Accountability tra dichiarato e agito

Accountability tra dichiarato e agito

di Maurizio Muraglia

Il tema della documentazione non è nuovo nella scuola. Per il semplice fatto di essere un servizio pubblico, alla scuola è sempre stato richiesto di dar conto delle sue azioni, sia sul versante amministrativo che sul versante formativo. Con l’autonomia scolastica l’esigenza di rendicontazione si é fatta sempre più esplicita a misura delle nuove responsabilità assunte dalle istituzioni scolastiche. Eppure non si può negare che gli ultimi anni hanno fatto registrare un serio colpo di coda del sistema in materia di accountability, e non è il caso qui di riepilogare i passaggi normativi che hanno tenuto a battesimo il Sistema nazionale di valutazione (DPR 80 /2013), volto proprio a raccogliere i dati che servono alla comprensione dell’efficacia di tutto il sistema scuola. L’orizzonte della Rendicontazione sociale per tutte le scuole, proprio in questo 2019, rappresenta il culmine del processo.

Il principio dell’accountability com’è noto é anche funzionale alle varie spending review messe in campo negli ultimi anni dalle amministrazioni pubbliche. Una categoria strutturale del principio di rendicontazione è quella di risultato, di cui si parla chiaramente a proposito dei Dirigenti scolastici, cui si attribuisce la responsabilità dei “risultati del servizio” (Dlgs 165/2001). Occorre misurare e valutare i risultati del servizio ed i processi che ne sono stati all’origine.

A questo proposito si impone un piccolo intermezzo emblematico. Quando le scuole elaborano i Rapporti di Autovalutazione (RAV), al termine del documento devono indicare le priorità ed i traguardi che discendono dal processo valutativo. É sintomatico che le priorità debbano riguardare esclusivamente gli esiti, cioè i risultati scolastici (o quelli delle prove standardizzate). Poi si indicheranno anche gli obiettivi di processo e le modalità del loro conseguimento. Ma il tutto è finalizzato agli esiti, e gli esiti in genere sono rappresentati in modo quantitativo (percentuali di promossi, bocciati, trasferiti, dispersi ecc.). Gli esiti rappresentano la cartina al tornasole del fatto che i processi sono stati ben condotti e monitorati. Controllati. Da un Rapporto di Valutazione esterna traggo questo suggerimento dato dal Nucleo esterno di Valutazione ad una scuola: il NEV suggerisce di attivare la costruzione e la realizzazione di azioni di monitoraggio che possano contribuire al controllo di gestione ed alla progettualità della scuola. Controllo di gestione è un’espressione che individua l’esigenza di fondo: si deve controllare l’utilizzo delle risorse. Chi potrebbe obiettare?

Dunque il “risultato” è cartina al tornasole dell’efficienza e dell’efficacia di un’istituzione scolastica. Da quello si vede il funzionamento del sistema. I processi devono essere ben controllati affinché siano correttamente orientati al risultato. É vero che nei Rapporti di Autovalutazione c’è sempre spazio per raccontare processi virtuosi. Ma è difficile immaginare che a fronte di risultati percentualmente disastrosi qualcuno si prenda la briga di andare a cercarsi, tra le carte, i processi virtuosi. Probabilmente sarebbe indotto a pensare piuttosto che quei processi di virtuoso abbiano ben poco se non sono stati capaci di produrre i risultati auspicati. Produrre, infatti. É proprio una questione di produttività. Il mantra da cui discende il paradigma dell’accountability.


Le scuole, alla luce dell’esigenza di rendicontazione, devono rappresentare l’agito utilizzando il linguaggio richiesto dal sistema. Che è un linguaggio tecnocratico, cui si chiede di avere come referente la realtà educativa delle scuole.

Questo contributo ha lo scopo di riflettere sul rapporto che in una comunità educante come la scuola è possibile istituire tra quanto è dichiarato e quanto agito, nella consapevolezza che tutti i rapporti di autovalutazione ed i rapporti di valutazione esterna che i nuclei preposti elaborano non sono altro che il tentativo di tenere quanto più possibili vicini i due livelli: quello, potremmo dire, del discorso e quello della realtà. Il rapporto tra le parole e le cose è un campo di ricerca alquanto battuto – si pensi soltanto al celebre “Le parole e le cose” di Foucault -, e non vi è qui la pretesa di utilizzare categorie ermeneutiche particolarmente sofisticate. Vi è invece il desiderio, alla luce dell’esperienza, di delineare un quadro interpretativo utile a comprendere se esista una soglia di tollerabilità per il naturale gap che si istituisce tra i fatti e le carte (o i files) che di quei fatti costituiscono narrazione.

Il MIUR ha predisposto uno spazio, detto “Scuola in chiaro”, che permette ai cosiddetti utenti di farsi un’idea di una scuola a partire dai documenti che vi sono pubblicati. In epoca di iscrizioni, le famiglie hanno anche la possibilità di visitare direttamente le scuole attraverso gli open day, che in qualche modo rappresentano anch’essi una narrazione. Si situano cioè ad un livello mediato rispetto al dato di realtà che intendono descrivere.

É istituita quindi la duplicità di livello che cerchiamo: la realtà e la sua rappresentazione linguistica. I filosofi del linguaggio e gli ermeneutici hanno chiarito da tempo l’impossibilità dell’umano di accedere direttamente al reale. Davvero, con Heidegger, il linguaggio resta la casa dell’essere. Lungi da questo contributo quindi, ipotizzare ingenui approcci al reale che abbiano la pretesa di far comprendere la “verità” di un oggetto peraltro complesso come una scuola.

Qui semmai si vuole esorcizzare il rischio opposto, ovvero l’autoreferenzialità di una rappresentazione in cui le parole rimandano a se stesse. E per far questo occorre compiere, a mio parere, una duplice operazione: sul linguaggio che prova a rappresentare il reale e sul reale sottoposto a rappresentazione. La doppia analisi è però un’unica analisi, che riguarda la stagione attuale della scuola e delle questioni scolastiche: apprendimento, conoscenza, educazione.


Cominciamo con le questioni di linguaggio. “Da circa due decenni, con generazioni di insegnanti quasi del tutto privati della pedagogia, delle sue esperienze e della sua storia, le parole della scuola sono cambiate o hanno subito uno slittamento di senso. Il nuovo vocabolario è stato costruito attorno ad una specifica interpretazione di alcuni termini che spesso ne ha distorto il senso originario: autonomia, competenza, obiettivo, valutazione, merito. Questi termini non nuovi (ciascuno di essi ha una storia), sono stati reinterpretati alla luce di nuovi modelli culturali. Le interpretazioni sono diventate pian piano senso comune, un immaginario collettivo che gode ormai di ampia diffusione nella scuola e nella società”.

I modelli culturali cui fa riferimento Bottero nel suo illuminante contributo sono in effetti modelli economici, ispirati al neoliberismo delle politiche anglosassoni degli anni Ottanta. Gli slittamenti semantici di cui si parla hanno un corrispettivo esplicativo in acronimi come RAV, PTOF, PDM, RVE, che danno sostanza all’azione dei sistemi di valutazione standardizzati e funzionali all’accountability con cui è stato introdotto questo contributo.

La lingua tecnocratica è funzionale all’esigenza di dichiarare – rendicontare – quel che si fa nelle scuole in modo che sia possibile raffrontare i risultati ai processi messi in atto per conseguirli. Negli ultimi anni si è fatta dunque strada, sulle macerie della vecchia, una nuova pedagogia, quella “che proviene dagli Istituti di valutazione nazionali e internazionali, dal tecnicismo burocratico degli ambienti ministeriali, da molti media, dai poteri economici. Il tutto ha contribuito a formare ‘un politichese istituzionale, una sorta di esperanto neoliberale, che promuove il ‘management partecipativo’ e organizza il controllo tecnocratico dei risultati senza mai preoccuparsi di ciò che si costruisce nella classe, sia in termini di trasmissione di cultura che di crescita dei soggetti’”.

Schiere di dirigenti e di docenti, ma in numero certamente ridotto rispetto al totale, sono impegnati quotidianamente nella fatica del dichiarato, che consiste nella necessità di attribuire spessore semantico alla lingua tecnocratica del sistema per provare ad adattarla alla realtà dei processi educativi e didattici vissuti quotidianamente. É uno sforzo che tutti i docenti conoscono, per la verità. Negli anni Settanta e Ottanta la pedagogia introdusse nella scuola termini quali programmazione per obiettivi, curricolo, valutazione formativa e sommativa, che costrinsero tutti ad adeguare la res al nomen. Con l’autonomia lo sforzo ha trovato ulteriori campi di esercizio, ma da quando è entrata in campo la valutazione di sistema la tecnocrazia linguistica nelle scuole ha di fatto ristretto il campo degli addetti ai lavori, cioè oligarchie di insegnanti – chiamate staff o impropriamente figure di sistema – che tentano di scrutare l’improbabile rapporto tra significanti e significati.

É una logica che qualcuno definisce aziendale. Certamente è una logica centrata sul prodotto. “Gran parte della ricerca didattica – scrive sempre Bottero nel suo contributo già citato – centra oggi la sua attenzione su due aspetti del processo di insegnamento: la programmazione degli obiettivi e la valutazione (degli allievi, della scuola, del sistema formativo). L’attenzione quasi esclusiva a questi due aspetti insegue la logica aziendale orientata al prodotto che ha al centro la coppia obiettivo – valutazione, l’inizio e la fine. Non interessano più le situazioni di apprendimento, la pedagogia del progetto, ecc., insomma tutto ciò che sta tra l’obiettivo iniziale e la valutazione finale, ciò che fa l’insegnante e ciò che sono chiamati a fare gli allievi. Quando il processo didattico viene pensato attorno al raggiungimento dell’obiettivo è l’obiettivo stesso che si fa metodo”.

Dichiarato e agito. All’interno di questa tensione dialettica, la domanda che sorge è: quanto dell’agito è rappresentabile con la lingua tecnocratica utilizzata dal sistema? Qui perveniamo al secondo livello di analisi, quello che riguarda il reale da rappresentare e le possibilità della sua rappresentazione.

Intanto bisognerebbe partire da un dato di sostanza. Cosa avviene di fondamentale in una scuola? Chi potrà negare che il fatto dell’insegnare e dell’imparare in un luogo in cui è presente un gruppo di allievi ed un insegnante sia il focus della scuola? Se partiamo dal fondamento, ci accorgiamo che tutte le mattine avviene una stessa vicenda dappertutto. Dei discenti incontrano il sapere con la mediazione di un adulto, e questo avviene in un contesto di relazioni e di comportamenti. Avviene anche che di questo incontro l’adulto chiede agli allievi di rendere conto attraverso verifiche cui seguiranno valutazioni di tipo quantitativo (tante) o discorsivo (poche e poco influenti).

Al fondamento della didattica occorre aggiungere tutto l’agito progettuale messo in campo dagli organi collegiali: consigli di classe, dipartimenti, collegi dei docenti, gruppi di progetto e quant’altro. E ancora tutto ciò che riguarda le azioni del Dirigente scolastico a livello organizzativo, che attendono anch’esse la loro rappresentazione discorsiva o messa in forma nella prospettiva, anche per i capi d’Istituto, della valutazione.

Quale rapporto si instaura, nelle scuole, tra i fatti e la loro rappresentazione? Quali capacità professionali occorre mobilitare affinché la rappresentazione sia quanto più possibile aderente al fatto? A queste domande è molto difficile rispondere, ma certamente è possibile mettere in evidenza una circostanza: che per documentare occorrono distacco e osservazione, due variabili che è praticamente impossibile attivare durante il lavoro d’aula. Gli insegnanti che agiscono in classe non dispongono di un “terzo” che prenda appunti. E quel che avviene in classe non sempre può essere registrato in modo puntuale.

Pensiamo poi al rapporto tra fatti e loro verbalizzazione negli organi collegiali. Quanto di ciò che si discute e del modo in cui lo si discute è determinato proprio dalla necessità della sua registrazione? Quanto di questa registrazione, dunque, può sfuggire al “politicamente corretto” che non poche volte impone di mascherare la realtà con le parole che si ritengono più adeguate ad una verbalizzazione ortodossa?

L’atto della scrittura documentativa intrattiene col reale che rappresenta un rapporto la cui complessità spesso fa sorgere il sospetto che l’agito cammini su binari molto diversi e non rappresentabili. A meno che l’agito non venga rappresentato in forme “oggettive”, cioè quantitative. Pensiamo alle percentuali di promossi e bocciati o a quelle dei trasferiti o dispersi, che rappresentano in modo asettico processi la cui incandescenza e la cui naturale multiprospetticità finiscono per scomparire.

Insomma, il rapporto tra reale e linguaggio, in contesti educativi segnati da dinamiche interumane complesse, sembra segnato da una sostanziale ambiguità di fondo. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che enfatizzando la complessità di questo rapporto il rischio che si corre è quello dell’autoreferenzialità, ovvero dell’impossibilità di socializzare il lavoro di ogni singola scuola. E questo certamente non è un bene. Come non è un bene correre il rischio che a chi scrive appare più pernicioso, ovvero quello di una rappresentazione operata da pochi abili scrivani che presenta scarsi legami con l’esistente.

Il sistema si è dotato di meccanismi di controllo volti a constatare il grado di “veridicità” delle auto rappresentazioni. Chi scrive ha avuto la possibilità di vedere all’opera alcuni nuclei esterni di valutazione inviati dall’amministrazione per constatare il rapporto tra il dichiarato e l’agito. Il metodo è quello dell’intervista. Nessun valutatore esterno infatti può vivere i processi reali, ad esempio assistendo alle lezioni oppure presenziando ad una seduta di un organo collegiale. L’intervista è una ulteriore raccolta di rappresentazioni, di cui si cerca di ravvisare la coerenza con quanto è già stato rappresentato. E non vi è chi non veda ancora una volta il prevalere dell’ordine del discorso sull’ordine delle cose, tanto più significativo quanto più il dichiarato per iscritto ed il dichiarato per intervista presentino un alto livello di compatibilità. Ma questa è la tecnocrazia oggi imperante, che celebra l’unione tra esigenze di produttività del sistema, centrate sui risultati e sulla narrazione dei processi orientati a quei risultati, e l’utilizzo di una lingua che, pur presentando i tratti patinati della scientificità, spesso corre il rischio di opacizzare il suo referente.

Che, come tutto ciò che è essenziale, resta invisibile.

Dalla manovra nuove risorse per il decollo dell’Anagrafe nazionale vaccini

da Il Sole 24 Ore

di Amedeo Di Filippo

Il comma 585 la legge di Bilancio 145/2018 stanzia ulteriori risorse per portare a completa realizzazione l’Anagrafe nazionale vaccini, istituita presso il ministero della Salute ad opera del Dl 73/2017.

Il decreto Lorenzin
Le vaccinazioni obbligatorie sono state introdotte dall’articolo 3 del Dl 73/2017, che vincola i dirigenti scolastici e i responsabili dei servizi per l’infanzia a richiedere, all’atto dell’iscrizione, la presentazione della documentazione comprovante l’effettuazione delle vaccinazioni obbligatorie ovvero l’esonero, l’omissione o il differimento delle stesse o ancora la presentazione della richiesta all’Asl, che esegue le vaccinazioni entro la fine dell’anno scolastico. La documentazione può essere sostituita dalla autodichiarazione. La presentazione costituisce requisito di accesso per i servizi educativi per la prima infanzia (0-6 anni).
L’articolo 18-ter del Dl 148/2017 ha semplificato l’iter per le Regioni e Province autonome presso le quali sono istituite anagrafi vaccinali, anticipando al 2018/2019 le regole che l’articolo 3-bis del Dl 73 ha previsto a decorrere dal 2019/2020. In questo caso, dunque, dirigenti e responsabili hanno trasmesso alle Asl l’elenco degli iscritti che le medesime Asl hanno restituito completandoli con l’indicazione dei soggetti che risultano non in regola con gli obblighi vaccinali, che non ricadono nelle condizioni di esonero, omissione o differimento delle vaccinazioni e che non abbiano presentato formale richiesta di vaccinazione.
Nei dieci giorni successivi all’acquisizione degli elenchi, dirigenti e responsabili hanno invitato i genitori dei minori indicati nei suddetti elenchi a depositare la documentazione o la presentazione della richiesta e hanno trasmesso il tutto all’Asl. Per i servizi educativi per la prima l’infanzia, la mancata presentazione della documentazione «comporta la decadenza dall’iscrizione».
Ulteriori indicazioni sono state fornite con la circolare congiunta del 5 luglio 2018, che parimenti distingue tra regioni e province con o senza anagrafe vaccinale, con la possibilità per i minori di essere ammessi alla frequenza dietro presentazione di una dichiarazione sostitutiva.

L’Anagrafe
Col Dm 17 settembre 2018 il ministero della Salute, dando attuazione all’articolo 4-bis del Dl 73/2007, ha istituito l’Anagrafe nazionale vaccini, finalizzata a monitorare l’attuazione dei programmi vaccinali sul territorio nazionale e la verifica delle coperture vaccinali in relazione al calendario vaccinale nazionale e che raccoglie i dati delle anagrafi regionali esistenti, i dati relativi alle notifiche effettuate dai medici curanti e quelli concernenti gli eventuali effetti indesiderati delle vaccinazioni che confluiscono nella rete nazionale di farmacovigilanza.
Nell’Anagrafe sono registrati i soggetti vaccinati, quelli da sottoporre a vaccinazione, gli immunizzati, i soggetti per i quali le vaccinazioni possono essere omesse o differite in caso di accertato pericolo per la salute, le dosi e i tempi di somministrazione delle vaccinazioni effettuate, gli eventuali effetti indesiderati.

L a legge di bilancio
Il comma 585 la legge 145/2018 assume gli obiettivi della completa realizzazione e della “gestione evolutiva” dell’Anagrafe nazionale vaccini, incrementando di 50.000 euro annui, a decorrere dal 2019, lo stanziamento di cui all’articolo 4-bis, comma 3, del Dl Lorenzin, che ne aveva previsti 300.000 per il 2018 e 10.000 a decorrere dal 2019.

Stanzia inoltre 2 milioni di euro per l’anno 2019 e 500.000 euro annui a decorrere dall’anno 2019 finalizzati a raccogliere in modo uniforme sull’intero territorio nazionale mediante le anagrafi vaccinali regionali i dati da inserire nell’Anagrafe nazionale, anche attraverso il riuso di sistemi informatici o di parte di essi già realizzati da amministrazioni regionali. Queste risorse sono ripartite tra le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano sulla base di criteri determinati con decreto del ministro della Salute, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge sentita la Conferenza Stato-regioni.

Il Dm 17 settembre 2018 infatti prevede che l’Anagrafe nazionale raccoglie i dati delle anagrafi regionali, a loro volta collegate con l’anagrafe regionale degli assistiti, e che Regioni e Province autonome trasmettono con cadenza trimestrale le informazioni contenute nella scheda dello stato vaccinale. L’Anagrafe inoltre raccoglie i dati relativi alle notifiche effettuate dal medico curante relativi ai soggetti immunizzati, mentre spetta all’Agenzia italiana del farmaco trasmettere con cadenza annuale, in forma aggregata e anonima, gli eventuali effetti indesiderati.

Vaccinazioni, i problemi applicativi per le scuole

da Il Sole 24 Ore

di Francesco Rubino e Chiara Langè *

Oggi il tema delle vaccinazioni è estremamente complesso e controverso. La causa di tale confusione è innanzitutto la normativa di settore vigente: la legge 119/2017, infatti, impone una serie di adempimenti formali in capo ai dirigenti scolastici senza disciplinare in alcun modo i profili sostanziali relativi alla tutela della salute degli iscritti, che risultano inscindibilmente connessi a tali adempimenti. A ciò si aggiunga il fatto che le successive circolari ministeriali in materia di adempimenti vaccinali non hanno contribuito in maniera efficace a colmare tali lacune essendo le stesse spesso di difficile comprensione ed applicazione.

L’eccesso di adempimenti formali imposti ai dirigenti scolastici
Di conseguenza, i dirigenti scolastici si trovano sovraccaricati di adempimenti burocratici, ma privi dei poteri necessari per intervenire in maniera incisiva per tutelare l’ambiente scolastico, ad esempio esigendo l’effettiva somministrazione delle vaccinazioni ai fini dell’ammissione a scuola dei minori in modo da innalzare il livello di protezione del luogo in cui questi ultimi trascorrono gran parte della loro giornata. Ciò genera un problema di estrema rilevanza soprattutto rispetto alla scuola dell’infanzia, laddove la regolarità del percorso vaccinale ad oggi costituisce requisito di accesso alla scuola e dall’anno scolastico 2019/2020 diventerà requisito per la validità dell’iscrizione.

Le conseguenze della carenza di poteri di intervento in capo alle scuole
L’assenza di poteri sostanziali in capo alla scuola negli ultimi anni ha agevolato la diffusione del fenomeno cosiddetto no vax, ossia il movimento di coloro che sono contrari alla somministrazione dei vaccini. Sono sempre più frequenti infatti i casi di genitori che, pur consapevoli delle loro responsabilità, decidono di non somministrare ingiustificatamente le vaccinazioni ai loro figli, non curanti dei rischi enormi che una simile presa di posizione genera. Tale situazione è infatti fonte di gravi disagi all’interno degli ambienti scolastici, soprattutto per quei bambini che hanno problemi di salute importanti (ad esempio gli immunodepressi), i quali di per sé già vivono in una condizione ineliminabile di pericolo che viene così esponenzialmente accresciuta.

La necessità di strumenti di tutela efficaci per gli ambienti scolastici
Alla luce del quadro delineato, risulta fondamentale che le scuole si dotino di strumenti ad hoc per tutelarsi e per tutelare i loro ambienti (e quindi i minori che li frequentano ogni giorno). Primo fra questi strumenti è certamente l’adozione di procedure restrittive che disciplinino in modo specifico e puntuale la gestione degli adempimenti vaccinali in modo da impedire l’accesso a coloro che si trovano in una situazione irregolare sul piano degli adempimenti vaccinali senza una motivazione di natura medica attestata dai soggetti competenti (quali Asl o pediatri di libera scelta).

  • Dipartimento Diritto penale dell’impresa e dell’economia dello studio Morri Rossetti

Dal  Miur 50 milioni per le palestre, 93 gli interventi finanziati

da Il Sole 24 Ore

di Al. Tr.

Sono 93 gli interventi per la costruzione di nuove palestre e per la messa in sicurezza di quelle esistenti che verranno finanziati con i 50 milioni di euro stanziati dal Miur nell’ambito della programmazione triennale nazionale per l’edilizia 2018-2020. Sono nove le regioni in cui verranno realizzati i progetti, la Lombardia e la Campania quelle che riceveranno più fondi. L’avviso pubblico per la presentazione dei progetti è stato pubblicato lo scorso 13 dicembre e dallo scorso, giovedì 10 gennaio, è disponibilel’elenco dei progetti che hanno ottenuto il finanziamento .

Dove saranno realizzati i progetti
In particolare, spiega il Miur in una nota, 77 progetti riguardano la messa in sicurezza delle strutture esistenti, soprattutto dal punto di vista antisismico, i restanti 16 prevedono la realizzazione di nuovi edifici. Sono nove le Regioni nelle quali verranno realizzate le nuove palestre, che in alcuni casi sostituiranno edifici ormai inutilizzabili: Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria.
Insieme al livello di progettazione,tra i criteri utilizzati per l’individuazione dei progetti da finanziare – fa sapere il ministero – ci sono l’elevato tasso di dispersione scolastica, l’assenza di strutture sportive e le condizioni di «forte deprivazione territoriale».

La distribuzione di fondi e interventi
I finanziamenti più cospicui, come accennato, andranno alla Lombardia (oltre 6,6 milioni di euro) e alla Campania (5 milioni), seguite da Sicilia (4,6 milioni), Lazio (4,1 milioni) e Veneto (3,8 milioni). Sardegna ed Emilia Romagna, rispettivamente con 16 e 12 progetti, sono le Regioni nelle quali si realizzeranno più interventi; seguite da Basilicata, Campania e Lazio, tutte con 7 interventi ciascuna. «Il nostro lavoro di rilancio dello sport all’interno della scuola italiana prosegue con costanza e determinazione – ha commentato il ministro Marco Bussetti -. La pubblicazione dell’elenco dei progetti di nuova costruzione e di messa in sicurezza degli edifici esistenti è un altro passo importante, che guarda non solo all’aspetto didattico ma anche a quello della sicurezza, altro punto fermo del nostro operato».

“Noi insegnanti dobbiamo ricucire questa società”

da la Repubblica

Francesco Erbani

Nella scuola noi insegnanti ci sentiamo soli e spesso lo siamo»: Franco Lorenzoni, per quarant’anni maestro elementare, lucido erede della tradizione di don Lorenzo Milani, abbassa il tono della voce, come per prendere una pausa meditativa. Poi prosegue: «Leggendo le considerazioni che faceva Alessandro Baricco su Repubblica, mi sono chiesto: noi insegnanti facciamo parte dell’élite? Per come siamo trattati economicamente e considerati socialmente certamente no, nella gran maggioranza dei casi. L’opinione che molti genitori hanno di noi è pessima. Basti pensare a che cosa circola nei gruppi whatsapp.

Spesso capita che la nostra reputazione sia invece alta nelle famiglie di migranti. Ma élite o non élite, abbiamo, oppure dovremmo avere, una relazione privilegiata con la cultura».

Che dovrebbe avere quali effetti?

«Il mio sogno è che questa relazione ci stimoli a proporre e a offrire a tutti – sottolineo a tutti – la cultura come luogo di riconoscimento e di emancipazione per accrescere l’autonomia e la libertà dei ragazzi».

Lorenzoni non se la sente di schiacciare la scuola dentro uno stampo rigido. A Cenci, vicino ad Amelia, in provincia di Terni, ha fondato nel 1980 una Casa-laboratorio dove sono allestiti campi scuola per ragazzi di tutte le età. Quest’anno ha promosso con altri “Saltamuri”, un’associazione che riunisce 130 gruppi di insegnanti e non solo che si battono contro ogni discriminazione nella scuola. Il 24 gennaio esce il suo nuovo libro I bambini ci guardano.

Un’esperienza educativa controvento (Sellerio).

Che compito assolve la scuola contro le discriminazioni?

«La scuola è l’istituzione che meglio realizza la convivenza fra ragazzi di mondi e di culture diverse. D’altronde chi, se non noi insegnanti, dovremmo azzardare e impegnarci in questa delicata opera di ricucitura sociale?».

E ce la fa la scuola?

«Piero Calamandrei sosteneva che se la società fosse un corpo, la scuola sarebbe un organo ematopoietico, cioè il luogo dove si forma il sangue che porta nutrimento ad ogni cellula. La metafora è illuminante per chi avverte l’affanno dovuto alla pericolosa anemia di cui ci stiamo ammalando».

Sente anche lei nell’aria un vento che spira contro tutto ciò che abbia a che fare con un ragionamento appena complesso?

«Se la sacrosanta rivolta contro ingiustizie e disparità immagina la cultura come privilegio da abolire, con l’acqua sporca non buttiamo un solo bambino, ma tutti i bambini che verranno. Del resto la storia ci insegna che qualunque rivoluzione abbia puntato alla tabula rasa si è risolta in catastrofe: dai libri bruciati dai nazisti agli spartiti vietati negli anni della rivoluzione culturale in Cina, fino alle città distrutte dal delirio purificatore di Pol Pot».

Quindi la scuola è un presidio sia contro discriminazioni e ingiustizie, sia contro la “brutale semplicità” di cui parla Baricco?

«La scuola è uno dei luoghi chiave per fronteggiare ogni forma di semplificazione che avvilisce l’intelligenza e la capacità di comprendere ciò che accade nel mondo. Pensi ai cambiamenti climatici e alle migrazioni di massa. Sono problemi per i quali dobbiamo cambiare il punto di vista e mutare un bel po’ di abitudini. Può bastare qualche tweet? Abbiamo bisogno di pensare a fondo e di confrontarci».

Come?

«Lo scorso anno, in quinta elementare, dopo aver letto il mito della caverna di Platone, una bambina, Emilia, ha detto che “dobbiamo pensare ad almeno due punti di vista, per vedere oltre” e un’altra, Maia, ha sostenuto che dobbiamo “avere paura dell’ignoranza”».

Una doppia lezione di lungimiranza, da due ragazzine di dieci anni.

«La cultura nella scuola non si trasmette, si costruisce pezzo a pezzo, con tenacia e tempi lunghi, cercando di coinvolgere tutti. È un lavoro difficilissimo se fuori prevalgono il sentimento che è tutto inutile e la falsa affermazione che studiare non serve e non migliora le possibilità di lavoro. La cultura è relazione viva o non è. Oggi costruire cultura è come tendere un ponte tibetano sul crepaccio delle mille separazioni che avviliscono il nostro vivere sociale. Solo se sperimentiamo insieme quanto sia bello “sfregare e limare i nostri cervelli gli uni contro gli altri”, come auspicava Montaigne, possiamo contrastare chi pensa che il futuro si affronti chiudendosi dentro a un muro».

Le sembra che una tale consapevolezza circoli nelle classi dirigenti e di governo?

Che si sappia come contrastare la povertà educativa?

«Negli anni della crisi il nostro è stato l’unico Paese in Europa che abbia tagliato i fondi alla scuola e alla ricerca, dimostrando una cecità impressionante. Vorrei istituire una sorta di movimento del 5 per cento, che chieda di elevare di almeno un punto la quota destinata a quei settori.

L’Italia è attestata al 4,1 % di fronte a una media europea del 4,9. Non sono numerini».

Il sottotitolo del suo nuovo libro parla di “esperienza educativa controvento”. Che vuol dire?

«La scuola deve essere un po’ meglio della società che le sta intorno, altrimenti cosa ci sta a fare?».

Sciopero 26 gennaio 2019

Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca
Ufficio di Gabinetto

Nota 14 gennaio 2019, AOOUFGAB 1045

Ai Titolari degli Uffici Scolastici Regionali
Loro Sedi
E, p.c. Alla     Commissione di Garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali
segreteria@cgsse.it

Oggetto: Comparto Istruzione e Ricerca. Proclamazione sciopero 26 gennaio 2019. 

Poiché l’azione di sciopero in questione interessa il servizio pubblico essenziale “istruzione”, di cui all’art. 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146 e successive modifiche ed integrazioni  e alle norme pattizie definite  ai sensi dell’art. 2 della legge medesima, il diritto di sciopero va esercitato in osservanza delle regole e delle procedure  fissate dalla citata normativa.

Si comunica che il sindacato CONF.A.S.I. Scuola ha proclamato per il giorno 26 gennaio 2019 “uno sciopero di tutto il personale docente ed ATA a tempo determinato e indeterminato per la giornata di sabato 26 gennaio 2019”.

Affinché siano assicurate le prestazioni  relative alla garanzia dei servizi pubblici essenziali così come individuati dalla normativa citata, le SS.LL., ai sensi dell’art. 2, comma 6, della legge suindicata sono invitate ad attivare, con la massima urgenza, la procedura relativa alla comunicazione dello sciopero alle istituzioni scolastiche e, per loro mezzo, alle famiglie e agli alunni.

Si ricorda inoltre, ai sensi dell’art. 5, che le amministrazioni “sono tenute a rendere pubblico tempestivamente il numero dei lavoratori che hanno partecipato allo sciopero, la durata dello stesso e la misura delle trattenute effettuate per la relativa partecipazione”.

Dette informazioni dovranno essere acquisite attraverso il portale SIDI, sotto il menù “I tuoi servizi”,  nell’area “Rilevazioni”, accedendo all’apposito link “Rilevazione scioperi” e compilando tutti i campi della sezione con i seguenti dati:

  • il numero dei lavoratori dipendenti in servizio;
  • il numero dei dipendenti aderenti allo sciopero anche se pari a zero;
  • il numero dei dipendenti assenti per altri motivi;
  • l’ammontare delle retribuzioni trattenute.

Al termine della rilevazione, come di consueto,  sarà cura di questo Ufficio rendere noti i dati complessivi di adesione trasferendoli sull’applicativo  Gepas del Dipartimento Funzione Pubblica e pubblicandoli nella sezione “Applicazione Legge 146/90 e s.m.i.” del sito Web del Ministero raggiungibile all’indirizzo http://www.miur.gov.it/web/guest/applicazione-legge-146/90-e-s.m.i. Nella stessa sezione verrà pubblicata la presente nota ed ogni altra eventuale notizia riguardante il presente sciopero, compresi i dati di adesione.

Analogamente, al fine di garantire la più ampia applicazione dell’indicazione di cui all’art.5 citato, i Dirigenti scolastici valuteranno l’opportunità di rendere noti i dati di adesione allo sciopero relativi all’istituzione scolastica di competenza.

Nel confidare nel consueto tempestivo adempimento di tutti i soggetti ai vari livelli coinvolti , si ringrazia per la collaborazione.

IL DIRIGENTE
Rocco Pinneri

Nota 14 gennaio 2019, AOODGSINFS 1022

Ministero dell’Istruzione, dell‘Università e della Ricerca
DIPARTIMENTO PER LA FORMAZIONE SUPERIORE E LA RICERCA
Direzione generale per lo studente, lo sviluppo e l’internazionalizzazione della formazione superiore

OGGETTO: Premio Nazionale delle Arti XIV edizione: incarichi.

Accessibilità dei servizi sanitari digitali

Agenda Digitale del 14-01-2019

Accessibilita’ dei servizi sanitari digitali, i principi da rispettare per una “progettazione universale”

I servizi digitali, in primis quelli della sanità devono essere accessibili, fruibili da tutti. Ma è una questione spesso sottovalutata da chi progetta i servizi. Vediamo quali sono i principi del “progettare per tutti”.

di Sergio Pillon,
coordinatore della Commissione Tecnica Paritetica del Ministero della Salute per lo sviluppo della telemedicina nazionale.

I servizi di sanità digitale non sempre sono accessibili o in regola con le norme e le buone prassi. E non è tanto una questione di disabilità, quanto di equità, semplicità e buon senso. Cerchiamo allora di capire come si possa facilmente progettare servizi per tutti, tenendo a mente sette facili principi e partendo dal cambiamento di prospettiva portato dalla direttiva Ue sull’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici (Direttiva 2016/2102).

La direttiva è stata recepita nel nostro paese il 26 settembre 2018. Con l’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 106 del 10 agosto 2018, pubblicato in GU n.211 del 11-9-2018, la disposizione entra nel vivo, aggiornando e modificando la Legge 9 gennaio 2004, n. 4 “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”, uno dei maggiori riferimenti in materia di accessibilità. Ne ha già parlato Roberto Scano presidente Iwa, presidente commissione UNI e-accessibility su agendadigitale.

La medicina delle quattro P.
Il primo cambiamento portato dalla nuova direttiva sembra banale ma cambia il punto di vista: alla legge 9 gennaio 2004, n. 4, vengono sostituiti ovunque i concetti di “disabile” con “persona con…” ad esempio i “disabili”, ovunque ricorrano, sono sostituite da “persone con disabilità”. Si diventa persone, così come noi medici dobbiamo sempre ricordare che un “diabetico” un “cardiopatico” sono prima di tutto persone con il diabete, persone con una cardiopatia. Le malattie e le disabilità sono tante, la persona è una sola, una persona con disabilità, il diabete ed una cardiopatia, e non a caso anche la medicina sta diventando sempre più la medicina personalizzata, la medicina delle 4P, la medicina della persona, considerata come un “unicum” a cui i servizi si devono rivolgere, e la medicina si fa anche con strumenti informatici e spesso si fa su persone con disabilità

La “disabilità rapportata ai contesti”.
Ma chi è la persona con disabilità? Una definizione moderna analizza il contesto per definire una ridotta capacità la “disabilità rapportata ai contesti”. Io, se dovessi giocare a calcetto con un gruppo di ventenni, sarei indiscutibilmente una persona con disabilità, se fossi in un gruppo di giapponesi che ridono e scherzano avrei certamente difficoltà cognitive e sia nel calcetto sia nel gruppo di giapponesi e sarebbe necessario uno sforzo da parte degli altri per farmi partecipare, adattando le loro capacità fisiche alle mie di sessantenne in sovrappeso o, nel caso dei giapponesi, di italiano che non capisce neppure le espressioni non verbali di un giapponese. Una persona su una sedia a rotelle per una lesione della colonna è perfettamente a suo agio in un salotto, non è “disabile”, lo diventa se chiede di andare in bagno e il locale non ha un bagno attrezzato. E chi non riesce ad usare uno smartphone?

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) disabilità è un termine generale che comprende:
• un handicap: un problema relativo ad una funzione o ad una struttura del corpo
• una limitazione nelle attività: una difficoltà che il soggetto incontra nell’eseguire un compito o un’azione
• una restrizione nella partecipazione: un problema che il soggetto incontra nell’essere coinvolto pienamente nelle situazioni della vita.

Siamo tutti “persone con disabilità”.
La disabilità quindi è un fenomeno complesso, che riflette l’interazione fra il corpo della persona e la società in cui la persona vive. La conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, i fattori personali ed i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo. Tutti i nostri pazienti possono essere considerati “persone con disabilità” anche se non rientrano nel concetto di “disabili lavorativi con deficit superiore all’80%” definito dall’Inps. Un anziano che non riesce ad usare uno smartphone ha un certo grado di disabilità secondo il concetto precedente, è fuori da molti contesti, ma certo non è per questo considerabile una persona con disabilità secondo l’Inps.

La progettazione universale.
Il secondo cambiamento nella nuova legge riguarda i contenitori ed i contenuti: le parole «siti Internet», ovunque ricorrano, sono sostituite dalle seguenti: “siti web e applicazioni mobili”. Meglio spiegare di cosa si sta parlando, ed in seguito si descrivono nel dettaglio gli uni e gli altri. Infine arriva la parte davvero interessante, le prescrizioni, la ricetta che il medico fa alla fine della visita per curare il paziente, l’art. 3-bis (Principi generali per l’accessibilità). Non vale la pena discuterlo nel dettaglio ma, come appare immediatamente chiaro a chi disegna servizi di sanità elettronica, il tutto è piuttosto confuso nella comprensione e nell’attuazione e rimanda infatti a chiarimenti emessi dall’AGID. Le linee guida di design per i servizi digitali della PA, nella release CC-BY 3.0 dell’Agenzia per l’Italia Digitale , non sono particolarmente di aiuto ed introducono una complessità (90 pagine) legata alla necessità di essere “universali” di parlare di tutti i servizi digitali della PA.

Come fare per progettare servizi di sanità digitale accessibili, fruibili da tutti? Può essere un grande aiuto il concetto sviluppato nel mondo dell’architettura, di Universal Design, in italiano “Progettazione Universale”, con la variante correlata “Progettazione per tutti” (in Inglese Design for All). “La progettazione universale -come ricorda Wikipedia – è il termine internazionale con cui ci si riferisce a una metodologia progettuale di moderna concezione e ad ampio spettro che ha per obiettivo fondamentale la progettazione e la realizzazione di edifici, prodotti e ambienti che siano di per sé accessibili a ogni categoria di persone, al di là dell’eventuale presenza di una condizione di disabilità. Il termine Universal design è stato coniato dall’architetto Ronald L. Mace della North Carolina State University assieme ad un gruppo di collaboratori, per descrivere il concetto di progettazione ideale di tutti i prodotti e gli ambienti artificiali, tali che siano piacevoli e fruibili per quanto possibile da chiunque, indipendentemente dall’età, dalla capacità e/o dalla condizione sociale.

L’Universal Design è emerso dai concetti, leggermente anteriori, di senza barriere (barrier-free), dal più ampio movimento dell’accessibilità e dalla tecnologia adattiva e assistiva, cercando inoltre di fondere l’estetica a queste considerazioni di base. Mentre l’aspettativa di vita si alza e le scienze mediche migliorano il tasso di sopravvivenza dei pazienti con lesioni significative, malattie e difetti congeniti, vi è in parallelo un crescente interesse per la progettazione universale. Ci sono molti settori in cui il design universale sta avendo una forte penetrazione di mercato, ma ci sono molti altri in cui non è ancora stato adottato in ampia misura. Il design universale viene anche applicato alla progettazione della tecnologia, dell’istruzione, dei servizi, e del più ampio spettro di prodotti e ambienti.”

Si parla di servizi e non di Web e di app. I servizi di medicina digitale si possono erogare anche in altri modi, email ad esempio o sms, call center, ChatBot… solo per fare alcuni esempi, va progettato il servizio e non il portale web o l’app.

I 7 principi fondamentali del progettare per tutti
Principio 1 – Equità – uso equo: utilizzabile da chiunque.
Principio 2 – Flessibilità – uso flessibile: si adatta a diverse abilità.
Principio 3 – Semplicità – uso semplice ed intuitivo: l’uso è facile da capire.
Principio 4 – Percettibilità – il trasmettere le effettive informazioni sensoriali.
Principio 5 – Tolleranza all’errore – minimizzare i rischi o azioni non volute.
Principio 6 – Contenimento dello sforzo fisico – utilizzo con minima fatica.
Principio 7 – Misure e spazi sufficienti – rendere lo spazio idoneo per l’accesso e l’uso.

Questi principi sono stati elaborati per essere applicati nel più numero più ampio possibile di settori, quindi dall’edilizia ai trasporti ma anche dall’informatica alle tecnologie, dall’ambiente di lavoro alle attività turistiche e sportive e così via. Vale la pena dare un’occhiata al sito del Centre for Excellence in Universal Design (CEUD) http://universaldesign.ie/What-is-Universal-Design/The-7-Principles/ , dove si possono anche trovare le numerose norme UNI su accessibilità dei servizi.

Non è lo scopo di queste considerazioni insegnare a progettare un servizio digitale accessibile ma di evidenziare alcuni concetti:
1. I servizi di sanità digitale vanno considerati tutti rivolti a “persone con disabilità”
2. Non si tratta tanto di rispettare regole tecniche, spesso basterebbe utilizzare il buon senso
3. Non si tratta tanto di servizi per persone con disabilità, tutti servizi devono essere facili da capire ed usare, usabilità è il concetto chiave
4. I servizi digitali sono progettati da ventenni per essere usati da sessanta-settantenni ed oltre, pensateci e condividete le beta con chi li usa
5. La formazione di chi progetta questi servizi è indispensabile, il servizio magari è fruibile con un’app ma potrebbe esserlo anche attraverso una telefonata, o con l’aiuto di un caregiver o un chatbot. Non si tratta di accessibilità informatica ma di accessibilità del servizio!