R. Martos, I baci non sono mai troppi

“I baci non sono mai troppi” un romanzo di Raquel Martos
Economica Feltrinelli 2013

di Mario Coviello

 

Stupendo il passo di apertura di “I baci non sono mai troppi” romanzo d’esordio di Raquel Martos, tratto da “Sulla strada di Jack Kerouac: “A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle” Ai romanzi che parlano di amicizia non so resistere. Con le storie di amicizia mi sento in un territorio sicuro, anche se l’amicizia non è altro che una diversa forma di amore.Grazie al gioco dei rimandi letterari che ogni lettore conosce, mi sono trovato a seguire le mollichine di pane che mi hanno condotto a Raquel Martos, un’autrice spagnola che non conoscevo. La copertina e la sinossi mi sono piaciute, l’edizione molto economica ( due libri dell’Economica Feltrinelli a 9,90 euro) si prestava particolarmente a viaggiare con me, così io e questo libro siamo stati insieme in queste ultime settimane.

La storia si sviluppa su due piani temporali: il passato e il presente. Nel passato l’evolversi dell’amicizia tra Eva e Lucìa: gli anni della scuola, la crescita, i rapporti familiari, i primi amori e infine l’improvvisa separazione. Nel presente il ritrovarsi a distanza di anni, con due vite diversissime: Eva madre di una bimba piccola e con un matrimonio in crisi, mentre Lucìa restìa a prendere impegni sentimentali, lanciata alla conquista della carriera. L’incontro casuale produrrà esiti inaspettati: le vite delle due si confonderanno portando il caos e un pizzico di follia dove regnava l’assennatezza e una nuova voglia di legami e di responsabilità laddove la libertà era l’unica regola. “ I baci non sono mai troppi “ è un libro dolce e delicato…sull’amicizia, quella vera…sui sentimenti, quelli forti…che ricorderai per sempre…

La scrittura è semplice e chiara, non servono grandi parole o descrizioni ampollose per raccontare gioie e dolori delle protagoniste, la storia è coinvolgente, arriva dritta al cuore del lettore fino a emozionarlo. L’autrice ha il dono di raccontare situazioni scomode e dolorose con realtà ed estrema delicatezza. E con la stessa semplicità scrive grandi verità, come quando definisce l’amore: “ Mi viene in mente che quest’altalena è una metafora efficacissima dell’amore: quando uno è in alto, l’altro è in basso. C’è soltanto un punto di equilibrio nel quale quelli che dondolano sono entrambi alla stessa altezza. Questo punto, però, è molto instabile: immediatamente il peso di uno dei due sposta di nuovo l’equilibrio mettendo così in luce la disuguaglianza.” E ancora “Come si regge in piedi la nostra vita quando scompare una delle colonne che la sostengono?… Il processo è semplice, ragazzina…dividiamo il peso sulle altre colonne e così riusciamo a non crollare. A volte, quando soffia un vento forte, sentiamo che la struttura traballa. Quel dondolio ci ricorda quello che abbiamo perso e che dobbiamo tenerci forte per poter proseguire il cammino.”

Questo è un romanzo pieno di baci…baci pieni di amore per una figlia…
Baci fra adolescenti inesperti…Baci in cui più che baciarsi…ci si respira… E’ un libro che fa riflettere sul valore della vita, su come a volte sprechiamo il tempo in inutili silenzi e rancori, ma al tempo stesso consiglia che non ci sarà mai spreco di baci. Perchè come dice Eva, “E che c’è di male in un bacio?
Niente, ma dare un bacio a chi non volevi dare non si fa. È stupido. È come buttarlo via. Ma i baci non sono mai troppi: non si esauriscono e non ne abbiamo una riserva limitata. Si può sempre darne altri”…

Nuovo regionalismo

Nuovo regionalismo
Non roviniamo ancora tutto

di Gian Carlo Sacchi

 

E’ ancora vivo il ricordo del processo di modifica del titolo quinto della Costituzione culminato nel 2001 con un referendum confermativo a carattere nazionale al quale ha preso parte circa il 34% degli italiani. Era cominciato con l’idea di federalismo sul modello tedesco, anche se sappiamo provenire da storie diverse, voleva confermare ed ampliare i poteri delle regioni a statuto ordinario mai definiti in modo completo e adeguato, nonché il decentramento dei servizi proposto dalla riforma della pubblica amministrazione. Il dibattito di quegli anni infatti si incentrava sul passaggio di competenze e strutture dal governo centrale a quelli locali.

Ad un certo punto ci fu un’accelerazione del percorso per effetto di uno spirito secessionista che aleggiava in alcune regioni del nord. Questo atteggiamento costrinse anche chi era favorevole all’autonomia dei territori a chiudersi in difesa dell’unità nazionale, valore fondamentale indicato dalla stessa Costituzione. Un altro referendum denominato devolution non ebbe successo. Il messaggio era dunque chiaro: autonomia sì, indipendentismo no. L’obiettivo fin da allora era quello di valorizzare la società civile ed il suo protagonismo nell’indicare le proprie rappresentanze territoriali e nelle regioni la capacità legislativa intermedia per l’amministrazione di una notevole quantità di materie che derivavano dallo stato centrale, il quale aveva perso di efficienza e soprattutto non riusciva ad interpretare le esigenze delle diverse realtà locali, che senza mettere ormai più in dubbio l’unità nazionale, potevano meglio esprimere le proprie potenzialità nell’interesse comune. Si voleva applicare il principio di sussidiarietà che nel frattempo era stato adottato anche nella legislazione europea.

L’acuirsi del conflitto politico non aiutò il completamento del processo in atto, anzi lo rallentò, senza che il nuovo titolo quinto fosse applicato; Stato e Regioni continuamente davanti alla Corte Costituzionale per difendere le rispettive prerogative giocate perlopiù sulla duplicazione dei poteri nelle stesse materie, anzichè la revisione delle competenze statali in termini di “norme generali” e “livelli essenziali delle prestazioni” per la garanzia dei diritti di cittadinanza. Anche la legge sul federalismo fiscale che introduceva modi nuovi per calcolare la spesa pubblica e per considerare le ricadute nella gestione da parte degli enti locali dei tributi dei cittadini, rimase a mezz’aria. Questa situazione di incertezza aveva spinto verso una sorta di controriforma della seconda parte delle nostra carta fondamentale che riportava i poteri di nuovo al centro, senza ottenerne però l’approvazione in un ulteriore referendum. Sulla strada delle autonomie dunque indietro non si torna.

Una cosa buona la Costituzione del 2001 l’ha lasciata: l’art. 116 che prevede la possibilità da parte delle regioni che lo chiedono, con capacità fiscale e oculatezza finanziaria, di ottenere attraverso una legge dello stato approvata a maggioranza qualificata che materie appartenenti alla “competenze concorrenti” tra stato e regioni possano diventare esclusive di queste ultime, per rendere un servizio più qualificato ai propri cittadini, ma soprattutto per potersi meglio relazionare con realtà concorrenti e prendere parte a processi di internazionalizzazione.

La macchina dell’autonomia si è rimessa in moto; il vantaggio è che dai territori si riparte con il consenso di quasi tutte le forze politiche e che le stesse al centro assumano un comportamento coerente, ma il rischio è che lo spirito indipendentista si ripresenti e di nuovo alzi il polverone della ricerca unilaterale di definizione dei termini del contendere in modo che la trattativa centro-periferia si interrompa un’altra volta ed ancora prima di incominciare.

Non c’è dubbio che il segnale referendario di Veneto e Lombardia abbia fatto alzare la cresta a chi cerca di goderne della paternità politica, anche perchè vista l’alta partecipazione le diverse forze in campo stanno cercando di condividerne il merito, ma se davvero c’è questa volontà allora non servono fughe in avanti che determinerebbero un’altra resistenza, ma il rispetto dell’iter procedurale indicato dal predetto articolo 116, davanti al quale c’è la legge ordinaria per tutte quelle regioni che lo vorranno e che ne avranno i requisiti. Si tratta di una responsabilità del nuovo Parlamento e di una campagna elettorale che dovrà orientare in tal senso i suoi futuri componenti.

Con un po’ di fantasia si potrebbe pensare di riuscire nella prossima legislatura a mettere ancora mano ad una riforma costituzionale in senso autonomistico che possa portare a termine definitivamente un regionalismo efficiente, ma responsabile e solidale, anche senza cambiare la geografia del Paese. Non si tratta infatti di egoismo localistico, di cui alcuni parlano, ma le risposte a questi referendum dimostrano che i cittadini hanno ancora attenzione alle attività di governo, se li interessano direttamente, mentre è sempre inferiore la partecipazione a consultazioni mediate dalla politica. Attraverso le regioni si contribuisce a costruire una più efficace identità europea, la loro autonomia consente infatti una più diretta capacità di competere senza dover passare attraverso le burocrazie nazionali.

Non può essere i residuo fiscale in astratto la materia del contendere, ma l’autonomia si gioca sulle materie alle quali ovviamente corrispondono i finanziamenti e quindi anche la tassazione, ma far leva solo sul significato evocativo di quest’ ultima è un modo sbagliato sia di premere sull’autonomia medesima, sia di blandirla con la solita promessa elettorale della diminuzione delle tasse per tutti. E’ sul trasferimento di poteri e responsabilità che si può costruire un progetto per tutto il territorio nazionale, spingendo anche regioni in difficoltà a mettersi in regola, ma soprattutto è sulle competenze che danno origine ai servizi che responsabilizzano gli amministratori (ai quali si può anche minacciare la non ricandidatura, com’era già previsto in uno dei decreti applicativi del federalismo fiscale) e coinvolgono i cittadini.

Non si possono nemmeno inseguire le regioni a statuto speciale, non tutte sono tra l’altro un esempio virtuoso, questo è un problema che deve vedere superate le rispettive ragioni storiche, ma una maggiore autonomia potrà consentire a quelle confinanti un rapporto più duttile e produttivo.

Nel pacchetto di misure da trasferire ci saranno sicuramente quelle relative all’istruzione e formazione professionale, oggi considerate un perno della strategia formativa. E’ questo l’orizzonte entro il quale andrà definita l’autonomia delle istituzioni scolastiche, che esca finalmente dall’ottica ministeriale e si avvii ad essere una componente del sistema delle autonomie territoriali, senza aver paura che si producano disuguaglianze nel sistema se lo stato assumerà davvero il compito di indirizzo e di controllo, come già indicato dal predetto titolo quinto. Non può essere questa l’occasione per trasferire in modo esclusivo le competenze alle regioni su tutto il comparto scuola, come per quelle a statuto speciale, ma sul fronte dell’istruzione e formazione professionale, dei rapporti con il mercato del lavoro, per tutte quelle attività di sostegno agli studenti, la programmazione del servizio e ciò che maggiormente inerisce alle caratteristiche della domanda sociale in materia si deve andare fino in fondo con il decentramento cercando risposte sul territorio.

Si possono dunque riaprire le trattative con il governo nazionale se l’obiettivo è, come si è detto, quello delle materie da trasferire, anche se qui non siamo all’anno zero, anzi è quasi già tutto fatto con i decreti applicativi della legge sul federalismo fiscale, che descrivono sia gli oggetti che definiscono le “funzioni fondamentali” dei vari enti, sia le modalità di determinare le coperture finanziarie, in una gestione così detta “multilivello”. Evitiamo dunque di uscire dal seminato, vanificando così anche il voto di tanti, perché sarebbe un vero peccato sprecare un’altra occasione, visto che i cittadini ci hanno consegnato una visione autonomistica del nostro sistema, nel 2001 e lo hanno ribadito nel 2016. Se anche questa volta ci sarà chi vorrà ottenere di più del consentito per farne oggetto della solita contesa politica, non ci si lamenti poi della disaffezione e dei ritardi istituzionali.

Percorsi e strumenti accessibili alla Galleria nazionale d’Arte moderna di Roma

Redattore Sociale del 24-10-2017

Percorsi e strumenti accessibili alla Galleria nazionale d’Arte moderna di Roma

ROMA. Continua a crescere e ad estendersi, il progetto “Museo per tutti – Accessibilità museale per persone con disabilità intellettiva”, partito a gennaio 2015, da un’idea dall’associazione “L’abilità onlus”, con il sostegno e il finanziamento della Fondazione De Agostini. L’iniziativa intende costruire percorsi e strumenti specifici all’interno di musei e altri luoghi di cultura, per la completa fruizione da parte delle persone con disabilità intellettiva, bambini e adulti.

Ora, l’iniziativa sbarca alla Galleria nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, per consentire alle persone con disabilità intellettiva di godere di un percorso di visita facilitato e inclusivo. Dopo aver concluso la fase di formazione del personale e di progettazione, la Galleria Nazionale potrà offrire una guida di lettura facilitata e un percorso educativo permanente, che aiuterà le persone con disabilità intellettiva a comprendere e fruire le opere d’arte. La guida, che può essere scaricata dal sito internet della Galleria Nazionale oppure ritirata presso la biglietteria, è stata focalizzata sulla traduzione in linguaggio facilitato della spiegazione di cos’è la Galleria e di alcune delle opere d’arte della collezione. L’obiettivo è diminuire lo stress e le difficoltà di comprensione e aumentare il coinvolgimento emotivo e cognitivo, grazie anche al fatto che la visita avviene in una logica di inclusività con gli altri visitatori del museo, in modo tale che ogni esperienza sia un piacere da condividere insieme.

Nelle prossime settimane sarà avviata la fase di sperimentazione, durante la quale le persone con disabilità intellettiva e i loro accompagnatori potranno utilizzare i materiali educativi preparati ad hoc per poter familiarizzare, in anticipo sulla visita, con gli spazi del museo e le opere.

“Con la Galleria Nazionale di Roma un altro tassello importante si aggiunge alla rete di Museo per tutti – afferma Carlo Riva, direttore di “L’abilità onlus”, ideatore e responsabile del progetto Museo per tutti – La piena fruizione della bellezza di un’opera d’arte migliora la qualità della vita delle persone con disabilità e costruisce una nuova società dove tutti condividono cultura e senso di comunità. Per questo l’associazione l’abilità onlus fin dalla sua fondazione promuove benessere per la persona con disabilità e una nuova cultura della disabilità”.

“Siamo particolarmente lieti e orgogliosi di accogliere la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea tra i luoghi d’arte che hanno aderito al progetto Museo per tutti – afferma Chiara Boroli, Segretario Generale della Fondazione De Agostini. – Dal 2013 stiamo lavorando con l’associazione l’abilità per portare questa iniziativa nei Musei, negli spazi espositivi e in luoghi di cultura di tutta Italia, per permettere alle tante persone con disabilità intellettiva di poter godere del piacere e della bellezza di un’opera d’arte. L’immenso patrimonio culturale italiano ci offre una importante e preziosa occasione per sostenere il diritto alla conoscenza delle persone con difficoltà cognitive e per questo ci siamo impegnati a sostenere i costi relativi alla implementazione e allo sviluppo del progetto che vogliamo far conoscere e far crescere ancora in futuro”.

MIUR attivi l’Osservatorio per l’inclusione scolastica

FAND e FISH: “MIUR attivi l’Osservatorio per l’inclusione scolastica”

 

Per la reale adozione delle più recenti disposizioni in materia di ‘Buona scuola’ e soprattutto per la applicazione congruente ed operativa delle norme relative all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità è necessario un costruttivo e costante confronto anche con le Federazioni.”

Questa la convinzione espressa all’unisono da FAND – Federazione tra le Associazioni Nazionali delle persone con Disabilità e la FISH – Federazione Italiana per il Superamento Handicap e rivolta come appello al Ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli.

Non intendiamo solo offrire ancora una volta la nostra costruttiva disponibilità, ma desideriamo richiamare anche il rispetto di una esplicita previsione normativa del recente Decreto Legislativo n. 66/2017: la formale costituzione, presso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dell’Osservatorio permanente per l’inclusione scolastica, che si raccorda con l’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità. Ad esso sono attribuite competenze rilevanti e articolate in termini di monitoraggio e proposta, ma anche il compito di delineare strumenti di progettazione educativa e personale.”

Concordano sull’urgenza della costituzione, insediamento e solerte avvio delle attività i presidenti di FAND (Franco Bettoni) e FISH (Vincenzo Falabella). Una ulteriore dilazione dei tempi non potrebbe che ritardare l’effettiva cogenza del Decreto 66/2017 che ha significativamente ad oggetto “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità”.

Il Presidente Nazionale FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap Il Presidente Nazionale FAND – Federazione tra le Associazioni Nazionali delle persone con Disabilità
Vincenzo Falabella Franco Bettoni

Si allarga anche nella scuola la forbice retributiva

Si allarga anche nella scuola la forbice retributiva

di Gabriele Boselli

 

Da notizie di stampa si apprende che i presidi riceveranno un aumento di 400 euro netti al mese mentre gli insegnanti dovranno accontentarsi di soli 85 lordi (in pratica meno di una cinquantina), sempre che non vengano tolti dalla cifra gli 80 già elargiti da Renzi in occasione delle passate elezioni.

Questo comporta un forte allargamento della forbice retributiva che porterà i presidi a superare i 3000 netti mensili (con le varie indennità per dimensione degli istituti, reggenze etc. spesso ben oltre) e manterrà i docenti abbondantemente  sotto i 2000.

 

 

Il fenomeno dell’allargamento della forbice retributiva si verifica non solo nella scuola ma in ogni settore del lavoro pubblico e privato e viene ovunque perseguito per dominare i dipendenti separandoli in categorie fortemente differenziate per retribuzione come per status. Per quest’ultimo aspetto attraverso tecniche di valutazione con effetti economici e d’immagine: attualmente nella scuola i docenti sono valutati monocraticamente a discrezione del loro dirigente, mentre i loro “superiori” (di solito non per cultura) lo saranno, solo in futuro per gli aspetti retributivi, a opera di una commissione composta principalmente da colleghi dirigenti in altri istituti.

Si afferma dunque un approccio pseudo-efficientista e gerarchico in cui prevale un manager magari incolto ma dichiarato “responsabile dei risultati”, ben pagato e senza tanti lacci e lacciuoli.

 

Effetti sistemici della povertà di cultura delle nuove èlites

Il crescente differenziale economico tra le varie categorie non è un caso ma un effetto della povertà di cultura delle èlites del potere. Quel che manca in alto loco e nei documenti ufficiali è l’assenza di una visione complessiva, filosofica e, in senso alto, politica. Sono in genere carte (oggi files) aliene dallo state of the art della ricerca, da una cultura ormai divenuta pluriassiale e complessificata dalla globalizzazione. Dal MIUR, segnali di contatti culturali significativi con il Novum non sono pervenuti da molti anni e quelli con il classico si vanno dissolvendo. Penso, oltre che all’incremento del differenziale retributivo, alla programmazione per competenze che ove fosse perseguita inibirebbe la capacità di conoscere, alla valutazione di docenti e dirigenti, alla normativa dell’alternanza scuola-lavoro (né scuola, né lavoro). Per fortuna la realtà delle scuole è poi assai migliore di quella delle circolari.

Il basso profilo dei gruppetti che egemonizzano il MIUR e la miopia del MEF hanno fatto sì che troppo spesso siano entrati in ruolo (tanto docenti che dirigenti) per diritto di stagionatura in graduatorie o per grazia di commissioni dei concorsi dirigenziali che hanno promosso (vedi Campania, Sicilia….) percentuali di concorrenti vicine alla totalità. A volte anche per assurde sentenze di magistrati resi irresponsabili dal non dovere, al contrario di ogni altro pubblico funzionario, rispondere delle conseguenze anche economiche dei propri atti.

Quel poco di formazione in servizio iniziale che si è fatto è stata incentrata non su tematiche culturali e pedagogiche ma su questioni giuridiche e organizzative; questioni da trattarsi, certo, ma non le più importanti per chi dovrebbe illuminare e guidare docenti.

Valutare e retribuire come modo di riconoscere/disconoscere dignità

Vi è dignità quando vi è credito naturalmente concesso, riconoscimento di autonomia, fiducia. La dignità è messa in forse dalla diffidenza, dalla richiesta di prove del tutto incongrue o fasulle a sostegno del valore di un’organizzazione o di una persona. La diffidenza peraltro non migliora le prestazioni, induce ansia e la tentazione di abbandonare le azioni che valgono per perseguire solo i risultati che contano, quelli che sono registrati dal sistema di valutazione e premiati dalla retribuzione. Si individua ciò che conta ma nessuna tabella di dati può far individuare quello che vale nelle scuole: cultura, creatività, amore per l’altro. I processi valutativi e i differenziali retributivi determinano rivalità, frizioni tra omologhi, conflitti che assorbono buona parte delle energie, servilismo.

Il buon insegnante o dirigente ha come interlocutori abituali i classici della letteratura, della pedagogia, della filosofia, delle scienze che insegna; il valutatore a volte no. Il buon insegnante o dirigente detiene un prestigio culturale che lo mette in grado di rappresentare un fattore di orientamento per il suo istituto e di concorrere insieme ai dirigenti amministrativi e agli ispettori, a introdurre elementi di qualificazione culturale e scientifica.
 Se i suoi studi e le sue esperienze –non le sue competenze nella compilazione di schede- glielo avranno consentito.

 

Conclusione

Retribuire è sempre di più –nella scuola come altrove- un modo per premiare o castigare chi è o non è in linea con le direttive del Potere. Quest’ultimo, in una società post-democratica, ha come fine prevalente non l’esercizio della ragione ma la facoltà di violarla e l’autoperpetuazione di persona e/o di ceto sociale.

I più bravi tra i dirigenti con il nuovo assetto retributivo e il nuovo sistema valutativo rischiano: di fatto non più dirigenti (dirige chi ha autonoma intelligenza del fine e individua gli obiettivi) ma collaboratori amministrativi di un Sistema che li paga piuttosto bene perché diventino obbedienti. Per gli insegnanti che continuassero a nutrire idee maturate in un personale confronto con la cultura e la scienza è stato ampliato il differenziale economico e introdotto il deterrente del bonus, strumento di controllo di quella libertà di insegnamento finora protetta da un apparato costituzionale provvisoriamente salvato.

Scuola, Legge di stabilità: super aumento per i presidi, per i docenti 85 euro lordi (ma con beffa)

da la Repubblica

Scuola, Legge di stabilità: super aumento per i presidi, per i docenti 85 euro lordi (ma con beffa)

Le misure: 440 euro in più netti e concorso per i dirigenti, assunzioni per 2.500 bidelli. Ma il 40% dei prof rischia di perdere il bonus da 80 euro. Biennali gli scatti dei prof d’ateneo (ma lo sciopero continua)

Corrado Zunino

La manovra annunciata dal governo per la scuola, l’università e la ricerca ammontava a un miliardo e 95 milioni di euro. Quella che entra in Parlamento tra domani e mercoledì mantiene i livelli di spesa e destina il 3,5 per cento del Prodotto interno lordo all’istruzione. Emendamenti di maggioranza e (più difficile) d’opposizione potranno spostare piccole partite, ora non previste nel lungo articolato.

· PER I DOCENTI 85 EURO LORDI IN PIÙ
E’ partito il rinnovo contrattuale per i 3 milioni e 70mila dipendenti della Pubblica amministrazione: prevede, per tutti, un aumento di 85 euro lordi. Per il rinnovo 2016-2018 dei contratti di un milione e 191 mila tra docenti e amministrativi della scuola il costo a regime è indicato in 674,98 milioni di euro. Il 41 per cento dei docenti – 320 mila – guadagna meno di 25mila euro lordi l’anno e quindi, oggi, incassa il bonus mensile da 80 euro concesso da Matteo Renzi in apertura di legislatura. Con l’aumento previsto, questa larga area di docenti perderebbe il bonus: riceverebbe 85 euro per l’aumento in busta paga, ne perderebbe 80. Una beffa. C’è bisogno di risorse aggiuntive per evitarla. Alcuni sindacati, va detto, ribadiscono i loro dubbi sulla copertura degli aumenti annunciati.

· IL SUPER AUMENTO DEI PRESIDI 
L’ormai famosa “armonizzazione” degli stipendi dei presidi ci sarà e sarà sostanziosa. Oggi i dirigenti del resto della pubblica amministrazione, solo nella parte fissa dello stipendio, trovano una cifra quadrupla rispetto ai dirigenti scolastici: un responsabile dell’università o di un ente di ricerca guadagna in media 100mila euro lordi, un preside 58mila. Per adeguare la parte fissa della retribuzione dei dirigenti scolastici e di alcune figure dirigenziali dell’Istruzione il Miur ha istituito un fondo con 31,70 milioni per il 2018 e 95,11 milioni a decorrere dal 2019. L’adeguamento degli stipendi partirà da settembre 2018 e riguarderà gli attuali 7.993 presidi italiani: la crescita annuale sarà di 11.899,74 euro lorde a testa. Alla fine si parla di 440 euro netti al mese. Un aumento del genere non si vedeva da tempo nella pubblica amministrazione, e non è frequente anche nel privato. Il Governo Gentiloni, fatta propria la Buona scuola renziana, punta sui dirigenti scolastici come guide dei singoli istituti e li ricompensa sul piano economico.

Per i presidi è atteso in Gazzetta ufficiale, poi, il nuovo concorso necessario per coprire con 2.425 nuovi ingressi i vuoti esistenti. Nel 2017-2018 si sono contate 1.700 reggenze, ovvero scuole dirette da un dirigente scolastico con l’incarico di ruolo altrove.
In Legge di stabilità ci saranno i soldi per avviare – nel 2018 – un concorso pubblico anche per l’assunzione dei direttori dei servizi generali e amministrativi (Dsga), figure obbligatorie per le scuole con almeno seicento alunni. Potranno partecipare al bando gli assistenti amministrativi (quasi sempre non laureati) che, all’entrata in vigore della legge, avranno maturato almeno tre anni di servizio a tempo pieno negli ultimi otto. Ad oggi ci sono 1.213 posti di Dsga vacanti.

· L’ASSUNZIONE DI BIDELLI E AMMINISTRATIVI
L’assunzione dei 6.000 amministrativi Ata (tecnici e addetti ai piani) si è dimezzata con il passaggio della legge al ministero delle Finanze: nella Stabilità che entra in Parlamento vivono ancora 2.500 collaboratori scolastici e 500 assistenti amministrativi: saranno stabili da settembre 2018. Sono dodicimila i posti vacanti. L’articolo dovrà essere riformulato: non si potranno spendere più di 23,9 milioni di euro (che nel 2019 saliranno a 73,73 milioni). È stato fermato il passaggio sull’ingresso di cinquecento ministeriali (sono sguarniti gli uffici scolastici territoriali). Per i 754 assistenti amministrativi e tecnici che affiancano gli assunti in regime di collaborazione (Cococo) sono previste 465 stabilizzazioni “per titoli e colloquio”. Costo 16,2 milioni.

Non è entrato in legge, per ora, il ripristino delle supplenze brevi, eliminate dal Governo Monti. Il potenziamento degli Its, gli Istituti tecnici e superiori, è di nuovo a rischio: serve un fondo di 14 milioni crescente per consentire il raddoppio degli studenti dei corsi. Da ottomila a sedicimila. Oggi il finanziamento è a quota 13 milioni cui si aggiungono le risorse interne delle regioni più produttive. Serve, poi, un pacchetto di semplificazioni delle regole amministrative, a partire dalla governance. Il sistema Its nei primi sette anni di vita ha dato buoni risultati: 81 per cento di occupati a un anno dal diploma.

· ECCO I POLITECNICI DELLE ARTI (DI STATO)
Ci sono 5 milioni di euro per l’anno 2018 (quindi 15 milioni, 30 e 28 milioni nel triennio successivo) per rendere statale entro il 2021 la rete dell’Alta formazione artistica, musicale e coreutica. Nasceranno venti – non uno di più – Politecnici delle arti in cui confluiranno le attuali istituzioni Afam. Resteranno fuori dal nuovo contenitore l’Accademia nazionale di arte drammatica e l’Accademia nazionale di danza. Il direttore del Politecnico delle arti avrà un mandato di sei anni non rinnovabile, il direttore amministrativo di tre anni rinnovabile. Dal settembre 2018 le graduatorie nazionali esistenti saranno trasformate in graduatorie nazionali a esaurimento, utili per l’attribuzione degli incarichi di insegnamento con contratto a tempo indeterminato e determinato.

· SCUOLA DELL’INFANZIA 
Non è entrato nella Finanziaria di governo l’annunciato potenziamento delle scuole dell’infanzia e neppure quello di una quota di insegnanti del sostegno. Il Pd, tuttavia, sta lavorando a un emendamento che porti a un’assunzione extra di duemila docenti della materna, l’unica categoria fin qui non stabilizzata dalla Buona scuola. Sono confermate le risorse annunciate a luglio per la nascita di nuovi Poli per l’infanzia (0-6 anni): 150 milioni. Ci sono i soldi per il Piano nazionale per la scuola digitale (188 milioni), per l’Alternanza scuola lavoro e l’apprendistato, per la sperimentazione del diploma in quattro anni.

· UNIVERSITÀ, SCATTI BIENNALI PER I DOCENTI
A partire dal 2018 e con decorrenza 1 gennaio 2016 gli scatti triennali dei docenti universitari diventano biennali. E’ un modo per superare l’impasse che si è creato con il Governo Monti ed è proseguito fino alla prima fase del Governo Renzi “senza rimettere in discussione il blocco degli stipendi 2011-2015”. Il Fondo per il finanziamento ordinario è incrementato di 60 milioni nel 2018, 75 milioni per il 2019, 90 milioni per il 2020, 120 milioni per il 2021 e 150 milioni dall’anno 2022. Si legge nella relazione illustrativa del ministero delle Finanze: “Questo intervento avrebbe un grande valore politico e andrebbe a favore soprattutto dei giovani docenti, anche in chiave pensionistica, che in futuro recupereranno gradualmente quanto perso in passato”.
Ai prof non basta: lo sciopero degli esami prosegue. I docenti universitari – sono undicimila quelli in mobilitazione – replicano: “Chiedevamo la decorrenza economica dal 2015, con questa scansione ci vorranno dieci anni per recuperare quanto abbiamo perso”.

· ASSUNZIONI PER 1.611 RICERCATORI 
E’ aumentato il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) per assumere, da ottobre 2018, 1.304 ricercatori universitari (di tipo B) e 307 ricercatori degli Enti pubblici di ricerca. Costerà 90 milioni a partire dal 2019. Poi ci sono 17 milioni nel 2018-2019 per il “conseguente consolidamento nella posizione di professore di seconda fascia”. Per il riparto dei fondi agli atenei si fa riferimento alla Valutazione della qualità della ricerca dell’agenzia di valutazione Anvur.
Confermata la “no tax area”: gli studenti provenienti da famiglie con Isee inferiore a 13.000 euro non pagheranno tasse per l’ingresso all’università.
Non ci sono, per ora, aumenti per le borse di dottorato. Né la conferma dei 30 milioni di euro previsti sul welfare studentesco dalla delega della Buona scuola (libri di testo, educazione digitale, trasporti). Sono attesi emendamenti.
E’ stato confermato, nell’ambito del Programma nazionale per la ricerca, il bando da 497 milioni per finanziare progetti di ricerca industriale e sviluppo sperimentale “nelle dodici aree di specializzazione intelligente scelte a livello nazionale”. Le risorse sono destinate per 393 milioni di euro alle regioni del Mezzogiorno e per 104 milioni al Centro-Nord.

· ATENEI VIRTUOSI, SOLDI PER GLI AMMINISTRATIVI
Per il triennio 2018-2020 le Università che nell’anno precedente avevano raggiunto la sostenibilità economica sul personale e l’indebitamento potranno, “in via sperimentale”, incrementare le risorse per il trattamento economico accessorio del personale tecnico-amministrativo e del personale dirigente “per il 10% delle risorse assunzionali”.

· RICERCATORI DEL SERVIZIO SANITARIO
Nel Servizio sanitario nazionale si introducono i principi della Carta europea dei ricercatori: riconoscimento della professione, importanza di un ambiente di ricerca stimolante, flessibilità e al contempo stabilità delle condizioni di lavoro, possibilità di sviluppo professionale, un salario e misure di previdenza sociale adeguati. Anche per gli Istituti di ricerca a carattere scientifico (Irccs) e gli Istituti zooprofilattici sperimentali (Izs) – come per tutta la Pubblica amministrazione, d’altronde – non si potranno più stipulare contratti di collaborazione laddove le prestazioni di lavoro siano “personali e continuative”. Nasce un nuovo percorso per 2.135 ricercatori Irccs e 725 ricercatori Izs che prevede due aree: “ricercatore” e “professionalità della ricerca”. E tre figure: “personale di ricerca”, “personale di ricerca esperto”, “personale di ricerca senior”. Il contratto di lavoro subordinato dell’area “ricercatore” sarà di 10 anni con possibilità di un solo rinnovo per altri cinque; quella dell’area “professionalità della ricerca” sarà di 6 anni con un solo rinnovo di tre. Una volta raggiunto il limite massimo di permanenza – rispettivamente di 15 anni e di 9 anni – l’ente potrà immettere il ricercatore nei ruoli del Servizio sanitario nazionale. Servono 44 milioni per questa norma.

· ENTI RICONOSCIUTI ED ENTI SOPPRESSI
Diventa “istituzione di alta formazione e ricerca” la Scuola di formazione del sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, struttura che forma l’intelligence nazionale. Potrà rilasciare titoli post laurea.
Viene autorizzato un contributo annuale per la Fondazione Idis-Città della Scienza di Napoli, per il Museo nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano e per il Museo Galileo di Firenze. Un milione e ottocentomila euro a testa.
Viene soppressa la Fondazione Ime, l’Istituto mediterraneo di ematologia già in liquidazione.

Graduatorie III fascia ATA, le FAQ del Miur per la presentazione delle domande

da La Tecnica della Scuola

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Contratti: in arrivo altre risorse

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Unione delle Camere Penali Italiane: iniziative per le scuole a.s. 2017/2018

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Boldrini: “Diamo ai giovani gli strumenti per difendersi nel web”

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IRC, la CEI approva il concorso. Il Miur accelera per gli stipendi in ritardo

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La funzione psicosociale del gruppo

La funzione psicosociale del gruppo

di Immacolata Lagreca

 

Formulare una precisa definizione di gruppo è complicato, vagliata la vastità dei campi all’interno dei quali è possibile rilevare la sua esistenza.

Nel linguaggio comune si tende a chiamare “gruppo” qualsiasi insieme di persone che anche per caso si trovano a condividere uno spazio, seppur in un tempo determinato e magari senza interloquire tra loro. Così sono gruppo un assembramento di persone in attesa di un tram, o l’insieme di persone che aspettano nell’anticamera di uno studio medico, una massa di persone che vanno allo stadio. Sempre nel linguaggio comune, una ulteriore conferma dell’uso generico del termine giunge dalla varietà di vocaboli che sono ritenuti in qualche modo apparentati al termine “gruppo”, o peggio sinonimi: aggregati sociali, massa, folla, collettività e così via. Certamente questi termini possono essere utilizzati al posto di “gruppo” a livello intuitivo, poiché è possibile rinvenire in essi una certa corrispondenza che li lega, ma non restituiscono la giusta dimensione alla figura “gruppo”.

Nel saggio La dynamique des groupes (1973)[1] Jean Maisonneuve, ricercatore francese sulle dinamiche di gruppo e sulle relazioni interpersonali, così li definisce in campo psicologico:

 

I gruppi sono insiemi sociali di dimensioni e di strutture molto diverse: dalle collettività nazionali, fino alle “bande” più effimere. Il solo carattere comune a tutti questi insiemi è dato, contemporaneamente, dalla pluralità degli individui e dalla loro più o meno forte implicita solidarietà. L’Idea di “forza”: l’espressione “raggrupparsi” esprime bene l’intenzione di mutuo rinforzo di individui che si sentono isolatamente impotenti; tuttavia, questa potenza collettiva suscita reazioni ambivalenti: rassicura e minaccia[2].

 

Esistono altre definizioni di gruppo[3], sempre in campo psicologico, ma questa di Jean Maisonneuve sembra ancor più completa, poiché lo studioso propone l’idea di “insieme come pluralità”, sostenuta da sentimenti di solidarietà che la unificano.

Un gruppo, quindi, è un insieme di persone, non distanti tra loro, avente un’esistenza sua propria, che condividono bisogni, motivazioni, scopi o interessi comuni e un determinato spazio, anche per un tempo limitato, che grazie a essi si percepisce come pluralità che ha rapporti di reciproca dipendenza e unità d’intenti. Il gruppo come struttura, quindi,

 

si realizza attraverso un processo continuo ed articolato di collaborazione reciproca, di coinvolgimento e di cooperazione tra soggetti che conduce ogni singolo membro del gruppo stesso a mettere da parte le proprie concezioni o pretese, non per annullarle, ma per meglio finalizzarle e porle al servizio degli altri componenti»[4].

 

In base a questo, i gruppi sono una sottoclasse della collettività, perché in queste ultime non è necessaria l’interazione tra i membri. Stesse considerazioni valgono per gli altri termini già visti, considerati apparentati all’espressione “gruppo”: gli aggregati sociali sono raggruppamenti di status sociali, i cui appartenenti non sono necessariamente in diretta interazione; stesso discorso vale per le masse e la folla, che si ritrovano sì insieme condividendo uno stesso ambiente, ma spesso non si ha alcuna interazione comune. In tutti questi casi, manca qualsiasi “azione di gruppo” che attesti l’effettiva interdipendenza di obiettivi.

Il gruppo è in definitiva un sistema di persone in relazione dinamica e spaziale, che racchiude gli aspetti di unità, globalità, ordine, concordanza degli intenti e ha una propria personalità.

Le motivazioni che sono alla base dell’appartenenza al gruppo, il collante di un determinato gruppo, sono la vicinanza, la somiglianza, l’identificazione. La vicinanza rappresenta spesso il primo contatto che dà l’avvio a un gruppo, perché grazie a essa si inizia a frequentare delle persone; la disposizione a ricercare nell’altro convinzioni, idee e valori somiglianti alle nostre, porta a partecipare a un gruppo (ad esempio Partiti politici o movimenti culturali o musicali); si può appartenere a un gruppo con una motivazione per lo più inconscia di identificazione nell’altro, in pratica si decide di appartenere a un gruppo per il suo status prestigioso, che può dare una buona reputazione e/o successo[5].

Il gruppo assolve anche tre funzioni psicologiche: integrazione, sicurezza e regolarizzazione. L’individuo isolato è più fragile di un individuo integrato in un gruppo e far parte di un gruppo infonde sicurezza, permettendogli di confrontare la propria immagine di sé all’immagine di sé per gli altri[6].

In base al tipo di relazione, il gruppo può essere classificato come:

– Gruppo primario: composto da almeno due/tre persone che si conoscono e sono in stretto rapporto personale e che interagiscono per un periodo di tempo relativamente lungo, sulla base di rapporti intimi faccia a faccia (famiglia, piccole comunità e così via);

– Gruppo secondario: composto da un buon numero di persone che interagiscono su basi temporanee, anonime e impersonali, quindi non hanno uno sfondo emozionale, come nel gruppo primario, in quanto legati da motivi per lo più oggettivi[7].

Ovviamente queste due distinzioni non sono assolute, poiché esistono casi nei quali il gruppo non può definirsi nè primario nè secondario, ma si è al limite dei due tipi e soprattutto è spesso possibile che l’uno si trasformi nell’altro (ad esempio in un ufficio o a scuola, a un iniziale rapporto del tipo di gruppo secondario, si può trasformare in uno di tipo primario, quando gli impiegati si conoscono meglio e diventano amici oltre che semplici colleghi).

In base al numero dei componenti, il gruppo può essere una diade, una triade, un piccolo gruppo, un gruppo mediano, un grande gruppo.

Una diade è gruppo composto da soli due elementi (ad esempio madre-figlio o padre-figlio, moglie-marito, due carissimi amici e così via). Ciò che caratterizza l’appartenenza a questa diade è il legame affettivo: due persone stanno insieme perché si sono scelte, perché hanno interessi in comune o per compensazione.

Una triade è gruppo composto da tre membri (ad esempio padre-madre-figlio). Nella triade ognuno dei membri può, a turno e per brevi periodi, ignorare un terzo senza disgregare il gruppo. La triade è meno stabile della diade.

Un piccolo gruppo è costituito solitamente da 4 a 10/12 membri. È uno dei modelli di interazione sociale fondamentali, proprio grazie all’esiguo numero. Il piccolo gruppo può formarsi anche da gruppi più ampi, divenendo un sotto-gruppo.

Un gruppo mediano è costituito di solito da 10/12 a 30 membri. In questo caso, le relazioni personali divengono meno strette rispetto al piccolo gruppo.

Un grande gruppo conta dai 30 membri in su. In questi tipi di gruppo le interazioni sono meno dirette e personali[8].

In tutti i gruppi possono nascere conflitti che potrebbero dare vita a sotto-gruppi o alla cessazione del gruppo stesso.

Per concludere, questi sono alcuni concetti utilizzati nello studio di fenomeni di gruppo:
– procedura: è il fenomeno operativo dell’organizzazione del gruppo;

– rete di comunicazione: è il sistema materiale che permette la comunicazione tra i membri del gruppo;

– esclusività: un gruppo tende a rendersi esclusivo, categorizzando le sue regole, i suoi fini e le sue gerarchie, nei confronti degli altri gruppi;

– ruoli: sono i comportamenti che un gruppo si attende da un membro, poiché il posto di ognuno nella struttura è definito;

– status: ossia il comportamento che il singolo si attende dagli altri;

– potere: è la capacità di ottenere che un altro faccia qualcosa che non avrebbe fatto senza il proprio intervento;

– leader: è il membro esercitante un’influenza o avente autorità sul gruppo;

– leadership è a sua volta la funzione di direzione, comando, orientamento, responsabilità esercitata da uno o più membri del gruppo;

– deviante: è riferito a chi si allontana dalle norme del gruppo di appartenenza[9].

Infine importante nelle dinamiche di un gruppo è l’inconscio collettivo, ossia la reciproca interazione dei singoli forma un sé gruppale, come se questo fosse un unico individuo[10].

Le dinamiche del gruppo potrebbero essere un valido supporto nella scuola. Infatti, la classe che diventa gruppo facilita la formazione e la socializzazione, divenendo una risorsa educativa e didattica, perché l’idea che rimanda il gruppo delle relazioni circolari, e non lineari, indubbiamente creano sinergia facilitando l’apprendimento[11].

 

Bibliografia

Bertani B., Manetti M. (a cura di), Psicologia dei gruppi. Teoria, contesti e metodologie d’intervento, Franco Angeli 2007.

Cerri R., Dimensioni della didattica. Tra riflessione e progettualità, Vita e Pensiero, Milano 2002.

Dozza L., Il lavoro di gruppo tra relazione e conoscenza, La Nuova Italia, Firenze 1994.

Maisonneuve J., La dinamica di gruppo, trad. it. Celuc, Milano 1973.

Peluso Cassese F., Granato S., Introduzione alla psicopedagogia del gioco, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2001.

Piccoli I., I bisogni, i desideri i sogni, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2008.

Venza G. (a cura di), Dinamiche di gruppo e tecniche di gruppo nel lavoro educativo e formativo, Franco Angeli, Milano 2007.


[1] Trad. it., La dinamica di gruppo, Celuc, Milano 1973.

[2] Cit. in R. Cerri, Dimensioni della didattica. Tra riflessione e progettualità, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 113.

[3] Cfr. ivi, pp. 112-114.

[4] E. Frauenfelder, Il lavoro di gruppo. Guida alla strutturazione dei gruppi di apprendimento-lavoro, Le Monnier, Firenze 1976. Così cit. in F. Peluso Cassese, Il gruppo, in F. Peluso Cassese, S. Granato, Introduzione alla psicopedagogia del gioco, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2001, p. 121.

[5] Cfr. I. Piccoli, I bisogni, i desideri i sogni, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2008, pp. 81-82.

[6] Cfr. F. Peluso Cassese, Il gruppo, in F. Peluso Cassese, S. Granato, Introduzione alla psicopedagogia del gioco, cit., pp. 127-128.

[7] Cfr. G. Venza, G. Cascio, Lo studio psicosociale dei gruppi e l’intervento con i gruppi: alcune riflessioni ed alcune categorie utili ad introdurre il discorso, in G. Venza (a cura di), Dinamiche di gruppo e tecniche di gruppo nel lavoro educativo e formativo, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 28-31.

[8] Cfr. ivi, pp. 32-38.

[9] Per tutti cfr. N. Rania, A. Piermari, L. Venini, Processi dinamici ed aspetti strutturali nei gruppi, in B. Bertani, M. Manetti (a cura di), Psicologia dei gruppi. Teoria, contesti e metodologie d’intervento, Franco Angeli 2007, pp. 29-42; G. Venza, Elementi di dinamica di gruppo, in G. Venza (a cura di), Dinamiche di gruppo e tecniche di gruppo, cit., pp. 68-79 e G. Venza, Elementi di psicologia dei gruppi, in ivi, pp. 102-116.

[10] L. Migliorini, Processi relazionali, comunicativi e affettivi nei gruppi, in B. Bertani, M. Manetti (a cura di), Psicologia dei gruppi, cit., pp. 58-60.

[11] Cfr. L. Dozza, Il lavoro di gruppo tra relazione e conoscenza, La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 7.

Decreto Dipartimentale 24 ottobre 2017, AOODPIT 1110

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per il Sistema educativo di Istruzione e Formazione
Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione

Decreto Dipartimentale 24 ottobre 2017, AOODPIT 1110

Potenziamento delle azioni di supporto al processo di inclusione degli alunni e degli studenti con disabilità certificata, ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e con diagnosi di disturbo specifico dell’apprendimento, ai sensi della legge 8 ottobre 2010, n. 170, mediante la documentazione, la condivisione e la diffusione di metodologie, buone prassi, materiale informativo e formativo nel Portale Nazionale per l’inclusione scolastica.