710 (Fondo Integrativo per la concessione delle Borse di Studio – FIS) dello stato di previsione della spesa del MIUR;

RITENUTO opportuno, per l’anno accademico 2016/2017, aggiornare i limiti massimi dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) e dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale Equivalente (ISPE) in modo da tenere conto della rivalutazione del valore dei cespiti immobiliari di proprietà, con particolare riferimento a quello relativo alla casa di abitazione, fermo restando il limite minimo, fissato dal citato decreto del 14 luglio 2015 (n. 486), pari a 15.748,78  euro per l’ISEE e a  27.560,39 per l’ISPE;

RITENUTO, pertanto, anche sulla base delle evidenze di cui ai sopra citati studi ed analisi ministeriali e regionali, di aggiornare i suddetti limiti massimi rispettivamente a 23.000,00 euro per l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) ed a 50.000,00 euro per l’Indicatore della Situazione Patrimoniale Equivalente (ISPE);

CONSIDERATA la necessità di consentire tempestivamente alle Amministrazioni interessate di procedere con la definizione dei provvedimenti finalizzati ad assicurare il diritto allo studio agli studenti universitari per l’a.a. 2016/2017;

DECRETA

 

Art. 1

Per le motivazioni di cui in premessa, per l’anno accademico 2016/2017 il limite massimo dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) è fissato in 23.000,00 euro.

 

Art. 2

Per le motivazioni di cui in premessa, per l’anno accademico 2016/2017 il limite massimo dell’Indicatore della Situazione Patrimoniale Equivalente (ISPE) è fissato in 50.000,00 euro.

 

Roma, 23 marzo 2016

IL MINISTRO
Prof.ssa Stefania Giannini