IL GIUDICE DEL LAVORO DI NAPOLI RICONOSCE LA PEREQUAZIONE INTERNA

IL GIUDICE DEL LAVORO DI NAPOLI RICONOSCE LA PEREQUAZIONE INTERNA: SI ALLARGA IL SENTIERO PER UNA DIRIGENZA SCOLASTICA NORMALE!

di Francesco G. Nuzzaci, componente Segreteria Nazionale DIRIGENTISCUOLA-Di.S.Conf.

 

Su ricorso patrocinato da DIRIGENTISCUOLA-Di.S.Conf., e del quale qualcuno si è prontamente appropriato, il Giudice del lavoro di Napoli, con sentenza n. 1057 pubblicata il 13 febbraio 2018, ha riconosciuto ad una dirigente scolastica vincitrice del concorso ordinario il pieno diritto a far valere –  ai fini retributivi, pensionistici e della buonuscita – la carriera maturata nel ruolo di provenienza: vale a dire, la c.d. perequazione interna.

La motivazione, nella sua cristallina chiarezza, è ineccepibile, in quanto “esiste una sola figura di dirigente scolastico”; sicché “ogni sperequazione contrattuale appare incongrua e contraria a norme di legge, in particolare in relazione ai principi costituzionali di uguaglianza (artt. 36 e 97), potendo il contratto collettivo, strumento di tutela e di garanzia dei lavoratori, derogare alla legge solo in melius.

Ne consegue l’illegittimità di un contratto che “procrastina ad libitum la sperequazione retributiva della ricorrente rispetto agli altri dirigenti solo in base alle condizioni personali di accesso al ruolo”, facendo così venir meno la sua tipica funzione sociale.

La sentenza del magistrato partenopeo evidentemente non ha condiviso l’opposto orientamento di una giurisprudenza pigra, alimentatasi di una serie di pronunce in fotocopia, il cui nucleo argomentativo può, banalmente, compendiarsi nei seguenti termini: la più rognosa tra tutte le dirigenze pubbliche, per le eterogenee competenze che la gravano e le connesse responsabilità che la astringono, ma la più maltrattata sotto il duplice profilo economico e normativo, ha tutte le ragioni da vendere; ma io giudice non posso entrare nel merito della “libera” volontà delle parti – sindacati rappresentativi e ARAN – che, poste ex lege su un piano paritetico, possono altrettanto liberamente stimare la congruità del trattamento – economico e normativo – delle categorie, o porzioni di categorie, cui il contratto collettivo di lavoro si riferisce e qualora non sussista in contrario un esplicito vincolo di una puntuale norma imperativa. Ragion per cui, in assenza di tale vincolo, la signoria del contratto è impenetrabile e l’accordo raggiunto è legittimo-giusto-equo per definizione: quand’anche si volesse remunerare il dirigente nella stessa misura dei suoi collaboratori scolastici, e pure meno! Beninteso, con tutto il rispetto dovuto ai collaboratori scolastici.

 

La medesima “fictio iuris”, pur con qualche variante d’obbligo, è stata riproposta – e sin qui questa volta condivisa da una granitica giurisprudenza, sia in primo grado che in appello – per negare il diritto alla perequazione esterna: sempre perché un superiore contratto-quadro, stipulato “liberamente” dalle confederazioni rappresentative e dall’ARAN, ha previsto diverse, ed autonome, aree dirigenziali. Se ne deduce – così argomentano i giudici – che la rivendicazione dello stesso trattamento, economico e normativo, rispetto ai pari grado (dirigenti amministrativi e tecnici ) del comune datore di lavoro (il MIUR), non può essere accolta, altrimenti delle menzionate differenti aree vanificandosene l’esistenza.

Dunque, le primarie – e alluvionali –  disposizioni di legge “medio tempore” susseguitesi da quando nell’ordinamento giuridico – or sono vent’anni – s’è affacciata una “dirigenza pezzente” – disposizioni di legge coerenti con l’esperienza fattuale –, sono parimenti assorbite dal dogma dell’intangibilità della convenuta regolamentazione pattizia. E a nulla vale l’aberrazione plasticamente resa in un quadro sinottico a cadenze periodiche riprodotto dalla rivista “Tuttoscuola”: di un dirigente scolastico, figura di vertice di una “pubblica amministrazione” e suo rappresentante legale, inciso da venticinque  responsabilità, eppure remunerato giusto per la metà rispetto al collega dirigente amministrativo (e dei dirigenti tecnici meri attributari di “posizioni dirigenziali”), operante in un ufficio interno dell’Amministrazione e gerarchicamente dipendente dal dirigente generale nell’attuazione di piani, programmi o singole disposizioni da questi definiti e/o impartite.

Peraltro, responsabilità da aggiornare dopo l’emanazione della legge 107/15 sulla “Buona scuola”, del D. Lgs. 50 /16 e s.m.i. sul nuovo Codice dei contratti pubblici, del  D. Lgs. 75/17 sulle speciali competenze in materia di più incisive sanzioni disciplinari direttamente irrogabili ai propri dipendenti, del Regolamento europeo sulla privacy e  D. Lgs. n. 81 del 18.05.18 che l’ha recepito; e – sempre di ieri l’altro – del Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, di coordinamento del D. Lgs. 81/08 con il D. Lgs. 106/09: giusto per gradire, un mostruoso malloppo di ben 988 pagine e di parossistici rinvii ad una miriade di fonti eterogenee!

 

Qui, in disparte ogni considerazione sullo sviluppo giudiziario della sentenza in discorso e sulla pronta disponibilità dei benefici statuiti a favore della collega vittoriosa in primo grado, si evidenzia come la stessa sia in linea con la sentenza della Corte costituzionale 178/15, alla luce della quale dovrà altresì essere rivisitata l’attuale posizione dei giudici ordinari, preclusiva della perequazione esterna.

E’ noto che gli Ermellini di palazzo della Consulta hanno decretato l’ “illegittimità sopravvenuta” di una lunga moratoria contrattuale, imponendo al Governo di riaprire le trattative nel pubblico impiego e quindi nelle nuove aree dirigenziali, ridotte a quattro con la stipula del CCNQ del 13 luglio 2016, in obbligata attuazione del D. Lgs. 150/09 (c.d. “Riforma Bruetta”). Di modo che il contratto dovrà essere lo strumento di un “giusto bilanciamento” tra le esigenze di riequilibrio della finanza pubblica – presidiato dal riscritto articolo 81 della Carta fondamentale – e il principio della libertà sindacale ex art. 39, che nel pubblico impiego c.d. “privatizzato” ha il “necessario completamento nell’autonomia negoziale”. Autonomia negoziale che certamente soggiace ai “limiti delle risorse rese disponibili dalle leggi finanziarie”, ma che nondimeno deve garantire una “contrattazione utile”, che “deve potersi esprimere nella sua pienezza su ogni aspetto riguardante le condizioni di lavoro, che attengono immancabilmente anche alla parte qualificante dei profili economici”, ovvero “preordinata a contemperare in maniere efficace e trasparente gl’interessi contrapposti delle parti” e concorrere a dare “piena attuazione al principio della proporzionalità della retribuzione”, in riferimento alla quantità e qualità del lavoro svolto (art. 36, comma 1 Cost.) e “criterio non più oscurabile, ponendosi per un verso come strumento di garanzia della parità di trattamento e, per altro verso, come fattore propulsivo della produttività e del merito”.

Pertanto, dopo tre rinvii “al prossimo giro”, seguiti da un blocco di due lustri, la piena equiparazione retributiva e normativa va realizzata in questa quarta tornata contrattuale, relativa al triennio 2016-2018.

Se peraltro un datore di lavoro concorda con la rappresentanza dei “lavoratori” – sottoscrivendo congiunte dichiarazioni a verbale replicate in fotocopia in calce agli ultimi tre contratti della defunta(?) quinta area della dirigenza scolastica – che il suo trattamento economico, da quindici anni e passa, è ingiusto e che tale ingiustizia va sanata, non si può più tergiversare “ad libitum”, com’è scritto in sentenza dal Giudice delle leggi e ripreso dal magistrato del lavoro di Napoli.

Provvedervi è diventato un obbligo giuridico per le parti contraenti. Perché un datore di lavoro non può lucrare un sinallagma che persiste inalterato per un tempo indefinito, avvalendosi di una riconosciuta prestazione dirigenziale e continuando a corrispondere una remunerazione da quadro, cioè la metà di una retribuzione dirigenziale. Altrimenti questo datore di lavoro attua un comportamento non conforme alla correttezza e alla buona fede, siccome imposte negli articoli 1175 e 1375 del codice civile, per unanime giurisprudenza dotate di valore normativo e dunque integranti i contenuti del contratto.

In altri termini, dovrà valere un criterio di giustizia sostanziale, in luogo di criteri formali completamente sradicati dal dato di realtà e la cui legittimità si pretenderebbe presunta “iuris et de iure”.

Anche perché non può più essere opposto l’alibi delle differenti aree dirigenziali, atteso che, a norma della riferita ed attuata novella brunettiana, vi è ora un’unica area dirigenziale allo scopo – testuale – di  “armonizzare e integrare le discipline contrattuali” dei dirigenti preposti alla conduzione delle istituzioni scolastiche e dei dirigenti delle università e degli enti di ricerca; nel mentre eventuali parti speciali o sezioni” sono “dirette a normare taluni peculiari aspetti del rapporto di lavoro che non siano pienamente o immediatamente uniformabili o che necessitino di una distinta disciplina. Le stesse possono anche disciplinare specifiche professionalità che continuino a richiedere, anche nel nuovo contesto, una peculiare regolamentazione” (art. 8, comma 2, CCNQ 13 luglio 2016).

Non si possono perciò mantenere all’interno della nuova area le attuali barriere economiche, che la riforma intende smantellare o almeno fortemente contenere (e neanche quelle normative, di sicuro con riguardo alla mobilità professionale ad ampio raggio, se si è in possesso delle stesse competenze richieste ai dirigenti non aggettivati), surrettiziamente dilatando a dismisura le sezioni oltre la “ratio” che le giustifica (che le può giustificare).

 

DIRIGENTISCUOLA è ben consapevole della propria oggettiva consistenza, ma non meno della sua incessante azione che ha costretto le storiche sigle sindacali della dirigenza scolastica ad uscire allo scoperto e a denunciare l’ “emergenza” – non solo “salariale” – di una categoria relegata in una sorta di “riserva indiana” per quivi contemplare la sua ineffabile “specificità”; di fatto ricondotta a quella figura “direttiva” propria di un assetto pre-autonomistico e il cui profilo si legge ancora nell’articolo 396 del D. Lgs. 297/94 (“Testo unico delle disposizioni legislative sull’istruzione”): che della dirigenza conserva il mero “nomen iuris” e con ciò caricata di un coacervo di responsabilità superiori a quelle riscontrabili in un direttore generale!

Anche per questa sua testardaggine, talvolta pure agita un po’ fuori le righe, Il Governo si è indotto ad inserire nella legge di stabilità per il 2018 (legge n. 205 del 27 dicembre 2017) apposite risorse finanziarie, oltre quelle destinate a tutti i rinnovi dei contratti del pubblico impiego, parametrate sul tasso d’inflazione programmato nella complessiva misura del 3,48% nel triennio 2016-2018.

Vi è scritto che per assicurare una “progressiva armonizzazione” della retribuzione di posizione parte fissa dei dirigenti scolastici con quella delle altre figure dirigenziali dell’area Istruzione e Ricerca gli stanziamenti ammontano a 37 milioni di euro per l’anno 2018, a 41 milioni per l’anno 2019 e a 96 milioni a decorrere dal 2020”.

Quest’ultima, testuale, dicitura consente (o dovrebbe consentire) – in ragione dell’organico dei dirigenti scolastici e dell’attuale distanza retributiva della parte fissa, intorno agli 8.500,00 euro annui lordi – di perequare anche la retribuzione di posizione variabile, sebbene su un arco temporale di quattro-cinque anni.

Poiché, sempre col supporto letterale del testo, le cennate risorse sono imputabili/riferibili al triennio contrattuale 2016-2018, devono andare a beneficio di tutti i colleghi in servizio nel triennio, ancorché esigibili alle previste scadenze (e in aggiunta ai 35 milioni di euro di aumento strutturale del FUN previsti dalla legge 107/15 e prioritariamente destinati alla parte fissa della retribuzione).

E dai predetti 95 milioni di euro “a decorrere dal 2020” dovrà poi attingersi – ovviamente per i dirigenti scolastici che risulteranno in servizio – per incrementare la parte del FUN relativa alla retribuzione di risultato.

E’ questo l’obiettivo minimo per poter firmare il nuovo contratto!

Un obiettivo che né l’ARAN né il MEF  avrebbero motivo di ostacolare, perché non richiede, a legislazione vigente, lo stanziamento di risorse finanziarie aggiuntive.

Mancarlo, qui ed ora, significherebbe tradire il mandato della categoria.