La buona scuola nasce dal pensiero critico

La buona scuola nasce dal pensiero critico

Che cosa deve essere una buona scuola? In questa conversazione di Carlo Crosato con il pedagogista Massimo Baldacci, Professore di pedagogia generale presso l’Università Carlo Bo di Urbino, si affronta la questione di come formare abiti mentali di natura critica che facciano tutt’uno con l’atteggiamento scientifico e con l’adozione di uno spirito democratico.

Si parla molto spesso dell’importanza, per i nostri tempi, della formazione allo spirito critico. E c’è chi inizia a progettare dei corsi dedicati alla materia. Ma il pensiero critico è una materia? È qualche cosa che può essere insegnato con l’illustrazione di modelli di pensiero?

Se prendiamo in considerazione alcuni modelli di pensiero, possiamo renderci conto, come prima cosa, di quanto racchiudere il pensiero critico entro i confini di un modello applicativo sia limitante. Prima di tutto perché ogni modello ha dei propri limiti; ma poi, come dirò, anche perché il pensiero critico è pensiero in un certo senso libero: vincolarlo a un preciso algoritmo sarebbe decisamente contraddittorio.

Prendiamo come esempio il giustificazionismo. All’interno del paradigma giustificazionista, il pensiero critico è esercitato come critica dell’argomentazione: data un’asserzione, la verifica di tale asserzione è effettuata attraverso il vaglio degli argomenti di sostegno a tale asserzione e delle modalità in cui tali argomenti si relazionano alla tesi da sostenere. L’esame degli argomenti di sostegno mira, prima di tutto, a mettere in crisi la loro validità; si tratta di studiare rigorosamente la fondatezza delle premesse di una data asserzione: in questo sta il compito precipuo del pensiero critico, che dovrà mettere in crisi la legittimazione ottenuta ricorrendo all’argomento dell’autorità o al senso comune. Il pensiero critico è dunque chiamato a essere un pensiero libero, e questo perché spesso le premesse sono legittimate da un meccanismo di potere, di cui il pensiero può cadere vittima. Lo scriveva già Foucault, con il concetto di “economia politica della verità”: la verità è il prodotto di relazioni di potere e chi ha il potere tende a imporre la propria verità. Mettere in discussione quelle che sono le premesse che autorizzano certe conclusioni può significare, da questo punto di vista, aggredire alcune posizioni di potere e quindi – kantianamente – promuovere un’uscita dallo stato di minorità.

Il pensiero critico, per il modello giustificazionista, è poi chiamato a esaminare il ragionamento, il modo in cui dalle premesse si giunge all’affermazione di una qualche sentenza, sia tale connessione di tipo induttivo o deduttivo. Questo, però, ha come presupposto che le premesse possano, di per sé, legittimare una asserzione: qui, com’è noto, sta il punto aggredito dal confutazionismo, che denuncia nel giustificazionismo sia un problema di regresso all’infinito, sia la mancanza, nelle argomentazioni, di un livello di forza logica sufficiente a legittimare autenticamente. Tutt’al più si può giungere a dichiarare che si hanno “buone ragioni per sostenere che”; raramente tali giustificazioni giungono a porre una legittimazione definitiva, tale da chiudere la discussione.Si può allora tentare la via confutazionista, che propone un ribaltamento della strategia del pensiero critico. Invece di sostenere che l’asserzione deve essere posta come conclusione di una certa argomentazione, l’asserzione è posta in veste di premessa: da questa premessa si possono inferire determinate conseguenze e controllando la tenuta delle conseguenze, per lo più attraverso il controllo empirico, l’eventuale falsità delle conseguenze si trasmette sulla falsità della asserzione che funge da premessa. Notoriamente il discorso ha un limite ben preciso, dal momento che, molto spesso, tutta una serie di asserzioni molto importanti non danno luogo a conseguenze strettamente controllabili attraverso l’esame empirico. Lo stesso Popper è costretto ad ammettere che la controllabilità empirica è da considerare come una delle vie – significativa, ma non unica – di una strategia critica più ampia; un’altra via è, per esempio, la controllabilità di un’asserzione ponendo la questione della sua capacità di risoluzione di un problema.

Quindi la speranza di organizzare il pensiero critico, e dunque il suo insegnamento, attorno al centro di un paradigma operativo unico deve restare delusa. Quali sono le prospettive che ci permettono di uscire da questo problema?

Credo che questo dibattito abbia compiuto un passo molto interessante con il concetto, sollevato in particolare da Brandom, dello spazio delle ragioni: ciò che conta è che un’asserzione sia collocata entro uno spazio di ragioni, all’interno del quale sia possibile vagliare sia le autorizzazioni di quell’asserzione, sia le conseguenze e gli impegni a cui quell’asserzione dà luogo. E mi sembra interessante questa posizione, perché permette una dilatazione dell’azione del pensiero critico, facendo capire come il pensiero critico non possa essere chiuso in un solo modello. Si entra così in una dimensione che mi piace chiamare “pancritica”, in cui sia percepibile la contraddizione di cercare di assumere a fondamento dell’educazione al pensiero critico un modello particolare e determinato, un protocollo o un algoritmo, come se fosse possibile identificare una serie di passaggi logici da insegnare a chi voglia imparare l’uso del pensiero critico. Sarebbe una pessima soluzione dell’educazione al pensiero critico.

Il pensiero critico, quindi, non può essere insegnato e appreso attraverso l’istruzione a un modello preciso di azione, perché il pensiero critico deve poter vantare una certa libertà di movimento. Si tratta quindi di istituire un corso di insegnamento, una materia di “libertà di pensiero”, di “pensiero libero”?

Come ho detto, appare evidente la preferibilità di una strategia di pensiero critico aperta, che non cerchi di porre limiti anticipati, ma presupponga che la critica può essere esercitata in vari modi e che ciò che conta è la formazione di uno spirito antidogmatico, piuttosto che l’istruzione su un modello particolare e formalizzato di pensiero critico. Però – lei mi chiede – è possibile che tale istruzione sia oggetto di una materia?

La questione dell’educazione al pensiero critico è quanto mai rilevante. Vorrei riprendere a questo punto una suggestione di Dewey, pensatore che considera la formazione del pensiero critico soprattutto nell’opera Come pensiamo (soprattutto l’edizione del 1933). In quest’opera, Dewey sostiene che la formazione del pensiero non può essere promossa attraverso una procedura formale; essa è piuttosto l’esito di un processo largamente informale. Sarebbe perciò illusorio organizzare un corso focalizzato sull’educazione al pensiero critico; e altrettanto illusoria è l’idea di una materia a cui affidare la formazione del pensiero critico. La maturazione di una capacità critica, ripeto, è invece il risultato complessivo e di lungo termine dell’intera formazione scolastica, attraverso il concorso delle varie discipline, perfino dell’intero complesso scolastico.

Dewey, per sostenere che la formazione del pensiero critico è indiretta, parte da questa considerazione: troppo spesso gli insegnanti soffermano la propria attenzione soltanto sul particolare argomento che l’alunno sta studiando in quel dato momento, in quella data disciplina; così facendo, però, gli insegnanti trascurano il processo sottostante – più profondo, carsico – di formazione di abiti mentali permanenti. Eppure sono quelli che contano di più per il futuro dell’individuo in formazione. Dewey, insomma, afferma che nel lavoro formativo ci sono due livelli: uno superficiale – il particolare argomento di studio – e uno più profondo e sottostante, nell’ambito del quale non si strutturano singole conoscenze e non mere competenze, bensì abiti mentali, forme di pensiero che sono, per lui, il prodotto più importante della formazione scolastica.

Dewey torna su questo problema nel 1938, in Esperienza e educazione, opera coeva alla sua Logica. Teoria dell’indagine. In quest’ultima, Dewey riprende le tappe che erano già descritte in Come pensiamo, riorganizzandole come tappe del pensiero logico. In Esperienza e educazione, parallelamente, scrive che il maggiore errore pedagogico che possa fare un insegnante è credere che l’allievo stia imparando solo l’argomento che sta studiando in quel momento. Si parla di “apprendimento collaterale” per indicare ciò che nel ’33 aveva già chiamato “apprendimento sottostante”: è quell’apprendimento di abiti mentale ciò che conta di più in un processo di formazione. Il mutamento lessicale, da “sottostante” a “collaterale”, non è irrilevante: parlare semplicemente di processo sottostante non precisa che l’apprendimento collaterale è un processo parallelo, contemporaneo all’apprendimento superficiale degli argomenti.

Ci ha parlato di “abiti mentali”: come sono definibili? E perché Dewey e noi con lui dovremmo ritenere tanto importante la costruzione di abiti mentali?

Gli abiti mentali, spiega Dewey, sono il prodotto più duraturo della formazione scolastica: le conoscenze possono essere dimenticate, mentre gli abiti mentali, una volta strutturati, sono pervicaci, rimangono e condizionano il modo di pensare e di affrontare la realtà. L’educazione del pensiero, abbiamo detto, è un processo collaterale, indiretto, di lunga durata; questa educazione però sedimenta abiti mentali permanenti che condizioneranno in maniera costante il modo di pensare dell’individuo: è di tali abiti e della loro formazione in opera durante il percorso di acquisizione di competenze che ci si deve interessare nella fase di educazione scolastica.

E cosa significa che la formazione di questi abiti mentali è il prodotto di un processo indiretto?

Dewey precisa che l’insegnamento del pensiero non è avvicinabile per una via diretta, ma che è necessario un allargamento del concetto di metodo. Il metodo va inteso, in senso più ampio, come intero complesso formativo: non si tratta allora del solo sapere che viene impartito, ma anche del modo in cui l’insegnante avvicina questo sapere e dell’intero contesto scolastico che contribuisce alla strutturazione di abiti mentali. Da tale contesto deriva la nascita e la formazione del pensiero critico.

Si può provare a ricomprendere il pensiero di Dewey sfruttando le categorie e gli strumenti analitici forniti da Bateson, ovvero la teoria dei livelli logici dell’apprendimento, a sua volta erede della teoria dei tipi logici di Russell. La teoria di Bateson sostiene che l’apprendimento è un processo complesso articolato su più livelli e che quindi parlare di apprendimento in termini generici è sempre fonte di equivoci. Semplificando, Bateson individua tre livelli del processo di apprendimento, io considererò i primi due: il primo, il “proto-apprendimento”, è l’apprendimento così come se ne parla comunemente nei manuali di psicologia, come di una modificazione del comportamento dovuta all’esperienza, oppure come di una modificazione della struttura cognitiva dovuta all’esperienza, comunque mai dovuta a elementi innati; il proto-apprendimento è raffrontabile all’acquisizione di conoscenze e abilità, all’istruzione. Ma è insufficiente racchiudere l’apprendimento a questo solo livello: il secondo livello, “deutero-apprendimento”, sovraordinato al proto-apprendimento, lavora sulla modificazione del primo livello di apprendimento. Il deutero-apprendimento è un processo di modificazione del processo di apprendimento di primo livello e si può parlare di deutero-apprendimento quando il proto-apprendimento diventa più rapido e l’individuo “impara a imparare”. Il deutero-apprendimento è legato alla strutturazione di abitudini mentali o di abitudini appercettive, di modi di vedere e pensare: concetto sufficientemente vicino a quello di Dewey di abiti mentali.

Bateson dà alcuni chiarimenti suppletivi al processo di deutero-apprendimento: questo non si sviluppa in modo isolato, ma è sempre collaterale al processo di proto-apprendimento. Si badi all’ulteriore analogia con le indicazioni di Dewey, nonostante Dewey non compaia mai nelle bibliografie degli studi di Bateson e quindi pare si possa ipotizzare che i due sono giunti a conclusioni simili in maniera indipendente: a parlare, cioè, di un secondo livello di apprendimento, più profondo e meno evidente rispetto a quello più evidente e superficiale; un livello di apprendimento di lungo periodo. Così, sembra che si possano identificare e integrare i livelli individuati da Dewey in Come pensiamo e in Esperienza e educazione con i due livelli logici di cui ci parla Bateson, proto-apprendimento e deutero-apprendimento – Bateson prevede anche un terzo livello di apprendimento, che consente di rielaborare gli abiti mentali del deutero-apprendimento e che Bauman ha interpretato come centrale nell’odierna epoca liquida; non mi soffermerei su questo, quanto sull’assunto che l’apprendimento di abiti mentali e quindi anche dell’abito del pensiero critico va considerato come il prodotto di un’intera organizzazione formativa ed educativa.

Quali sono, quindi, le conseguenze operative di questi assunti pedagogici? Il pensiero critico non può essere insegnato attraverso modelli, né attraverso una sola e specifica materia: come va pensata allora questa educazione? Attraverso l’insegnamento di materie umanistiche, magari in età precoce?

In merito a questo, mi confrontavo con la professoressa Sharp, collaboratrice di Lipman ovvero l’ideatore della Philosophy for Children; la Sharp sosteneva che, nel curricolo scolastico, andrebbe previsto un corso di filosofia per bambini, in maniera molto precoce. Devo dire che non sono affatto contrario alla cosa; soprattutto alla luce di quanto è contenuto nel disegno di riforma La Buona Scuola del governo Renzi, il quale auspicherebbe l’istituzione di un corso obbligatorio di economia in ogni tipo di scuola. Personalmente vedrei come più auspicabile un corso di filosofia da estendere a tutte le scuole, considerando che è il pensiero libero la capacità indispensabile nella vita del cittadino; sicuramente più che una banalizzazione dell’economia da piccoli ragionieri. Per questo non sono di principio contrario alle indicazioni della professoressa Sharp. Questo, però, a condizione che il pensiero critico non sia chiuso nella “riserva indiana” del corso di filosofia: il pensiero critico deve essere metodo di apprendimento di tutte le materie e di tutti gli argomenti, deve essere l’ingrediente che fecondi tutti gli ambiti di pensiero, deve essere il lievito che garantisce la crescita della mente.

Si dovrebbe pensare un intero contesto scolastico pervaso dallo spirito del pensiero critico.

Un importante pedagogista, Lamberto Borghi, parlava della scuola come di una comunità di liberi dubitanti. Credo che sia questa la linea guida a cui ancora oggi ridare forza: coltivare la scuola non come una azienda, governata necessariamente da relazioni di potere di tipo verticistico e da catene gerarchiche, ma come una comunità di liberi dubitanti, dove vige uno spirito di discussione libera, aperta, tollerante, ricca un po’ su tutte le questioni. Si può anche immaginare quale strategia formativa – e ce ne sono varie – sia la più auspicabile, ma ciò che conta è che ognuna di queste strategie trova il proprio senso solo tenendo come sfondo questo contesto di spirito critico e questo processo di formazione dello spirito critico in maniera indiretta. Queste strategie, invece, diventano sterili se si pensa alla formazione dello spirito critico in maniera diretta, all’interno di un corso dedicato, in cui per qualche ora si pensa in maniera critica, in una giornata in cui le restanti ore sono lasciate al pensiero superficiale. E tali strategie, ancora, perdono di senso in una scuola pensata in modo aziendale, dove l’insegnante non è altro che un “caporale di giornata”, come lo chiamava Freinet, dove il direttore didattico è il sergente e il provveditore agli studi è il capitano: l’ambiente scolastico va pensato come un contesto di liberi pensatori, dove a relazioni di potere e a relazioni gerarchiche, vanno sostituite relazioni improntate a una libera e democratica discussione. Una comunità di liberi è una comunità democratica: questo della scuola come comunità democratica penso sia il vero terreno fertile in cui far maturare i nostri progetti.

Una scuola come comunità di liberi dubitanti. Non c’è qualche pericolo nello sdoganare il dubbio orizzontale e universale? Non si dovrebbero porre degli argini, almeno nei primi tempi, perché il pensiero critico non si trasformi in uno scetticismo tanto arbitrario quanto superficiale?

Certo. Con Kant, ma anche con Antonio Banfi, si deve ammettere che una delle prerogative del pensiero critico è quella di mettere coerentemente in discussione anche se stesso. E dunque per un pensiero pedagogico problematicista, occorre mettere in discussione anche l’educazione al pensiero critico. In tal senso, è stato osservato, per esempio, che ci sono condizioni di possibilità dell’educazione al pensiero critico, che non possiamo considerare automaticamente esistenti. In particolare, occorre indubbiamente che il soggetto dell’educazione, l’educando, sia giunto alla maturazione di un certo livello di risorse razionali. Il discorso è particolarmente delicato: il bambino sviluppa gradualmente risorse razionali e quindi il pensiero critico non gli è direttamente accessibile. Tornando a quanto scriveva Bateson, purtroppo larga parte dei nostri abiti mentali si va formando in un’età in cui le nostre risorse di pensiero critico sono piuttosto deboli; i bambini, per questo, tendono a essere dogmatici, a cercare certezze, spesso il bambino ha una minore tolleranza al dubbio, all’incertezza che lo disorienterebbe. Perciò, per una certa fase, le condizioni per l’educazione al pensiero critico possono essere deboli. Gramsci sosteneva che, in una prima fase formativa, probabilmente una qualche dogmatica può avere un proprio valore; lui lo sosteneva, com’è noto, anche per un altro motivo, ovvero pensando alla scuola come una lotta al folklore e ai pregiudizi dell’ambiente in cui ognuno di noi vive. E ancora Gramsci poneva una questione assolutamente principale: questo dogmatismo non può essere un dogmatismo statico, ma dinamico, puramente transitorio, disposto in una forma tale da essere suscettibile di una successiva ripresa critica. Il dogmatismo, quindi, come tappa transitoria e non definitiva.

Gramsci ha sostenuto questa posizione anche con accenni polemici: è celebre la pagina dei Quaderni dal carcere, riferita all’episodio raccontato da Croce, in merito a quanto il professor Labriola aveva suggerito circa l’educazione di un papuano. Incalzato dai suoi studenti, Labriola aveva risposto che, per educare un papuano, prima l’avrebbe fatto schiavo e se ne sarebbe riparlato poi, a partire da suo nipote: riguardo a questo, Gramsci precisa – con le parole di Bertrando Spaventa – che chi vuol permanere nel dogmatismo e nell’autoritarismo, costringendo “alla culla” i soggetti in formazione, è antidemocratico.

Per educare al pensiero critico, ci può essere anche la necessità di passare attraverso un momento dogmatico, a patto che questo dogmatismo sia dinamico e possa lasciare il passo a una revisione critica. È un tema quanto mai attuale, e si può cogliere la sua attualità se si considera ciò che è successo qualche anno fa in merito all’introduzione dell’evoluzionismo nei curricola scolastici. Ora, è indubbio che un congegno così complesso come la teoria dell’evoluzione, in una prima fase, non possa che essere insegnato in una forma piuttosto dogmatica: sarebbe un’impresa ardua pretendere che un bambino colga la teoria nella sua complessità e nelle sue articolazioni. C’era allora chi aveva proposto di affrontare il tema utilizzando delle favole creazioniste, più vicine alla mentalità del bambino, rimandando a un secondo momento il lato scientifico dell’evoluzionismo. È una posizione che è stata presto abbandonata dal Ministro dell’epoca, Letizia Moratti, sotto la pressione di scienziati di diverso orientamento. Cito questo caso, perché ricordo un esempio che molti anni prima, proprio intorno a questo problema, era stato proposto da Lucio Lombardo Radice su Riforma della scuola: supponiamo che un insegnante voglia spiegare perché l’asino ha le orecchie così lunghe, e lo faccia sostenendo che Dio, per farsi ascoltare da una creatura così cocciuta, aveva dovuto tirargliele più volte. Il bambino sarebbe senz’altro appagato da questa favola sulle orecchie dell’asino che si allungano; eppure c’è qualcosa che non va: questa è una forma di dogmatismo statico che non permette una revisione critica; quando la questione andrà ripresa successivamente, non si potrà rivedere criticamente quella favola, ma semplicemente ammettere che fosse “uno scherzo”, che le cose stanno in tutt’altra maniera, che quella favola diceva il falso.

Questo per comprendere cosa significhi la fase del dogmatismo dinamico. Un dogmatismo che è necessario, se non si vuole trasformare lo spirito critico in un feticcio da sovrapporre ai vari insegnamenti, senza il rispetto delle condizioni reali, dei tempi di maturazione dei soggetti discenti e delle loro risorse cognitive. Questo significa pensare un’educazione allo spirito critico accorta della realtà in cui andrà applicata, dotata delle opportune strategie, non metodi, ma un disegno a maglie larghe di lungo termine per formare abiti di natura critica.

Questo poi andrà a incidere sulla vita della collettività in cui lo studente vivrà.

Gli abiti mentali di natura critica fanno tutt’uno con l’atteggiamento scientifico, che è una componente imprescindibile dello spirito democratico: una scuola che forma all’atteggiamento critico è una scuola che forma all’atteggiamento democratico. Formare allo spirito critico e formare allo spirito democratico devono essere facce della medesima medaglia: una scuola che sia una comunità democratica e una comunità di liberi dubitanti mi pare realmente la buona scuola.