Formazione terziaria, università e futuro 4.0

Formazione terziaria, università e futuro 4.0

di Antonio Maffei*

L’ultimo monitoraggio sugli Istituti Tecnici Superiori, presentato ieri in conferenza stampa dal Ministero dell’Istruzione, fornisce una nota positiva nel panorama, non sempre roseo, del sistema formativo italiano: l’82,5% dei diplomati negli Istituti Tecnici Superiori nel corso del 2016 ha trovato lavoro entro un anno dal diploma.

Una nota positiva, anche se una goccia in termini numerici, parliamo di 2.193 diplomati nel 2016, quella fornita dagli Istituti Tecnici Superiori, la prima esperienza italiana di formazione terziaria professionalizzante, cioè formazione post-diploma. Gli ITS sono organizzazioni territoriali, basate su un accordo tra filiere produttive e filiere formative, che hanno la mission di produrre tecnici specializzati in linea con le esigenze del mercato del lavoro e che proprio per queste caratteristiche ci avvicinano ai modelli virtuosi della Germania e di altri paesi europei.

Ma a raffreddare gli animi ci pensa EUROSTAT, l’ufficio statistico della Commissione Europea, che ha appena pubblicato i dati di abbandono (drop-out) dell’università da parte dei giovani europei: oltre 3 mln di giovani iscritti ad un percorso universitario nel 2016 non sono mai arrivati all’agognata laurea.

Per quanto riguarda l’Italia sono stati 524 mila, nello stesso anno, i giovani che hanno deciso di non conseguire la laurea seppur iscritti ad una facoltà, dato che pone il nostro paese al secondo posto per abbandoni dopo la Francia. Naturalmente performance ben diverse le troviamo altrove: Germania (165 mila), Spagna (174 mila), Olanda (78 mila) Finlandia (42 mila) Svezia (62 mila) Danimarca (0).

Questo quadro – se già allarmante per l’Europa, che si poneva l’obiettivo di raggiungere il 40% della popolazione con livelli di studi terziari avanzati per il 2020, per realizzare la cosiddetta “società della conoscenza”, mentre, dall’altra parte del globo, allargando un po’ il nostro orizzonte, si rileva, quest’anno per la prima volta, il sorpasso della Cina sugli Stati Uniti per numero di pubblicazioni scientifiche prodotte – rende in prospettiva la situazione italiana ancora più debole.

Svariati i motivi del ritiro per i nostri ragazzi: desiderio di lavorare, disinteresse per le materie insegnate, difficoltà negli studi, i più ricorrenti.

Questi dati vanno ad aggravare la già bassa percentuale di laureati in Italia, tra le più basse del continente! Qualche considerazione si può/deve fare: quel 37% desideroso di accorciare i tempi di ingresso nel mondo del lavoro, ce lo dice la stessa ricerca Eurostat, mal si concilia con uno dei più alti indici di disoccupazione giovanile (è di qualche giorno fa il dato ISTAT fermo al 32,8%, più del doppio della media UE). Al contrario purtroppo potrebbe essere in linea con l’esercito dei nostri NEET, nel senso che, buona parte di questi ragazzi una volta usciti dal percorso universitario, rischiano di “perdersi” ed entrare nella schiera di coloro che “non studiano e non lavorano” (ormai 2 mln nella fascia d’età 15-24 anni).

In un contesto internazionale dove la componente e la qualità della risorsa umana è cruciale per lo sviluppo sociale ed economico dei paesi, basti considerare che quest’anno, per la prima volta, la Cina ha sorpassato gli Stati Uniti per numero di pubblicazioni scientifiche prodotte, dove solo lo sviluppo di competenze avanzate ed adeguate alla 4° rivoluzione industriale può ammortizzare gli sconvolgimenti in atto o che sono di qui ad arrivare con la loro grande imprevedibilità soprattutto per le ripercussioni sul mercato del lavoro e quindi sulla vita delle persone e dei lavoratori, il dato del drop-out dagli studi universitari, e più in generale dalla formazione terziaria, rappresenta un grandissimo elemento di debolezza, specie per un Paese la cui economia si basa sull’esportazione di prodotti a valore aggiunto e sul manifatturiero.

Il danno provocato In termini di dispersione di potenziale umano è enorme, soprattutto se si considera la fascia d’età interessata dal fenomeno, cioè quella fascia che maggiormente, specie in una società sempre più digitale, ci si aspetta dovrebbe produrre il massimo contributo in termini di innovazione e creatività. Tutto questo avviene in piena quarta rivoluzione industriale e mentre, come ci dice Unioncamere, mancano all’appello numerosi profili professionali che le imprese non trovano nel mercato del lavoro, naturalmente tale fenomeno non aiuta certo l’accesso a lavori qualificanti e ben retribuiti per i giovani.

Torniamo un attimo all’ultimo rapporto di monitoraggio dell’INDIRE sugli ITS, il quarto realizzato per il MIUR, e cerchiamo di capire se può darci qualche indicazione. I dati presentati sono piuttosto chiari: ci dicono che gli ITS creano poca dispersione, molta occupazione e sono in continuo miglioramento. Quali le ragioni di questo successo?

Tre i principali motivi individuati:

1. si collegano ad un bisogno reale delle aziende

2. uso di docenti provenienti dal mondo del lavoro ed uso di metodologie didattiche innovative

3. alte competenze sviluppate dagli studenti.

La formazione terziaria professionalizzante offerta dagli ITS può rappresentare una vera e propria svolta per un paese ad economia manifatturiera. Ma è ancora poco conosciuta e quindi poco utilizzata dai giovani, anche da quelli che abbandonano l’università oltre che da coloro che vogliono formarsi per introdursi subito nel mondo del lavoro.

Con 95 fondazioni, la struttura organizzativa che eroga i corsi, 429 corsi attivi, diffusi in tutta Italia, 10.447 studenti frequentanti, 2.153 partner, di cui 826 imprese e ben 6.267 imprese coinvolte in attività di stage (obbligatoria nei corsi per almeno il 30% delle ore previste), gli ITS rappresentano la realtà di formazione/educazione più dinamica, economica ed in linea con le nuove esigenze del mondo del lavoro operante in Italia in questo momento.

Inoltre, vera innovazione per il sistema formativo italiano, gli ITS sono oggetto di monitoraggio continuo ed annualmente sono sottoposte ad una valutazione, da parte di un organismo indipendente, appunto l’INDIRE, che ne determina la ripartizione dei fondi su base premiale.

Forse proprio il monitoraggio e la valutazione continua potrebbero essere il 4° motivo di successo di questa iniziativa: una complessa griglia di indicatori fisici, che rappresenta la base per muoversi nella vera “cultura della valutazione” che non serve a dare voti, ma ad individuare criticità per porre in essere aggiustamenti e miglioramenti.

Tutto questo manca completamente, almeno in una forma così organizzata e sistematica, al mondo dell’università, che invece, alla luce dei dati attuali, ne potrebbe trarre un sicuro giovamento per migliorare la sua attrattività e per mantenere motivati i giovani studenti durante il percorso per evitare drop-out e percorsi di studi protratti oltre i tempi previsti (anche questo è un male tutto italiano). La buona prassi messa in campo con gli ITS, può fornire qualche indicazione di miglioramento a quel mondo, che forse, più che percorrere la strada delle lauree “professionalizzanti”, ritenendo in questo modo di imboccare l’accorciatoia per emulare il successo degli ITS, dovrebbe invece puntare sempre più sulla qualità e l’eccellenza della formazione erogata servendosi di un monitoraggio continuo e di verifica dell’efficacia di ciò che produce.

E’ questo di cui ha bisogno il Paese.


* Segreteria Tecnica Fondazione di Partecipazione Istituto Tecnico Superiore Nuove Tecnologie per il Made in Italy Sistema Meccanica c/o Consorzio Universitario di Lanciano Corso Trento e Trieste