Quella carica innovativa che nasce dal mondo della disabilità

Vita.it del 11-03-2019

Quella carica innovativa che nasce dal mondo della disabilita’

La cooperazione allo sviluppo a dodici anni dalla ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità sta attraversando una fase di grande cambiamento. Le prassi e gli strumenti nuovi, che rendono protagoniste le persone con disabilità, stanno producendo una grande innovazione, generando approcci di avanguardia che in Europa faticano a decollare. L’Italia c’è.

MILANO. Il punto di partenza è semplice ma non scontato: «Una realtà come la nostra, che si occupa di assistenza alla fragilità fisica e sociale e affronta quotidianamente la sfida di rendere accessibili le migliori tecniche alle fasce della popolazione con le più diverse fragilità, non può ignorare il fatto che nel mondo le persone con disabilità spesso vivono ancora in condizioni di difficoltà e di affanno e che in Paesi in cui l’esistenza quotidiana è oggettivamente complicata, le persone con una disabilità hanno ancora più difficoltà del resto della popolazione». Don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione Don Gnocchi, presenta con questa chiara semplicità le ragioni di un impegno forte e antico nella cooperazione allo sviluppo. La Fondazione Don Gnocchi insieme a OVCI – La Nostra Famiglia e ad AIFO sono fra le realtà italiane storicamente più impegnate sul fronte della disabilità, nell’ambito della cooperazione e non a caso hanno promosso, insieme, un convegno internazionale dal titolo “Essere persona. La disabilità nel mondo: quali diritti, inclusione e riabilitazione?”, che si terrà a Milano il 5 e 6 aprile prossimi (qui il programma e le informazioni per le iscrizioni).

Nata nel 1952 come Fondazione Pro Juventute, attiva nella cooperazione internazionale dalla seconda metà degli anni ’90, la Fondazione Don Gnocchi è oggi presente in sei Paesi (Bolivia, Bosnia Erzegovina, Burundi, Ecuador, Rwanda, Ucraina, più un nuovo progetto che partirà in Myanmar nel 2019) in interventi imperniati soprattutto sulla riabilitazione, intesa però non solo in senso clinico ma anche in tutti gli aspetti sociali, formativi e di inclusione all’interno della comunità. Nel 2018 dei suoi progetti hanno beneficiato 5.378 persone, con 620 operatori formati.

«Don Carlo parlava di “restaurazione” dell’uomo. Quello che aveva già in mente era il concetto di inclusione, per cui le persone con disabilità, ai suoi tempi i “mutilatini”, dovevano essere aiutate con quanto di meglio la scienza e la tecnologia offrono per rientrare pienamente nella società, da protagonisti. Infatti chiamava le sue strutture “collegi”, che sono per definizione luoghi in cui ci si prepara a entrare nel mondo, non per segregarsi. Il nostro impegno è attualizzare nell’oggi e nel mondo quel concetto, offendo a tutti quanto di meglio c’è, rendendo il meglio accessibile a tutti», spiega don Barbante. E “il meglio” non è da intendere solo macchinari, ma anche come know how (ogni anno decine di operatori della Don Gnocchi partecipano a missioni all’estero e molti si coinvolgono al punto poi da tornarci, usando le loro ferie), protocolli riabilitativi, metodologie innovative da condividere. «Oggi la riabilitazione va intesa come un accompagnamento per favorire l’inclusione sociale di chi si trova in una condizione di fragilità e non è qualcosa di sanitario, assistenziale, che coinvolge solo il terapista. La cura copre questi l’aspetto fisico, psicologico, sociale e la persona con disabilità non è più vista solo come oggetto di cura ma come protagonista, come primo operatore. Chi lo assiste è solo una persona che cammina insieme a lei».

Fondazione Don Gnocchi e OVCI collaborano da molti anni su un progetto in Ecuador: la sintonia di valori si è fatta così concreta, nella quotidiana operatività, diventando un essere “sulla stessa lunghezza d’onda”. Anche OVCI è “figlia” di un beato: don Luigi Monza. Pressoché contemporaneo di don Carlo Gnocchi, don Luigi fondò l’Istituto Secolare delle Piccole Apostole della Carità la cui opera principale è La Nostra Famiglia, punto di riferimento in Italia per i bambini con disabilità: «Ognuno senta viva la responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini di questi bambini e il compito che si assume lo porti a termine con amore e con sacrificio», diceva il beato Luigi Monza. L’OVCI nasce nel 1982 da alcuni amici dell’Associazione, con l’intento di dare risposta alle richieste di intervento espresse da tanti Paesi in Via di Sviluppo. Oggi OVCI ha 13 progetti attivi, in sei Paesi (Sud Sudan, Sudan, Brasile, Ecuador, Cina e Marocco), con più di 537mila beneficiari. «OVCI porta nel mondo l’altissimo profilo di La Nostra Famiglia nella gestione delle problematiche connesse alla disabilità», afferma il presidente Elio Cerini.

«Temi come l’accessibilità e l’accomodamento ragionevole o il rafforzamento delle organizzazioni delle persone con disabilità caratterizzano la nostra azione da 40 anni ormai, ci consideriamo anticipatori: il cambiamento culturale legato alla Convenzione Onu ci trova non solo attenti ma nel nostro habitat naturale, abbiamo sempre lavorato nella dimensione dei diritti». Cerini racconta del Sud Sudan, dove OVCI non ha mai interrotto i progetti, nemmeno durante la guerra e ha messo in piedi la prima scuola per fisioterapisti del Paese: «Nel Paese non c’è una scuola di ingegneria civile ma abbiamo già laureato 50 persone, ce ne sarà presto uno in ogni ospedale. Cerchiamo di anticipare il futuro, per quanto possibile». Con radici ben salde nel carisma del fondatore, che amava dire – ricorda Cerini – che «il bene va fatto bene. Nella cooperazione bisogna essere pragmatici, che significa coniugare l’essenzialità, quel che si deve fare, con la preveggenza, la concretezza col sogno, la decisione e il discernimento. Il discernimento serve per organizzare la nostra decisione ma il discernimento e il sogno insieme aiutano la preveggenza, perché quello che facciamo oggi deve servire alle persone con disabilità fra dieci anni, in questa dinamica organizziamo la nostra concretezza».

Aifo non nasce da una visione sanitaria ma sociosanitaria. Oggi gestisce 42 progetti di cooperazione socio-sanitaria, in 12 paesi: Brasile, Cina, Guinea Bissau, India, Liberia, Madagascar, Mongolia, Mozambico, Palestina, Marocco, Nicaragua.

Antonio Lissoni è presidente di Aifo, l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau. Follereau (1903-1977) è noto in tutto il mondo per la lotta alla lebbra: una lotta centrata non solo sulla cura della lebbra come malattia, ma anche dello stigma e del preguidizio. «Follereau parlava di “lebbre” al plurale, la nostra storia è stata sempre centrata sui diritti, Aifo non nasce da una visione sanitaria ma sociosanitaria», spiega. Oggi Aifo gestisce 42 progetti di cooperazione socio-sanitaria, in 12 paesi fra i più poveri del mondo (Brasile, Cina, Guinea Bissau, India, Liberia, Madagascar, Mongolia, Mozambico, Palestina, Marocco, Nicaragua): progetti di lotta alla lebbra, per la prevenzione primaria e l’accesso universale ed equo alla salute (per quasi 186mila beneficiari) e progetti di riabilitazione su base comunitaria, perché la persona sia rimessa al centro dell’assistenza sociale e sanitaria (altri 153mila beneficiari, dati 2017).

Il convegno di aprile, per Lissoni, dovrà lanciare un messaggio «fortemente politico, non possiamo ridurlo a un fatto per gli esperti e gli addetti ai lavori. Occorre una presa di consapevolezza maggiore sul tema della disabilità che riguarda un miliardo di persone nel mondo e 5 milioni in Italia, inquadrandolo – questo è fondamentale – dal punto di vista dei diritti. Invece se dovessimo prendere le cinque maggiori testate giornalistiche italiane, quanti articoli troveremmo sulla disabilità, scritti da persone con disabilità?». Ecco allora l’importanza di una riflessione comune tra ong «che condividono la centralità della persona ed il valore dell’inclusione nei programmi di cooperazione internazionale», in sintonia con quella Convenzione ONU sulle Persone con Disabilità «che ha già provocato un cambiamento culturale profondo nell’approccio alla disabilità ma che richiede ancora uno sforzo di approfondimento delle strategie e di adeguamento delle azioni».

Fra i nuovi aprocci di cui parlano anche le “Linee Guida per la disabilita` e l’inclusione sociale negli interventi di cooperazione 2018” dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, un documento che pone l’Italia tra gli Stati più attenti e più evoluti su questo tema, c’è la riabilitazione su base comunitaria, di cui Aifo è un po’ padre. Lissoni ricorda un progetto in Mongolia, negli anni ’90, con fisioterapisti a cavallo che giravano per le tende, parlando di diritti e spiegando ai famigliari delle persone con disabilità come si fa riabilitazione, poi avviando piccole esperienze di microcredito… «La riabilitazione è il primo passo, poi c’è l’abilitazione, cioè il rendere possibile una cittadinanza attiva. È questo il cuore rivoluzionario della Convenzione Onu, che implica un cambio radicale di atteggiamento, superando l’approccio assistenziale per la partecipazione: se nei processi che riguardano le persone con disabilità non mettiamo le persone con disabilità, compiamo un errore. Anche perché dalle persone con disabilità può venire – lo vediamo nei Paesi in cui siamo – un grandissimo contributo di innovazione. L’Italia l’ha capito, il peer counseling e la ricerca emancipatoria per fare due esempi sono pratiche sistematiche, come la scelta – l’AICS è stata fra i primi al mondo a farla – di prestare attenzione alla disabilità in tutti i progetti, non solo con progetti dedicati e specifici. Ora la sfida è essere presenti nel dibattito internazionale e cogliere questo momento che può essere di fortissima innovazione».

Il convegno internazionale “Essere persona. La disabilità nel mondo: quali diritti, inclusione e riabilitazione?”, si terrà a Milano il 5 e 6 aprile 2019 (via Romagnosi 8). Sono previste due plenarie e tre workshop. Le plenarie, nelle mattinate di venerdì e sabato, hanno per titolo rispettivamente “Disabilità: quali prospettive dalle istituzioni verso il 2020?” e ” Disabilità: essere riconosciuti come persone”. I tre workshop, nel pomeriggio di venerdì, saranno invece dedicati a “Implementazione dei diritti: strumenti per l’inclusione”, “La cooperazione sanitaria internazionale tra riabilitazione medica, formazione e ricerca” e “Rafforzare le comunità locali: strumenti e obiettivi”.

Info allo 02.40308915 o alla mail esserepersona@dongnocchi.it
Iscrizioni su eventi.dongnocchi.it

di Sara De Carli

Ital-IA

Ital-IA. A Roma un convegno per condividere e sviluppare
le opportunità dell’Intelligenza Artificiale

Il 18 e il 19 marzo 2019 si terrà a Roma il primo Convegno Nazionale del Laboratorio “Artificial Intelligence and Intelligent Systems” del CINI, al fine di coinvolgere Istituzioni, Centri di Ricerca e Imprese e condividere obiettivi e opportunità di sviluppo.

Ital-IA è il Convegno organizzato dal Laboratorio Nazionale “Artificial Intelligence and Intelligent Systems” (AIIS) del Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (CINI), in collaborazione con Confindustria; si terrà il 18 e 19 marzo 2019 presso il Centro Congressi Auditorium della Tecnica a Roma.

Il Convegno ha l’obiettivo di “fare rete” tra tutte le realtà interessate in Italia per cogliere le potenzialità di sviluppo legate all’Intelligenza Artificiale, considerata la tecnologia più strategica e dirompente del XXI secolo.

L’evento si articola in due giornate; la prima sarà dedicata a una serie di workshop verticali, la seconda avrà carattere istituzionale.

Il 18 marzo 2019 i workshop mireranno a evidenziare le potenzialità applicative dell’Intelligenza Artificiale in settori di grande rilievo: cybersecurity, cultura, istruzione, finanza e commercio, medicina, automazione industriale, pubblica amministrazione, giurisprudenza, trasporto e città intelligenti, agricoltura, ricerca spaziale, media e intrattenimento e molti altri ancora.

La giornata dei workshop si propone di far emergere un quadro della situazione in Italia, delle sinergie tra ricerca, industria e istituzioni, che possa fornire una base di riferimento scientifica e tecnologica per il programma del giorno seguente.

Il 19 marzo sarà dedicato alla presentazione del Laboratorio e dei risultati dei workshop, all’interazione con le istituzioni italiane ed europee e con i referenti dell’industria nazionale, per contribuire alla strategia nazionale sull’Intelligenza Artificiale. Saranno presenti ospiti illustri delle Istituzioni nazionali, della Comunità Europea e del mondo produttivo quali il Sottosegretario del MISE, Sen. Andrea Cioffi, il Vice Direttore Generale Dip. delle Informazioni per la Sicurezza, Roberto Baldoni, il Direttore Generale del Dip. per la formazione superiore e per la ricerca MIUR, Giuseppe Valditara, il Direttore Generale AGID, Teresa Alvaro e il Direttore Area Politiche Industriali, Confindustria, Andrea Bianchi. L’incontro sarà introdotto dal Direttore del Laboratorio nazionale Artificial Intelligence and Intelligent Systems, Rita Cucchiara.

“Ital-IA è un evento che ha già ottenuto una grande attenzione presso le aziende e il mondo scientifico – commenta il professor Daniele Nardi, General Chair di Ital-IA e titolare dell’insegnamento di Intelligenza Artificiale della Laurea Magistrale in Artificial Intelligence and Robotics di Sapienza – abbiamo ricevuto oltre 400 contributi di grande interesse. L’obiettivo è creare presupposti per l’attivazione di azioni sinergiche tra il modo della ricerca e quello dell’industria, al fine di consentire al Paese di sfruttare al meglio le opportunità in questo momento offerte dalle tecnologie dell’Intelligenza Artificiale”.

Il Convegno ha ottenuto il supporto prestigioso di aziende italiane e internazionali: Almaviva e Almawave, E4, Engineering, Injenia, in qualità di Platinum Sponsor; Altilia, Datalogic Global Events, Microsoft in qualità di Gold Sponsor; Computer Science Park, DIH, e-GEOS, Elmi, Energyway, Gruppo Omega, Images, Objectway, Pluribus One, Ricca IT in qualità di Silver Sponsor.


Piano straordinario reclutamento Università

Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Marco Bussetti, ha firmato il decreto relativo al Piano straordinario di assunzioni per ricercatori universitari di tipo b previsto, con appositi stanziamenti, dall’ultima Legge di bilancio.

Si tratta, in tutto, di 1.511 posti che, spiega Bussetti, “consentiranno a molti giovani di inserirsi in un percorso che li vedrà impegnati in attività di ricerca e di insegnamento, con il passaggio, dopo tre anni, al ruolo di professore associato. Si tratta di 206 posti in più rispetto al Piano attuato dal precedente Governo: un segno concreto di quell’azione di rilancio del sistema universitario che vogliamo avviare a partire proprio dai giovani”. Quella che si sta attuando, prosegue il Ministro, “è una misura che va letta insieme agli altri provvedimenti che abbiamo adottato, sempre in Legge di bilancio, per aumentare il numero di assunzioni nelle Università: dopo molti anni si torna a reclutare oltre il normale turn over. Abbiamo promesso maggiori attenzioni nei confronti dell’Università e stiamo dimostrando con i fatti che vogliamo davvero investire in questo settore”.


Soft skills

Soft skills: la (pur parziale) riscoperta dell’educazione

di Gabriele Boselli

La dipendenza culturale delle alte gerarchie del mondo dell’istruzione pubblica e privata da quelle dell’industria ha un nuovo nome, naturalmente in lingua inglese: soft skills. Un caso di effetti non-perversi

Dopo aver tentato per una ventina d’anni di far crescere il pensiero convergente e ripetitivo scoraggiando quello critico e creativo attraverso test originariamente pensati secondo logiche studiate per i primati superiori, ma palesemente inadatti per i cuccioli della specie umana (metodo e applicativi INVALSI), le èlites dominanti hanno compreso che, anche solo per far crescere l’economia, le competenze e le abilità (pardon: skills) hard non bastano.
Non che Lorsignori siano ancora pervenuti all’intelligenza del fatto che l’addestramento e la valutazione oggettivistica non servono a far crescere gli operatori della scuola e il sistema economico e che non basta nemmeno l’istruzione (capacità di adoperare gli strumenti delle varie discipline) ma occorre l’educazione. Sarebbe pretendere troppo. La serie dei ministri dell’Istruzione che da Giovanni Gentile, attraverso fasi intermedie come quella illuminata da Maria Stella Gelmini (tunnel del Gran Sasso) ascende a Giuseppe Fioroni o a Marco Bussetti indica la progressiva crescita delle supreme gerarchie della scuola come garanzia di alto indirizzo culturale della scuola italiana. Dalla doppia prova di latino e da prove matematico/scientifiche nell’esame di Stato che investivano l’intero percorso liceale e da cui (1924) uscivano promossi gli studenti in misura poco superiore al 50% al quasi 100% dei giorni nostri è del resto evidente la miracolosa crescita dell’istruzione e dell’educazione assicurate agli studenti dalla macchina del MIUR grazie anche al carisma intellettuale di coloro che si sono succeduti alla stessa scrivania di Giovanni Gentile.
Negli ultimi vent’anni l’educazione è stata trattata come un’inutile anticaglia ma ormai i signori di Lorsignori hanno fatto capire che in quel mondo del lavoro che per essi costituisce l’unica vera costellazione di obiettivi della scuola, da quella dell’infanzia all’università, non servono solo soggetti competenti. Servono anche persone capaci di critica e autocritica, di intelligenza dei pensieri e delle emozioni proprie ed altrui, di innovazione nella soluzione dei problemi; soggetti non solo flessibili ma agili, capaci non solo di adattarsi all’ambiente ma di riconfigurarlo variando la propria posizione e la qualità dell’impegno. Di qui l’importanza che comincia a essere attribuita alla dignità del soggetto e alla conseguente capacità di aver fede in se stesso e di padroneggiare le forme della comunicazione, anche al fine di non restar preda della volontà di dominio e dei conflitti scatenati da altri.
Tutte capacità che la pedagogia, in quanto scienza filosofica, ha sempre indicato come aspetti salienti dell’assiologia educativa. Questo inizio di una riscoperta dell’educazione non è male ma è un peccato che questa parte del patrimonio concettuale che la scuola detiene da millenni sia ufficialmente riconosciuta solo su richiesta del mondo dell’economia.

La scuola del rinvio: anche per i presidi la valutazione può attendere

da Il Sole 24 Ore

di Eugenio Bruno e Claudio Tucci

La scuola italiana si conferma allergica alla valutazione. A qualsiasi livello. Sia che si guardi agli studenti, e alla loro risaputa avversione per le prove Invalsi (peraltro condivisa con una fetta del corpo docente), sia che ci si soffermi sui dirigenti scolastici, e sulla separazione che continua tra risultati e retribuzione, lo scenario è identico. Con i “valutati” che cercano di ridurre l’impatto del giudizio dei “valutatori”. O quanto meno di rinviarne gli effetti. L’ultimo esempio in ordine di tempo arriva dai presidi. Nonostante la Buona Scuola stabilisca chiaramente che la valutazione del loro operato «è coerente con l’incarico triennale e con il profilo professionale ed è connessa alla retribuzione di risultato», questo link, anziché essere attuato, è stato appena rinviato per il terzo anno consecutivo.

P er effetto di un accordo siglato la settimana scorsa tra il ministero dell’Istruzione e i sindacati anche quest’anno la valutazione dell’operato dei dirigenti scolastici non impatterà sulla parte variabile dei loro stipendi. Un attestato di sensibilità verso la categoria che segue di tre mesi il munifico rinnovo contrattuale che ha fatto crescere le buste paga dei presidi in media di 460 euro netti al mese.

In teoria, in base alla normativa esistente, i presidi devono compilare annualmente un “portfolio” di autovalutazione che indichi punti di forza e di debolezza, oltre che gli obiettivi di miglioramento, inviarlo al Miur e aspettare la “pagella” dei valutatori. Che dovrebbe costituire la base per assegnare il “premio” di risultato. In pratica invece, anche nell’anno scolastico 2018/2019, questo meccanismo si ferma al primo tempo. E anche l’invio del portfolio diventa un’operazione facoltativa. Senza alcuna penalità. Risultato: numeri sindacali parlano di una riduzione dal 66 al 55% dei presidi che hanno compilato il questionario.

Uno scenario analogo è offerto dalla valutazione dei docenti. Era stata sempre la Buona Scuola infatti a introdurre un bonus per gli insegnanti meritevoli, erogato dai dirigenti sulla base dei criteri individuati dai nuclei di valutazione “misti” presenti in ogni scuola. Un’innovazione storica per un paese che ha retribuito i prof sempre e solo sulla base dell’anzianità di servizio. Ancora più importante se si considera, come testimonia un recente rapporto di Eurydice sulla carriera dei docenti, che quel “gettone” rappresenta l’unica declinazione della parola valutazione applicata ai professori italiani.

In realtà, anche in questo campo di merito se ne è visto poco. L’ultimo monitoraggio sull’uso dei 200 milioni stanziati all’epoca dalla legge 107/2015 – nel frattempo scesi a 112 milioni e poi risaliti a 160 – è datato 2017. E a riceverlo era stato più di un docente su tre. Da quel momento il Miur non ha più diffuso alcun dato. Ma, considerando l’estensione per via contrattuale anche ai precari, è presumibile che la platea dei beneficiari sia cresciuta ancora. E l’importo assegnato agli insegnanti sempre più spalmato “indistintamente”.

Con un altro paradosso: dopo un triennio sperimentale, in cui ogni dirigente scolastico e nucleo di valutazione hanno agito da sé, un comitato tecnico scientifico avrebbe dovuto emanare delle linee guida valide per l’intero territorio nazionale. Un organismo che però non ha mai visto la luce. Per non parlare della valutazione esterna delle scuole: la percentuale di “visite” doveva arrivare, gli scorsi anni, massimo al 10% degli istituti; ci siamo fermati intorno al 5% complice la cronica carenza di ispettori ministeriali.

Arriviamo così agli studenti. Che non da sempre non vedono di buon occhio le prove Invalsi. Trovando stavolta una sponda nel governo gialloverde. Il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, dapprima le ha sganciate dall’esame di Stato (i test in italiano, matematica e inglese che si stanno svolgendo in quinta superiore non sono più requisito d’accesso alla maturità); poi ha annunciato una loro rivisitazione (per utilizzarle, probabilmente, per una “pagella” più di sistema sulla scuola italiana e meno sul livello degli appredimenti del singolo studente). Come conferma l’atto di indirizzo con le priorità del 2019, dove il Miur ha previsto di metter mano all’intero sistema nazionale di valutazione, con l’obiettivo, è scritto nel documento, «di definire nuove priorità strategiche da perseguire nel triennio 2019/2022».

Insomma, sulla valutazione si profila l’ennesimo cambio. Da Berlinguer a Fedeli ogni esecutivo si è esercitato sul tema. Senza effetti memorabili dal punto di vista del merito. Che, di fatto, è sempre rimasto fuori dalla finestra di viale Trastevere.

Bullismo, i genitori di chi guarda sono corresponsabili per i danni

da Il Sole 24 Ore

di Marisa Marraffino

Parlare di scherzi negli episodi di bullismo aggrava la posizione del minorenne autore dei fatti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza dello scorso 11 giugno, n. 26595 che ha dato il via a una giurisprudenza sempre più severa sulle aggressioni subite dai ragazzi durante l’orario scolastico.

A risponderne in sede penale sono direttamente i minorenni che hanno compiuto 14 anni, se imputabili. A pagare i danni sono invece quasi sempre i genitori sia dell’autore dei fatti che dei ragazzi che hanno assistito a un episodio di bullismo, senza dissociarsi. Per evitare i risarcimenti, secondo i giudici, devono dimostrare di non aver potuto fare nulla per impedire l’evento, una prova, vista l’ampiezza dei doveri educativi, pressoché impossibile. Secondo i giudici, è il comportamento stesso del ragazzo a dimostrare le mancanze educative dei genitori. Diventa quindi inutile cercare di provare il contrario.

Episodi gravi e continuati

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che per parlare di bullismo gli episodi debbano essere reiterati, continuativi e in grado di determinare una situazione di dominio psicologico, ossia di prevaricazione e di conseguente sottomissione della vittima.

Eppure non tutto è bullismo, come spiega il Tribunale di Civitavecchia con la sentenza del 16 novembre 2018 n. 977. In questo caso, secondo i giudici, nonostante la minore avesse sofferto per i comportamenti inopportuni e, a volte, aggressivi di un compagno definito da lei stessa come problematico, era stata la madre a ingenerare nella figlia una totale sfiducia nei confronti degli insegnanti che l’aveva portata a isolarsi e a non impegnarsi a scuola. Tant’è che nella relativa causa di separazione la figlia è stata collocata prevalentemente presso il padre chiamato a garantire la serenità della minorenne.

Le responsabilità di genitori

A finire nei fascicoli dei tribunali sono sempre più spesso le feste dei minorenni organizzate a casa dei genitori. Anche nei casi in cui non si tratti di bullismo, i genitori non si salvano – nemmeno se i figli hanno più di 14 anni – se gli hanno permesso di usare giochi pericolosi.

Così rispondono i genitori nel caso dello scoppio di un petardo durante la festa di Capodanno, se causa la lesione di un occhio al compagno di classe del figlio, oppure dello sparo di un’arma ad aria compressa visto che mettere a disposizione degli invitati giochi pericolosi senza le dovute precauzioni non è consentito.

Il principio giuridico è semplice: l’articolo 2048 del codice civile stabilisce una presunzione di responsabilità in capo ai genitori, che può essere superata soltanto dando la prova di non aver potuto impedire l’evento.

Nei processi per episodi di bullismo, per evitare le responsabilità i genitori devono quindi dimostrare di aver fatto tutto il possibile perché i fatti non si verificassero. Ma si tratta di una prova quasi impossibile anche perché la precoce emancipazione dei figli non esclude né attenua la responsabilità. Al contrario, secondo i giudici, il cambiamento dei costumi sociali ha innalzato i doveri educativi e i genitori devono essere in grado di prevenire i rischi dei tempi moderni, cyberbullismo compreso.

E rispondono dei danni anche i genitori dei figli che assistono a un episodio di bullismo senza dissociarsi. La partecipazione emotiva a un reato per i giudici denota infatti una forte carenza educativa, con buona pace dei genitori ai quali non è data la possibilità di fornire la prova liberatoria. Fa eccezione il caso in cui il minore ha partecipato o assistito all’episodio di bullismo perché egli stesso succube e vittima della prepotenza dei capi del gruppo.

Il peso dell’età

Ma le responsabilità cambiano anche in base all’età dei ragazzi. Lo ha chiarito il Tribunale di Roma con la sentenza del 9 febbraio 2018 n.3050 che ha parametrato la responsabilità dei docenti anche in considerazione dell’età degli studenti. La questione riguardava la caduta un’alunna che sbattendo contro un compagno aveva urtato contro il banco e si era rotta un dente, in un momento di assenza degli insegnanti a causa di un’assemblea sindacale. Il Tribunale oltre ad aver escluso il bullismo, ha precisato che maggiore è l’età dei ragazzi, minore è l’obbligo di vigilanza degli insegnanti.

Per i giudici quindi, durante un’assemblea sindacale, è possibile lasciare soli per un’ora ragazzi di 14 anni, presumendo che sappiano gestirsi in autonomia e non commettano atti pericolosi per sé o per gli altri.

Innovazione didattica, la commissione Istruzione della Camera avvia indagine

da Il Sole 24 Ore

La commissione Istruzione della Camera ha avviato un’indagine conoscitiva sull’innovazione didattica, anche legata all’uso di nuove tecnologie.

L’iniziativa
L’indagine, proposta dal deputato di +Europa Alessandro Fusacchia, è inquadrata nell’obiettivo 4 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, relativo ad assicurare a tutti un’istruzione di qualità, e punta a fare confronti anche con altre esperienze europee.

«L’innovazione didattica – dichiara Fusacchia – ha una natura al tempo stesso tecnologica e sociale: è un tema sul quale si dovranno confrontare negli anni a venire tutti gli attori del sistema scolastico pubblico e privato, italiano ed europeo, per far fronte alle esigenze della società e del mercato del lavoro. Come sarà la scuola nell’èra dell’intelligenza artificiale?».

Saranno indagati il rapporto tra innovazione didattica, nuove metodologie di insegnamento, e innovazione digitale, per capire se e in quali casi esse siano collegate e in che misura diverse tipologie di innovazione didattica influenzino le scelte degli studenti e i successivi percorsi di formazione e apprendimento. «Con l’indagine vogliamo capire – prosegue Fusacchia – come si possa allineare l’attuale modello educativo nazionale alle istanze richieste dalla società e dall’innovazione digitale, e come colmare i divari attuali all’interno del sistema scolastico».
Al termine dell’indagine, che si concluderà entro il 30 novembre, la commissione illustrerà i risultati della ricognizione e prospetterà le eventuali ipotesi di intervento normativo.

Il Piano dell’Offerta Formativa compie vent’anni. Com’è cambiata la scuola

da Orizzontescuola

di Gianluca Rapisarda

Esattamente vent’anni fa, l’8 marzo del 1999, per effetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, introdotta dall’art 21 della Legge n.59 del 1997, veniva varato il DPR 275 che, ai sensi dell’art 3 prevedeva la storica conquista per le scuole italiane del Piano dell’Offerta Formativa (POF).

Il POF ribaltava profondamente l’assetto del nostro sistema di istruzione, mandando definitivamente in soffitta il precedente Piano Educativo d’Istituto (PEI).

Il DPR 275/99 costituisce il cosiddetto Regolamento dell’autonomia scolastica, dettandone le specificità e le declinazioni. Esso, infatti, all’art 4 comma 2 demanda alle scuole l’autonomia didattica ed all’art. 5 comma 1 l’autonomia organizzativa, allo scopo di diversificare l’offerta formativa sulla base delle esigenze del contesto di riferimento e per rispondere in modo puntuale alle richieste formative dei genitori e degli alunni.

Conseguenza diretta dell’autonomia scolastica è il Piano dell’Offerta Formativa (POF ex art 3 del DPR 275 del 1999). Infatti, se la norma assegna a tutte le istituzioni scolastiche l’autonomia didattica ed organizzativa, è quasi scontato che esse si debbano dotare di un documento costitutivo della loro identità culturale e progettuale che ne espliciti le scelte in materia di progettazione curricolare, extracurricolare, organizzativa e didattica.

Il Piano dell’Offerta Formativa è costituito anche dal “curricolo” d’Istituto, che ne rappresenta il “cuore didattico” ed è formato fondendo la quota nazionale del curricolo con la quota riservata alle singole istituzioni scolastiche, onde poter adeguare e fare compensazioni tra gli insegnamenti tradizionali ed introdurre nuove discipline ed attività.

A proposito del Piano dell’Offerta Formativa, la recente legge 107 del 2015 ha introdotto novità significative nel sistema formativo italiano, al fine di dare concreta attuazione all’autonomia scolastica e di promuovere un’offerta formativa più inclusiva e personalizzata. L’art 1 comma 14 della 107/15, infatti, stabilisce che ogni istituzione scolastica deve dotarsi del “ribattezzato” Piano Triennale dell’Offerta Formativa” (PTOF).

La leadership educativa del dirigente scolastico viene rafforzata. Infatti, ai sensi del medesimo comma 14, il Collegio dei docenti elabora il Piano Triennale dell’Offerta Formativa sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico, attraverso il suo “atto di indirizzo”. Infine, il PTOF viene approvato e non più adottato dal Consiglio d’Istituto, come veniva invece stabilito dal DPR 275 del 1999.

Il già citato comma 14, prevede pure che il PTOF includa il cosiddetto Piano di Miglioramento (PDM). In tale parte, il Piano Triennale dell’Offerta Formativa viene ad agganciarsi direttamente al recente processo di valutazione di cui al DPR 80 del 2013, ed in particolare al Rapporto di Autovalutazione (RAV) ed al Piano di Miglioramento (PDM). In pratica, le azioni organizzative e gestionali implementate dalle scuole di ogni ordine e grado serviranno ai fini della valutazione dei risultati dell’azione dirigenziale, i cui criteri sono fissati dal comma 93 e dalle successive Direttive nn. 25 e 36 del 2016.

Il comma 12 della legge 107 del 2015 introduce un’altra significativa novità al Piano dell’Offerta Formativa, stabilendo che “le istituzioni scolastiche predispongono il PTOF entro il mese di ottobre dell’anno scolastico precedente al triennio di riferimento. (…) Il Piano può essere rivisto annualmente entro il mese di ottobre”. Nel precedente articolo 3 del DPR 275 del 1999 non era indicata nessuna scansione temporale per la revisione del Piano dell’Offerta Formativa.

Per le eventuali revisioni si dispone che esse siano pubblicate tempestivamente nel Portale unico dei dati della scuola istituito ai sensi del comma 136.

Sempre al comma 12 della legge cosiddetta della Buona Scuola, il nuovo Piano Triennale dell’Offerta Formativa contiene anche la programmazione delle attività formative rivolte al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché la definizione delle risorse occorrenti. Il PTOF dovrà pure assicurare l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità dei sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate nell’art.5, comma 2 del decreto legge 14 agosto 2013, n.93. (comma 16).

Inoltre, all’interno dei Piani Triennali dell’offerta formativa degli Istituti secondari di secondo grado vanno inclusi anche i percorsi di alternanza scuola-lavoro così come indicato nel comma 33 della legge 107/15 e come modificato dalla legge di bilancio per il 2019.

Ed ancora, nei PTOF della scuola secondaria di secondo grado possono essere altresì inseriti le eventuali attività di formazione degli alunni in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (comma 38).

Il Piano Triennale dell’Offerta Formativa può anche promuovere azioni per sviluppare e migliorare le competenze digitali degli studenti attraverso il Piano nazionale per la scuola digitale i cui obiettivi specifici sono indicati nel comma 58 della 107/15.

Infine, da ultimo, ma non certo ultimo, al fine di garantire ulteriori spazi di flessibilità e di dare concreta attuazione all’autonomia delle singole scuole, la legge 107 del 2015 ha istituito l’organico dell’autonomia, “funzionale alle esigenze didattiche, organizzative e progettuali delle istituzioni scolastiche (…) I docenti dell’organico dell’autonomia concorrono alla realizzazione del piano triennale dell’offerta formativa con attività di insegnamento, di potenziamento, di sostegno, di organizzazione, di progettazione e di coordinamento” (comma 5).

Per quanto finora esposto, fermo restando quanto modificato al Regolamento dell’autonomia dell’8 marzo del 1999 dalla legge 107/15 relativamente alla nuova configurazione del PTOF, a mio avviso, va comunque evidenziato che il dirigente scolastico non diventa tutt’a un tratto il “dominus” della scuola, in quanto resta salvo il comma 3 dell’art 3 del D.P.R. 275 del 1999 (inglobato dall’art 1 comma 14 della legge 107/15) che sottolinea come, nella progettazione del Piano dell’Offerta Formativa il dirigente scolastico debba procedere anche tenendo conto dei pareri e delle proposte delle Associazioni dei genitori e degli studenti (limitatamente alle scuole superiori).

Resta ancora vigente anche l’art .3 comma 4 del medesimo Regolamento del 1999, che richiama inoltre l’attenzione del dirigente a curare i necessari rapporti con gli Enti locali e con le realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche del territorio. Ciò significa, identicamente al DPR 275 dell’8 marzo 1999, “l’apertura della comunità scolastica al territorio con il pieno coinvolgimento delle istituzioni e delle realtà locali” (comma 2 della Buona Scuola del 2015).

Spetta ovviamente ad ogni singola istituzione scolastica “sfruttare” al meglio l’autonomia resa possibile a partire dal DPR 275/99, attivando le necessarie sinergie e collaborazioni per fare del loro Piano dell’Offerta Formativa un vero e proprio “contratto” tra scuola, famiglia ed ambiente esterno, frutto non di una ripetizione stanca e sterile delle Indicazioni Nazionali, quanto piuttosto di un impegno condiviso su un comune progetto educativo con gli stakeholders di riferimento, al solo fine del successo formativo di tutti e ciascun alunno.

Quota 100, ben 100 mila domande: poche da docenti e Ata, ha pesato l’assegno ridotto su stipendi già magri

da La Tecnica della Scuola

Di Alessandro Giuliani

“C’era un bisogno estremo” di Quota 100 “perché si pensa che già centomila persone hanno fatto domanda significa che davvero il tessuto sociale ed economico del lavoro era un po’ esausto: il provvedimento è stato accolto con grandissimo interesse dal Paese”. A dirlo è stato Claudio Durigon, il sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali, presente il 9 marzo a Firenze per un’iniziativa della Lega sul tema.

Il sottosegretario Durigon: soddisfazione enorme

“Adesso via con queste persone – ha detto il rappresentante del Governo -, dentro gente nuova per un ricambio generazionale che può dare sicuramente un impulso diverso al nostro sistema produttivo”.

“Questa legge realizza l’impegno che la Lega si era assunta in campagna elettorale e sta già incontrando il successo che eravamo certi avrebbe ottenuto, perché va incontro alla reali esigenze della gente e del Paese”, ha aggiunto Durigon.

Per Durigon, “è stata una soddisfazione enorme, abbiamo avuto tutto e tutti contro in questa fase: invece alla fine abbiamo visto come nella sua attuazione gli italiani siano andati ai patronati, abbiano fatto il loro conteggio, e quindi siano andati in pensione”.

“Arriveremo a fine legislatura”

Durigon ha anche ricordato che “in questi giorni è stato pubblicato il primo bando per le imprese e a breve verranno resi noti i bandi per i navigator”: sono state presentate ben 60 mila candidature, ma solo uno ogni dieci sarà accontentato.

“Ormai la macchina è partita, e state tranquilli che non ci sarà alcuna crisi di governo, andremo a fine legislatura. E se mai ci fosse crisi, il decreto con Quota 100 e il Reddito di cittadinanza non potrà affossare perché il Parlamento è sovrano”, ha concluso il sottosegretario.

” Questa legge restituisce dignità e diritti ai lavoratori – ha sottolineato la parlamentare torinese del Carroccio, Elena Maccanti – e a chi ci dice che così si rischia di svuotare gli enti pubblici rispondiamo che finalmente si potrà riprendere ad assumere”.

Dalla scuola tanta “freddezza”

Rimane un dato di fatto, però, che nella scuola l’anticipo pensionistico quota 100 ha riscosso un’adesione molto al di sotto delle aspettative: ci si attendevano oltre 50 mila domande, invece ne sono state presentate appena 17 mila e nel computo ci sono anche gli Ata e i dirigenti scolastici.

Sui motivi del mezzo flop, non è facile soffermarsi. Di sicuro, ha pesato la riduzione dell’assegno rispetto all’uscita con la legge Fornero, che in certi casi ha sfiorato i 400 euro netti.

Certamente, si tratta di un trattamento che vale per tutti i comparti. Ma per chi doveva percepire 1.800 euro e si ritrova, per andare via prima di qualche anno, con 1.400 euro, la riduzione pesa moltissimo.

I motivi del poco interesse della scuola per quota 100

Ma c’è anche un altro motivo: lavorare a scuola è faticoso, stancante, stressante, ma se oltre 30 mila docenti, assistenti e collaboratori scolastici hanno preferito continuare, pur trattandosi di lavoratori sopra i 60 anni, è perché svolgono comunque un mestiere non manuale.

Un mestiere, soprattutto quello degli insegnanti, che svolgendosi per il 90 per cento del tempo a stretto contatto dei giovani, alla fine permette di stringere i denti. In attesa dell’uscita dal lavoro con un assegno pensionistico più dignitoso.

Ordinanza Ministeriale 11 marzo 2019, AOOUFGAB 205

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Istruzioni e modalità organizzative e operative per lo svolgimento dell’esame di Stato conclusivo dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo grado nelle scuole statali e paritarie – anno scolastico 2018/2019.