Il greco perché

Il greco perché *

di Maurizio Tiriticco

La seconda prova scritta scelta dal Miur per gli esami conclusivi del secondo ciclo dell’istruzione classica, quest’anno, com’è noto, è la versione dal greco. E non è una novità! In effetti una prova simile è stata assegnata anche in altre occasioni nel corso degli ultimi anni. Il che conferma che gli studi classici e il mondo classico nel loro insieme devono pur sempre costituire una parte viva nel background (ah, gli anglicismi!) della nostra cultura e del nostro stesso “Sistema EDUCATIVO nazionale di ISTRUZIONE e FORMAZIONE”. Le virgolette sono necessarie in quanto si vuole sottolineare che oggi la nostra scuola non si propone soltanto ciò che da sempre viene definita impropriamente la trasmissione della cultura e delle conoscenze!

In effetti l’EDUCAZIONE attiene alla cittadinanza, cioè all’insegnare ad apprendere come “stare insieme” in un contesto sociale in cui la libertà e la democrazia sono valori fondanti, che non possono essere trasmessi, ma accesi, se si può dir così! Il nostro Paese è una repubblica democratica in cui “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. Cos. 4, c. 2). L’ISTRUZIONE attende all’acquisizione delle conoscenze e dei saperi necessari per acquisire le chiavi interpretative della complessità del mondo contemporaneo sia come cittadino che come lavoratore. La FORMAZIONE riguarda la persona, unica e indivisibile, che, nei processi attivati dal sociale ed opportunamente mediati dalla scuola, acquisisce quelle abilità e quelle competenze necessarie all’esercizio della cittadinanza attiva e di quella professionalità necessaria all’accesso al mondo del lavoro.

Nell’istruzione impartita dal nostro liceo classico la cultura e la lingua greca costituiscono una sorta di unicum, se ci è concessa questa espressione. Il greco degli autori che noi studiamo e traduciamo a scuola non è quello reale dei cittadini di Atene e di Sparta, ma quello che ci è stato trasmesso dai grammatici alessandrini: una lingua scritta in cui ogni parola ha il suo accento scritto ed ogni vocale iniziale ha il suo spirito scritto, aspro o dolce, cosa assolutamente insolita sia per l’italiano che per il latino. Quante volte l’insegnante deve correggere l’alunno che in latino legge, ad esempio “Numìdi”, invece di “Nùmidi”! O “consulère” invece di”consùlere”! Cosa che non accade in greco perché “àntropos” (uomo) o “iatròs” (medico) hanno il loro bell’accento su una data sillaba.

Insomma, tradurre dal latino o dal greco – come anche dall’inglese o dal tedesco – non sono la stessa cosa. E non è un caso che in un liceo classico è molto frequente imbattersi in alunni che preferiscono di gran lunga il latino al greco, o viceversa! Quando, in effetti, ogni lingua, morta o viva che sia, ha la sua grammatica e il suo lessico! Che sono quel che sono! E con cui occorre misurarsi.

Constato che i siti web dedicati agli studenti si stanno affannando in questi giorni a sciorinare consigli su consigli su come affrontare la versione dal greco in italiano, a volte preziosi, più spesso banali. A mio avviso la “cosa” migliore da fare oggi nelle aule delle ultime classi liceali è quello di leggere leggere leggere, tradurre tradurre tradurre. E rilevare le differenze che corrono tra testi di diversi autori. Erodoto (nove libri di Storie, Ἱστορίαι) non scrive come Tucidide (“Le Peloponnesiache”, Περὶ τοῦ Πελοποννησίου πoλέμου,) ed è in genere ritenuto più facile. Le favole di Esopo sono abbastanza leggibili! E Fedro, che le ha tradotte in latino, per certi versi ne ha replicato lo stile. Senofonte con la sua “Anàbasis” (il faticoso rientro in patria dei diecimila mercenari greci assoldati da Ciro il Giovane per usurpare il trono di Persia al fratello Artaserse) è altrettanto “facile”! Ecco l’incipit: “Darèiu kai Parisàtides pàides duo ghìgnontai; presbuteros men Artaxerxês, neôteros de Kuros”, ovvero “Da Dario e da Parisatide nascono due figli, il maggiore Artaserse, il minore Ciro”. Gli autori tragici sono indubbiamente più complessi! Euripide forse è “più difficile” – come si suol dire – di Eschilo, il primo grande tragico greco, e di Sofocle, forse perché attivo qualche decennio dopo i suoi predecessori. di fronte a un pubblico forse più esigente. Comunque, giova anche ricordare la letteratura meno paludata, se si può dir così.

In quel mondo pagano, precristiano e precattolico, non mancavano le composizioni mirate a far ridere! Gli scritti satirici e le commedie, spesso anche abbastanza audaci, animavano quel mondo abbastanza libero da quei laccioli che caratterizzeranno poi l’avvento delle religioni monoteiste: il culto di Mitra prima, l’ebraismo ed il Cristianesimo successivamente. Le cosiddette Favole Milesie (in greco antico Μιλησιακά, o Μιλησιακοί λόγοι) di Aristide di Mileto sono una serie di novelle, oggi purtroppo perdute, quasi tutte a sfondo erotico. E quel genere di favolistica (che non ha nulla a che vedere con la fiaba, su cui ha scritto tanto Valadimir Propp nel suo “Morfologia della fiaba”) nel mondo classico era molto diffusa. Non a caso, la favola di Amore e Psiche, tramandataci da Apuleio, inserita in quel suo “Asinus aureus”, l’asino d’oro, è una delle più belle e per certi versi raffinate. E mi piace ricordare quel “soldato e la vedova”, molto pruriginosa, attribuita al nostro Fedro che… in effetti non scriveva solo favole per bambini!!!

Le divagazioni sul tema potrebbero procedere, ma il rischio è solo quello di perdersi nei meandri di un mondo che ci ha lasciato eredità narrative copiose e divertenti anche! Concludo sottolineando che la proposta di un “greco scritto” oggi ai nostri esami di Stato non è affatto peregrina, ma più che puntuale, soprattutto in un mondo in cui sono in troppi a tentare di tagliare le radici di questo nostro stupendo passato!


* pubblicato sul n. 76 di SCUOLA7, Tecnodid, Napoli