Reinserimento in GaE

Scacco matto al MIUR in Calabria per il reinserimento in GaE: l’Anief ottiene il reinserimento di due docenti cancellati e la loro conseguente partecipazione al piano straordinario di immissioni in ruolo.

Accolti senza riserve i ricorsi ANIEF per l’immediato reinserimento di due docenti nelle Graduatorie ad Esaurimento d’interesse, cancellati per non aver prodotto domanda di aggiornamento/permanenza. I Tribunali del Lavoro di Crotone e Lamezia Terme riconoscono le ragioni patrocinate con estrema perizia dagli Avvocati Fabio Ganci, Walter Miceli, Francesca Lideo e Maria Schipani e impongono al MIUR l’inserimento dei ricorrenti nelle Graduatorie utili per l’intero triennio 2014/2017, disapplicando i decreti ministeriali nella parte in cui non permettono il loro reinserimento e riconoscendo, di conseguenza, il loro pieno diritto anche alla partecipazione al piano straordinario di immissioni in ruolo dello scorso anno.

Dalla raccolta dati alla semina delle azioni

Dalla raccolta dati alla semina delle azioni
Riflessioni a margine della presentazione del Rapporto INVALSI 2016

di Ivana Summa

 

Il 7 di luglio 2016 si è tenuta, nella sala della Comunicazione del MIUR, la presentazione del Rapporto INVALSI relativo alle rilevazioni sugli apprendimenti condotte nei mesi di maggio e giugno 2016 nelle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, con riferimento agli esiti delle classi campione. Nello stesso giorno è stato pubblicato sia il Rapporto Tecnico (109 pagine) che quello relativo al Risultati. Nonostante la corposità dei fascicoli i due rapporti si leggono facilmente e, per chi non ha interessi diricerca ma intende riflettere, è stata pubblicata anche una sintesi in dieci punti.Sono soltanto quattro pagine, ma sufficienti suscitare alcune domande in grado di provocare delle risposte in termini di azioni concrete da parte delle scuole.

Non riporto un’ulteriore sintesi degli esiti dell’indagine che, peraltro, salvo alcuni timidi spostamenti rispetto agli ultimi anni, non ci dice nulla che non sapessimo già. E, infatti, la stampa si limita ad enfatizzare la distanza tra il Sud (al di sotto dello standard anche se si avvale del cheating!) e il Nord, con i dati eccellenti di Trento e Bolzano

Per gli operatori della scuola, invece, interessanti e provocatori sono alcuni aspetti che, a nostro avviso, rappresentano altrettanti “segnali deboli” (nell’accezione più ampia di questa locuzione), che vanno interpretati non per mero gusto della ricerca, bensì per poter poi essere agiti.

Il primo è relativo al cosiddetto calcolo del “valore aggiunto”, definito come “una misura dell’efficacia della scuola nella promozione di apprendimenti: al punto 7 della sintesi del Rapporto, che si riferisce al valore aggiunto calcolato nelle scuole campione, si evidenzia che “l’efficacia delle scuole, a parità di condizioni,   è molto diversa all’interno del Paese. Nel Mezzogiorno si osserva una forte polarizzazione delle scuole tra quelle estremamente efficaci e quelle con risultati molto bassi”. Questo dato ci dice semplicemente che le scuole eccellenti ci sono sono anche al Sud e, legittimamente, bisognerebbe chiedersi che cosa hanno di speciale queste scuole efficaci che, per così dire, si muovono in modo extraterritoriale. Su quali leve agiscono, come lavorano le persone, che tipo di didattica realizzano, quali climi e relazioni creano, che tipo di leadership scolastica agisce…Insomma, fare qualche approfondito studio di caso ci potrebbe dire quali sono le condizioni” che le scuole efficaci sono state in grado di creare. La domanda è: che cosa fanno per migliorare? Studi internazionali sulle school effectiveness” e “school improvement” hanno già individuato le condizioni organizzative, didattiche e sociali che rendono alcune scuole più efficaci di altre in termini di valore aggiunto, ma gli studi di caso potrebbero dirci qualcosa di più in rapporto al contesto italiano. Ovviamente, questo tipo di ricerca qualitativa deve avere come committente il MIUR e come braccio operativo l’INDIRE.

Un secondo dato – riportato al punto 9 della sintesi – evidenzia, invece che la variabilità dei risultati tra le classi di una stessa scuola, nel Mezzogiorno, è molto elevata ed interessa perfino la scuola primaria. Anche questo dato ci dice qualcosa a livello di impatto sociale, ovvero sull’incapacità di alcune scuole di fare equità, di fatto non esercitando la funzione principale che dovrebbero svolgere. Quali le cause? Se ne possono ipotizzare almeno due: la prima è l’inefficacia o l’assenza della funzione dirigenziale (si pensi ai tanti istituti scolastici in reggenza) sotto il profilo della promozione, coordinamento e leadership educativa (a proposito, verrà presa in considerazione nella valutazione dei dirigenti scolastici?). Ma questo fenomeno ci dice, indubbiamente, che i risultati degli apprendimenti dipendono in larga misura dalla qualità dell’insegnamento, ovvero dalla azione di insegnanti efficaci. E questa seconda motivazione ci pone di fronte ad un problema che non si risolve certamente con l’attribuzione del merito o con le sanzioni disciplinari, ma chiama in causa la sostanziale “irresponsabilità” – sul piano giuridico formali – dei singoli docenti in ordine ai risultati conseguiti personalmente.

 

La responsabilità dei docenti e quella dei dirigenti scolastici.

Ma, a questo punto, dobbiamo porci una domanda: ma le scuole sono responsabili dei risultati?

Il termine “risultati” è ricorrente nella normativa scolastica e, dunque, da qui bisogna partire per ragionare su come migliorare davvero gli apprendimenti dei nostri allievi/studenti. Non è più la quantità di apprendimenti in termini di conoscenze ed abilità che viene chiamata in causa, bensì la qualità. E la qualità si misura con l’efficacia degli apprendimenti che sono tali se sono agiti in modo attivo, se sono profondi e significativi tanto da poter essere utilizzati in modo autonomo rispetto al contesto scolastico in cui sono maturate conoscenze ed abilità. Ed è proprio l’efficacia degli apprendimenti scolastici che cercano di testare le prove INVALSI e, dunque, i risultati negativi rilevati sono da attribuire a conoscenze ed abilità inerti, frutto di una didattica insignificante, aggrappata alle lezioni cattedratiche, che richiede un apprendimento nozionistico e libresco basato su spiegazioni in classe, compiti a casa spesso insensati ed interrogazioni; che ignora metodologie didattiche e valutative formative, in grado di far lavorare gli allievi in gruppo intorno a prestazioni concrete, con le tecnologie e con strategie metacognitive e di apprendimento reciproco; che predispone ambienti di apprendimento pensati per stimolare curiosità ed interesse, che crea un clima d’aula basato su una comunicazione fluente, sulla cooperazione, sulla ricerca   e via di questo passo perchè è questo il sentiero che porta ad un apprendimento di tipo competenziale.

Ed è un sentiero che molti insegnanti debbono ancora scoprire sia perchè in questi ultimi due decenni l’aggiornamento e la formazione in servizio sono stati banditi dalle nostre scuole e affidati alla buona volontà e professionalità di singoli docenti innamorati del loro fare scuola e gratificati dai loro stessi allievi, sia per la mancanza di un profilo professionale che definisce i confini della libertà di insegnamento per potere grantire il diritto all’apprendimento formativo. E le scuole – nonostante riforme e controriforme, indicazioni nazionali e linee guida che impongono una progettazione curricolare basata su conoscenze e abilità finalizzate al raggiungimento di competenze che vanno certificate in quanto tali – si basano ancora sulla qualità casuale del singolo insegnante e sull’emanazione di leggi che gli stessi docenti spesso ignorano e che, pertanto, non provocano cambiamenti nella didattica.

Certo, stiamo semplificando, ma in questi ultimi anni la nostra esperienza di formazione focalizzata sulla progettazione curriculare per competenze   in tante scuole del nostro paese, ci ha fatto constatare che indicazioni nazionali e linee guida – tutte emanate tra il 2010 e il 2012 – non costituiscono l’orizzonte metodologico e didattico entro cui si muove l’azione formativa degli insegnanti anche se, in molti casi, sono riportati in modo dettagliato nel piano dell’offerta formativa della scuola.

Dunque, è facile concludere (e mi rendo conto di fare un’affermazione temeraria!) che questo livello di analisi – che si concentra sull’erogazione diretta dell’insegnamento – individua proprio nei docenti di classe gli autori di questo processo che è in rapporto diretto con l’apprendimento. E’ qui che l’insegnamento può creare quel   “valore aggiunto” testato dalla ricerca diacronica dell’INVALSI e, purtroppo, anche quello che possiamo definire come il “valore sottratto”, il quale è misurabile con i dati dell’insuccesso scolastico che si chiamano dispersione e mortalità scolastica.

Ma anche i dirigenti scolastici hanno la loro responsabilità sulla qualità degli apprendimenti e sulla capacità delle scuole di creare valore aggiunto/valore sottratto. Certo, c’è un rapporto indiretto tra le azioni di promozione, coordinamento, valorizzazione del personale, management delle risorse finanziarie e strumentali e la qualità, ovvero l’efficacia dell’offerta formativa di una scuola. Ricerche internazionali, però, confermano l’esistenza di una significativa relazione tra i processi organizzativi e gestionali e gli esiti scolastici. D’altronde il RAV – tra le aree di processo da migliorare – individua proprio quelle che sono di specifica attribuzione del dirigente scolastico. E che dire della Direttiva MIUR del 14 giugno che ha come oggetto la valutazione dei dirigenti scolastici, allorchè prevede, in premessa, “l’esigenza di valorizzare il Sistema Nazionale di Valutazione e“di costruire un sistema organico per dirigenti scolastici e insegnanti nonché di diffondere la cultura della valutazione cui ancorare priorità formative e obiettivi dirigenziali”.

Il cerchio valutativo, quindi, si può e si deve chiudere. E lo si può fare se le responsabilità di tutti vengono individuate insieme alle responsabilità di ciascuno.

I complessi e rapidissimi stravolgimenti economici e sociali che stiamo vivendo fanno crescere le attese nei confronti deli sistemi scolastici, tanto che   viene chiamato a responsabilità tutto il personale della scuola che ha a che fare con gli esiti scolastici. Il processo di autonomia, avviato con il D.P.R. 275/1999 e oggi faticosamente in via di completamento con la legge 107/2015, pone le scuole in una trama complessa di rapporti e di relazioni ma troppo appesantita da incombenze burocratiche di vario genere che sono contro la natura stessa della scuola e distolgono docenti e soprattutto i dirigenti scolastici dallo loro missione autentica.

Si rende necessario ed urgente mettere in moto una sorta di “controllo di gestione della conoscenza” – cioè il monitoraggio e la tenuta dei vari passaggi attraverso i quali la scuola propone la sua offerta formativa e realizza la sua funzione sociale. Che significa conseguire gli obiettivi strategici individuati dalla legge 107/2015 nonché quelli prioritari individuati da ciascuna scuola nel proprio piano di miglioramento.

E la scuola diventa davvero buona se diventa efficace.

Le reti di scuole

Le reti di scuole
Elementi di sviluppo del sistema o sovrastrutture burocratiche

di Gian Carlo Sacchi

 

Con la “personalità giuridica” venivano sanciti i poteri che la legge attribuiva alle autonomie scolastiche, a seconda delle dimensioni quanto-qualitative individuate. Anche se con il passare degli anni gli istituti diventarono sempre più grossi, soprattutto per motivi di risparmio della spesa pubblica, cosa che potrebbe continuare, da messaggi che vengono lanciati sul futuro delle dirigenze, nacque fin dall’inizio la preoccupazione di un rischio autonomistico connesso con la polverizzazione delle istituzioni sul territorio ed il connesso indebolimento dell’azione dei singoli, mettendo a repentaglio la qualità del servizio. Si trattava di immaginare un livello intermedio di rappresentanza al fine di attivare un confronto con gli attori locali.

L’autonomia delle scuole è stata concepita all’interno di un processo di decentramento e dimagrimento dello Stato, che voleva trasferire compiti agli enti territoriali, ma finì per essere il vaso di coccio, tra due potenze, quella statale poco convinta del mutamento di ruolo e quella locale che tentò di impadronirsi delle scuole stesse e comunque manifestando disorientamento e quasi fastidio di avere competitori sul territorio. Un “sistema” delle autonomie avrebbe dovuto costituire il nuovo assetto istituzionale, con il riconoscimento non solo giuridico di quelle scolastiche, come strumento di sussidiarietà orizzontale nel rappresentare le comunità in campo educativo. In tale ottica non si trattava più di avere un governo monolitico, ma un reticolo amministrativo costituito da una pluralità di soggetti pubblici e privati che si raccordano attraverso un’organizzazione a rete, caratterizzata da dinamiche di collaborazione e interdipendenza.

Il decreto che ha cercato di indicare i nuovi orizzonti dell’autonomia sul piano didattico-organizzativo li ha ristretti su quello della governance. Fu introdotto infatti il principio dell’autonomia “funzionale” che manteneva la scuola saldamente all’interno dell’ordinamento statale e per sostenere le debolezze furono introdotte le “reti”. Esse dovevano diventare una scelta organizzativa obbligata ma non obbligatoria, occorreva promuovere da parte delle scuole stesse una cultura di rete come aggregazione spontanea, snella e flessibile, non istituzionalizzata. Doveva fondarsi su un sistema sociale coeso, frutto di convergenti interessi, non costretti in confini geografici, senza una precisa identità giuridica. Il concetto di rete richiama una struttura orizzontale in cui i poteri dei singoli componenti non sono attribuiti attraverso una modalità top down; la pubblica amministrazione è chiamata a sostenere la società nella sua capacità di autoorganizzazione, anche con la costituzione di “centri di servizio”, variamente denominati nei provvedimenti che alla fine del secolo scorso caratterizzavano le diverse autonomie e di cui non vi è più traccia se non in modo vago tra gli impegni delle scuole sul fronte dell’innovazione. Oggi si torna ad identificare tali centri con gli uffici dell’amministrazione, ma sul piano politico si propongono ancora “nuclei per la didattica avanzata” (Movimento 5 Stelle), come articolazioni territoriali individuati d’intesa con gli EELL. Si vuole una “scuola diffusa”, di cui forse già parlava Freinet, un network aperto con i genitori e il territorio.

Il processo culturale e professionale si è rivelato però più maturo di quello politico, a cominciare dall’autonomia “incompiuta”, anche se “fatta salva” dalla riforma del titolo quinto della Costituzione del 2001. A seguito dell’abolizione delle province e della riorganizzazione delle reti-unioni o fusioni dei comuni, potrebbe essere necessario rimettere mano anche alla revisione delle autonomie scolastiche, a seconda se queste propenderanno per il versante locale, entrando cioè in rete con altri servizi, socio-sanitari, i “distretti produttivi”, ecc., o se rimanendo ancorati all’amministrazione scolastica rischiano di essere comprese in ambiti che le porteranno a frantumazione anche nelle stesse città.

Le reti comunque non devono essere l’ennesima struttura burocratica, ma l’espressione viva della partecipazione-progettazione delle scuole nei territori. Le ricerche dimostrano che la gestione centralizzata statale ha fallito proprio sul terreno dell’equità; ciò che emerge in maniera chiara è che la decentralizzazione appare come la base di sviluppo della moderna società, caratterizzata da un alto grado di complessità. Per le scuole del terzo millennio è importante entrare in una logica di sistema aperto, realizzare forti sinergie con il territorio e potenziare le azioni di network, aspetto questo che richiama di per sé il concetto di rete. Nell’esperienze in atto, e vedremo come evolverà la situazione con le recenti normative, molte reti prevedono la presenza stabile degli EELL, dov’è un tessuto fiduciario che consente di valorizzare il capitale sociale presente sul territorio. Ma se l’autonomia deve essere completata occorre mettere mano alla governance, a partire cioè alla revisione dei così detti “organi collegiali”.

Diversi tentativi sono stati fatti al riguardo, ma senza esito, ora attendiamo l’esercizio della delega contenuto nella legge 107 che però ha bisogno di un confronto sui presupposti per arrivare veramente al compimento dell’autonomia che la stessa afferma, ma che in concreto desta ancora non poche preoccupazioni, come si dirà in seguito. Nel 2012 un provvedimento veniva varato in sede legislativa dalla Camera, ma rimase lettera morta; esso si muoveva sul versante autonomistico, prevedeva l’autonomia “statutaria”, la redazione di piani formativi territoriali per attività in rete, una rappresentanza delle scuole autonome ai vari livelli territoriali fino al “Consiglio Nazionale dell’Autonomia Scolastica”, come organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, EELL e Scuole, nonchè di tutela dell’autonomia stessa, assieme alla libertà di insegnamento ed alla qualità del sistema. Alle Regioni la definizione di strumenti, modalità e ambiti territoriali, già indicati dal DPR 288/1998 come elementi di programmazione del servizio.

Non tanto tempo fa (2013)anche l’attuale Ministro Giannini, da parlamentare, presentò un progetto di legge al riguardo, che affidava alle scuole la promozione e la partecipazione a reti, associazioni e consorzi; alle conferenze regionali la programmazione di un sistema educativo, scolastico e formativo, che veniva definito “integrato”. Le Regioni, d’intesa con gli EELL e con le autonomie scolastiche, potevano definire gli ambiti territoriali. Alle conferenze partecipavano i comuni, singoli o associati, l’amministrazione scolastica regionale, le università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà culturali, professionali e dell’impresa. Fino alla completa attuazione del Titolo Quinto della Costituzione era l’USR ad esercitare i compiti di controllo (ma il Titolo Quinto, benchè sostenuto da referendum popolare, non fu mai applicato……).

I più autonomisti ancora si imbarcarono nelle “Associazioni” (ASA…), una sorta di ANCI delle scuole. Una ricerca, forse l’unica, realizzata dall’Università di Bressanone, mise in evidenza l’attivismo delle scuole stesse in quella direzione e il totale loro disconoscimento dell’amministrazione scolastica. Un atteggiamento ambiguo ma possibilista da parte delle autonomie regionali e locali.

Le associazioni andavano cercando una configurazione giuridica forte (atto pubblico davanti al notaio) per poter partecipare ai tavoli decisionali della politica scolastica, ma furono combattute e viste più come antagoniste che come interlocutori. L’amministrazione scolastica non ha mai voluto rinunciare alla rappresentanza ed alla gestione delle scuole. Anche sul piano giuridico furono mantenute le prerogative dell’avvocatura dello stato (le associazioni chiedevano di potersi costituire autonomamente in giudizio); nelle conferenze di servizio siedevano i dirigenti dell’amministrazione e non quelli delle scuole. Le reti qui agivano da organismo di secondo livello: reti di associazioni.

Questa situazione ha riguardato alcune scuole del nord del Paese; di loro non si sa più nulla, i sindacati pensavano che dovessero tutelare soprattutto i dirigenti e molti di loro si dimostrarono alquanto individualisti e non animati da spirito associativo.

Ritornava il problema della rappresentanza e per un certo tempo si pensò anche all’ARAN, l’agenzia che sigla i contratti, ma proprio qui si consumò un’altra contraddizione: chi stipulava i contratti per conto dello Stato ai pubblici dipendenti non aveva conoscenza specifica del mondo scolastico e quest’ultimo non veniva coinvolto.

Le associazioni non volevano essere solo professionali o sindacali, ma esprimere in modo trasversale le esigenze delle autonomie. Bisognava superare la rappresentanza per componenti, si voleva creare qualcosa che riguardasse tutta la scuola in quanto istituzione autonoma. Se i piccoli comuni associati nell’ANCI potevano acquistare forza e far sentire la loro voce, così era ipotizzato per l’ANCI delle scuole, che superava con un’azione dal basso la predetta debolezza. Debole fu la politica che non permise mai l’uscita delle autonomie scolastiche dal contesto della Pubblica Istruzione. L’associazionismo tra le scuole andava compreso negli accordi tra le pubbliche amministrazioni previsti dalla legge 241/1990, ma così non è stato e quindi per esse non fu mai possibile offrire una copertura giuridica e tutto fu ridotto ad associazioni di diritto privato sebbene formato da enti pubblici che pur hanno personalità giuridica.

Con il decreto “semplifica Italia” il governo Monti (2012) si pronunciò a favore del potenziamento dell’autonomia con la costituzione di reti territoriali, attraverso l’intesa in conferenza Stato-Regioni, fino alla definizione di un “organico di rete”.

Una lunga vicenda, quella che si è cercato sommariamente di descrivere, che mette in evidenza non tanto la debolezza delle scuole autonome, quanto dell’autonomia medesima, che in vario modo si è cercato di camuffare con le reti, ora in chiave amministrativa, ora politica, ora didattica.

Il decreto 275 del 1999 dava alle scuole la potestà di promuovere accordi di rete o di aderirvi per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali, a tutto campo, compreso lo scambio temporaneo dei docenti. Sempre ad esse la possibilità di stipulare convenzioni e partecipare ad accordi, a consorzi . Fino a qui , seppur tra non poche contraddizioni, si era andati in un’unica direzione.

Con la legge 107, sebbene gli esegeti di palazzo affermano che c’è continuità, si sancisce che sono gli Uffici Scolastici Regionali, cioè l’amministrazione scolastica, a promuovere la costituzione delle reti. Due tipi di reti: quella d’ambito, composta da tutte le scuole presenti entro un certo confine geografico, definito sempre dagli stessi uffici, e quella di scopo, spontanea, più simile a quella indicata dalla precedente normativa, ma sempre derivante dalla prima. E’ la rete d’ambito che “indica le priorità che costituiscono la cornice entro la quale devono agire le reti di scopo e ne individua motivazioni, finalità, risultati da raggiungere”. L’organico di rete è già predeterminato dal così detto organico dell’autonomia, dentro al quale i dirigenti in futuro potranno scegliere i docenti. La catena del comando, come si direbbe in gergo militare, passa dunque attraverso gli UUSSRR e arriva alla conferenza dei dirigenti scolastici della medesima, assimilata alla conferenza dei servizi di cui alla predetta legge di riforma della pubblica amministrazione, con il “coinvolgimento” dei consigli di istituto.

Con la rete di scopo sarà possibile “coinvolgere” gli EELL, mentre con quella d’ambito si cerca di riportare allo Stato la programmazione della rete scolastica, oggi attribuita alle Regioni. E’ quest’ultima infatti che “definisce le linee generali della programmazione territoriale”. All’epoca del ministro Falcucci i “distretti” potevano svolgere la funzione di ambito, ma almeno c’era una componente partecipativa.

Anche se ampollose sono le competenze affidate alle reti, che questo alla fine sia un miglioramento per l’autonomia delle scuole, con le varie modalità espresse in precedenza, si può avere più di un dubbio, il che sarà senz’altro confermato dall’approvazione del nuovo titolo quinto della Costituzione che sta per essere sottoposto a referendum. Anche lì si parla di fare salva l’autonomia, ma non essendo declinata in modo esplicito nel provvedimento costituzionale, sarà quella che lo stato attribuirà alle scuole.

La rete, lo dicono chiaramente i documenti ministeriali che oggi interpretano la legge, è una “modalità di organizzazione amministrativa del territorio”, che anziché andare verso lo stesso, continua a tenere le scuole ben agganciate all’amministrazione statale. I corsi e i ricorsi, che abbiamo cercato di documentare. Tutto questo sarà davvero una crescita, una migliore sinergia, una maggiore qualità, un rinnovamento per la scuola italiana ? Questa modalità di governo, dirigistica, che arriva fino ai dirigenti scolastici, l’avevamo già provata e l’ultimo ventennio è lì a dimostrare che era necessario cambiare. Ora senza tanti infingimenti torniamo là. Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza. Purtroppo delle reti attuate in base all’art. 7 del DPR 275, non sappiamo gran che.

La parità apodittica

La parità apodittica

di Piero Calamandrei

La sentenza 6696 del 2016 potrebbe segnare una svolta per l’istruzione italiana. Sinora un istituto privato poteva ottenere la parità, se poteva essere considerato pari ad un corrispondente corso di istruzione statale.

Dopo il citato deliberato del Tar Lazio Sezione Terza bis, tale fondamentale requisito non conta più.

Non conta nemmeno se il Ministero emette una nota AOODPIT n. 170 del 22.01.2013 con la quale comunica che il Liceo scientifico ad indirizzo sportivo potrà essere avviato solo dall’a.s. 2014/15 tanto nelle scuole statali, quanto nelle scuole paritarie per effetto della successiva nota n. 270 del 01.02.2013.

Speriamo che il Consiglio di Stato, se chiamato a riesaminare la questione, centri l’effettivo problema posto.

La sentenza risolve una questione posta da un istituto paritario di Latina, che nel 2013/14 intese avviare una sezione sportiva, pur vigendo il rinvio dell’implementazione dell’innovazione all’anno successivo.

L’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio, ricevuta l’istanza, negò la parità, comunque dopo aver svolto gli accertamenti. Si ritenne in sede di motivazione un inutile aggravamento del procedimento citarli, perché non si può ottenere la parità a qualcosa che nello Stato non esiste. Il giudice amministrativo afferma che si tratta di “motivazione non soddisfacente a rappresentare l’iter giuridico seguito oltre che meramente formale, non esternando eventuali carenze sostanziali riscontrate in ordine alle strutture o al progetto formativo e soprattutto non comunicando, ai sensi dell’art. 10 bis legge 241/90, le reali ed obiettive ragioni del diniego”.

Ora aspettiamoci che qualche altro istituto richieda la parità ad un indirizzo previsto dalla Riforma Berlinguer oppure esistente in Francia o in Germania. Perché oggi la parità può essere richiesta ed ottenuta da chiunque. E se non la si ottiene non c’è problema: con un ricorso si potrà ottenere quello che è un diritto, ma non di tutti, solo di chi può pagarsi il ricorso: quello alla parità apodittica.


Sentenza TAR Lazio 21 aprile 2016, n. 6696