Quando la scuola diventa razzista

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Quando la scuola diventa razzista
per avere gli alunni migliori

di Rita Bortone

 

Nel periodo delle iscrizioni le scuole sono pronte a farsi sgambetti di ogni tipo pur di accaparrarsi qualche alunno in più. Sono vecchie storie di un’autonomia che prometteva competizioni sulla qualità dell’offerta e invece ha prodotto battaglie di grande miseria culturale e umana.

Ma quest’anno sta accadendo qualcosa di diverso, qualcosa che mi sembra di elevatissima pericolosità culturale e sociale.

 

I segnali c’erano già, ma li abbiamo trascurati

La scuola media che ho diretto fino a una dozzina di anni fa fu la prima, nella città, ad accogliere gli alunni Rom (fino a quel momento la loro istruzione si fermava alla V elementare) che dimoravano in un pietoso campo-sosta alla periferia della città. Fu la prima ad istituire, oltre ai dipartimenti disciplinari, un dipartimento degli insegnanti di sostegno, per offrire in maniera condivisa il massimo di qualità possibile agli alunni con vari tipi di handicap, e fu la prima ad interpretare un’idea di accoglienza che cominciava dall’accettazione delle iscrizioni, provenienti anche da contesti territoriali che non erano il nostro, e si concretizzava poi nella ricerca di una didattica che rispondesse ai diversi bisogni e nelle conseguenti attività di classe e fuori classe. Non solo i genitori volevano iscrivere i figli da noi perché sapevano che gli insegnanti lavoravano bene e si respiravano climi positivi per la crescita dei loro ragazzi, ma anche gli Enti, le Associazioni, gli psicologi della ASL, le assistenti sociali del Comune, quando avevano casi che richiedevano particolare attenzione pedagogica ci supplicavano di accoglierli da noi.

Avevamo la fortuna, all’interno del nostro Istituto, di condividere generalmente i principi cui riferirci (chi non li condivideva era comunque indotto dalla decisionalità collegiale  ad adeguarsi alle logiche d’Istituto) e di aver voglia di cercare insieme soluzioni innovative a problemi non sempre facili da risolvere.

Anche le famiglie dei ragazzi normali, inizialmente diffidenti e preoccupate per queste presenze estranee alle loro frequentazioni abituali, finirono col comprendere e persino con l’apprezzare e col partecipare dei successi formativi che via via riuscivamo a costruire.

Addirittura organizzammo una partita di calcio da giocare durante la festa di San Giorgio al campo sosta, e i genitori dell’una e dell’altra parte (ragazzi cittadini, ragazzi rom) accettarono di buon grado l’iniziativa. Ci sembrò di aver vinto una battaglia di democrazia.

La nostra volontà di accogliere era per noi una questione di principi sociali e pedagogici, ma non eravamo né competenti né esperti: costruimmo un’intesa con l’Università, ci facemmo aiutare dall’Istituto di Sociologia, organizzammo corsi di formazione per capire almeno un po’ della cultura rom, per noi molto difficile, ma ce la facemmo.

Tornata l’anno scorso al campo rom non per la scuola, ma per un progetto di ricerca che mi coinvolgeva, ebbi la sorpresa di essere accolta dagli ex alunni della mia scuola, che ormai sposati o plurisposati e adulti, mi attorniarono allegramente ricordando i giorni della scuola media e quegli insegnanti e quelle attività come giorni felici e indimenticabili (in effetti ricordavano cose e persone che io ormai avevo dimenticato, ma loro no).

 

Nel mese di gennaio di un anno che non ricordo seppi da alcuni genitori (che per scegliere con consapevolezza partecipavano alle riunioni organizzate dai diversi Istituti per la presentazione dell’offerta formativa), che una Scuola Media della città (quella più “in”, quella in cui confluivano i ragazzi del “centro storico”), o meglio il suo Preside (allora si chiamavano Presidi quelli che ora si chiamano tristemente Dirigenti) decantando i meriti di quella scuola, aveva promesso ai genitori che mai i loro figli avrebbero incontrato ragazzi con handicap o ragazzi stranieri, come invece accadeva in altre scuole della città…

Denunciai pubblicamente quel comportamento, che mi aveva sconcertata, durante una conferenza provinciale che vedeva riuniti i Presidi e l’allora Provveditore agli studi, ma la cosa fu glissata con eleganza e non ho mai capito se ciò accadde perché a livello istituzionale lo si riteneva un caso isolato e non degno di nota, o perché a livello istituzionale si condivideva, in qualche modo, l’atteggiamento “espulsivo” di quel Preside. Sta di fatto che negli anni successivi accadeva spesso che venissero da noi non solo i ragazzini (con problemi) che appartenevano al nostro bacino d’utenza, ma anche quelli che ci sceglievano perché eravamo bravi e quelli che altre scuole “non avevano più spazio per accogliere”.

Diventammo bravissimi, e non solo con i ragazzi problematici, ma anche con i ragazzi normali, che quando andavano nella scuola superiore prendevano i voti più alti.

 

La scuola dell’inclusione?

Sere fa, facendo lezione ad insegnanti che si preparano a diventare dirigenti, sostenevo che l’inclusione, prima d’essere una pratica che rispetta i vincoli data dalla norma, è un atteggiamento culturale, un principio che deve ispirare la scuola contemporanea in tutte le sue scelte organizzative e didattiche, in tutte le sue scelte di contenuto e di metodo.

E lo dicevo con convinzione, sapendo di potermi riferire a principi costituzionali e a provvedimenti normativi che delineano in tal senso le visioni pedagogiche e sociali su cui si fonda la scuola pubblica italiana.

 

Vogliamo partire dalla citazione dell’art.3 della Costituzione?

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Vogliamo riguardare alcune affermazioni delle Indicazioni per il curricolo nella scuola del primo ciclo?

 

La scuola italiana sviluppa la propria azione educativa in coerenza con i principi dell’inclusione delle persone e dell’integrazione delle culture, considerando l’accoglienza della diversità un valore irrinunciabile. La scuola consolida le pratiche inclusive nei confronti di bambini e ragazzi di cittadinanza non italiana promuovendone la piena integrazione. (…)

Particolare cura è riservata agli allievi con disabilità o con bisogni educativi speciali, attraverso adeguate strategie organizzative e didattiche, da considerare nella normale progettazione dell’offerta formativa (…).

Tali scelte sono bene espresse in alcuni documenti di forte valore strategico per la scuola, quali ”La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri” del 2007, “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” del 2009, e “Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento” del 2011, che sintetizzano i criteri che devono ispirare il lavoro quotidiano degli insegnanti.

 

Vogliamo stralciare qualche pensiero tratto dal documento dell’ ottobre 2007 “La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri” (Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale)?

 

Si tratta, invece, di assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola nel pluralismo, come occasione per aprire l’intero sistema a tutte le differenze (di provenienza, genere, livello sociale, storia scolastica). Tale approccio si basa su una concezione dinamica della cultura, che evita sia la chiusura degli alunni/studenti in una prigione culturale, sia gli stereotipi o la folklorizzazione.

 

Vogliamo riflettere su quanto inaccettabile sia sul piano culturale e storico qualsiasi atteggiamento espulsivo?

Roma, 8 gennaio 2010, C.M. n. 2

La presenza nelle scuole di alunni di diversa provenienza sociale, culturale, etnica e con differenti capacità ed esperienze di apprendimento costituisce ormai, nella società plurale e globalizzata in cui viviamo, un dato strutturale in continuo aumento, tanto da interessare l’intero sistema di istruzione e, sia pure in maniera non uniforme, non solo le istituzioni scolastiche delle grandi aree urbane, ma anche quelle dei medi e piccoli centri.

 

E vogliamo ragionare sull’obbligo per gli Istituti di elaborare annualmente un proprio Piano di inclusione? Sulla voce inclusione e differenziazione prevista dal Rav? Sulle norme che dalla 517/77 ad oggi non hanno mai smesso di cercare risposte risolutive ai problemi della integrazione, della inclusione, della differenziazione, della dispersione?

 

Iscrivetevi da noi, ché non ci saranno né stranieri né poveri!

Oggi la stampa riporta, dal sito del MIUR, le parole terribili che non avremmo mai pensato di poter leggere, scritte da scuole!

 

“Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro … Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile. La percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente, mentre si riscontra un leggero incremento dei casi di DSA. Tutto ciò favorisce il processo di apprendimento, limitando gli interventi di inclusione a casi di DSA, trasferimento in entrata o all’insorgere di BES”.

 

“La quasi assenza di stranieri e la totale assenza di poveri favorisce il processo di apprendimento”.

 

“Gli studenti del liceo classico hanno, per tradizione, una provenienza sociale più elevata rispetto alla media. Questo è particolarmente avvertito nella nostra scuola. A partire da tale situazione favorevole la scuola ha il compito di contribuire ad elevare il livello culturale degli allievi”.

 

“Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza se pur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi”.

 

“Poveri e disagiati costituiscono un problema didattico. Il contesto socio economico e culturale, complessivamente di medio e alto livello, e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come ad esempio nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione e al dialogo tra scuola e famiglia, nonché all’analisi delle specifiche esigenze formative nell’ottica di una didattica davvero personalizzata”.

 

Gli studenti del nostro istituto appartengono prevalentemente alla medio-alta borghesia romana. La spiccata omogeneità socioeconomica e territoriale dell’utenza facilita l’interazione sociale. Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate”.

 

Credo siano inutili i commenti: la gravità delle affermazioni si commenta da sé.

Quando la scuola diventa complice e artefice del degrado morale e culturale del Paese

Sappiamo bene che stiamo parlando di scuola del secondo ciclo e non del primo. Che stiamo parlando di Licei e non di Tecnici o Professionali, con problemi di orientamento e di finalizzazione degli studi. Sappiamo bene che fare scuola in classi molto eterogenee per culture, per lingue, per costumi, per storie, è molto più difficile che fare scuola in classi omogenee e non bisognose di differenziazioni: “Come risulta dalle rilevazioni nazionali e locali e da indicazioni provenienti dagli uffici dell’Amministrazione scolastica, ci troviamo di fronte ad un fenomeno generalizzato e complesso con aspetti problematici e criticità di non facile gestione e soluzione, che incidono negativamente sull’efficacia dei servizi scolastici e sugli esiti formativi C.M. n. 2/2010”.

 

Ma sappiamo anche che le colpe sono molte, sia della scuola, che non riesce a cambiare (“l’elevata concentrazione nelle scuole e nelle classi di alunni con culture, condizioni, vissuti familiari e scolastici, situazioni di scolarizzazione e di apprendimento fortemente differenziati, impone il superamento di modelli e tecniche educative e formative tradizionali e l’adozione di metodologie, strumenti e contributi professionali adeguati alle nuove e diverse esigenze…”) sia della politica ministeriale, che promuove principi di inclusione e nuove pratiche, ma non costruisce competenze e strumenti di sistema adeguati alle nuove necessità.

D’altro canto sappiamo bene anche che le famiglie, con cui le scuole devono fare i conti quotidiani, sono sempre più disposte a battersi per gli interessi dei propri figli (reali o presunti, legittimi o illegittimi), più che per il rispetto dei valori democratici o dei principi di solidarietà.

Ma che la scuola, la scuola pubblica, santuario di democrazia, di pluralismo, di accoglienza, di rispetto della persona, utilizzi argomenti difformi rispetto alle norme e lesivi della dignità umana pur di costruire un’immagine di sé appetibile ad una classe genitoriale dalla cultura xenofoba ed espulsiva; che la scuola pubblica, cui sono affidate le sorti educative del Paese, lanci alla popolazione messaggi di così palese cultura classista se non anche razzista, di così grave pericolosità sociale, di  così grave disprezzo della persona,  mi lascia sgomenta, e non so cosa pensare, dove fuggire, quale meta desiderare purché lontana da questo Paese in degrado morale e umano.

E mentre la stampa racconta queste cose incredibili, dove sono e cosa pensano e cosa fanno e come si oppongono e come si differenziano le altre scuole, gli altri dirigenti, gli altri insegnanti, quelli che ad una società inclusiva ancora credono, se ci credono,  al di là delle parole che scrivono nei Piani di inclusione?

Dove sono le scuole che hanno il coraggio (sì, ormai si tratta d’aver coraggio!) di dire alle famiglie iscriveteli da noi perché accogliamo tutti, perché il nostro sforzo e la nostra professionalità sono rivolti a far crescere ciascuno di loro, ma a farli crescere insieme!?

Dove sono le scuole che ancora credono di poter svolgere un ruolo educativo nel Paese, e che avvertono l’obbligo morale di prendere ufficialmente le distanze da chi impunemente dichiara di non accogliere i poveri, i disagiati, gli stranieri?