L’elogio della predella

L’elogio della predella

di Giovanni Fioravanti

 

Quando si è incapaci di pensare il futuro, ritorna il passato, quello che credevi di aver affidato ai musei della storia, testimoni dei ritorni impossibili.

Prende l’aria il ritorno al banale che scrive le sue novità con l’inchiostro di ieri, nascono pensieri esili, malsani, incapaci di abitare il complesso, spira l’alito mefitico del ritorno all’usuale di un tempo, alla tradizione tradita.

Allora presi da mania di grandezza si scrivono decaloghi al ministro di turno, su come confezionare una scuola nuova con gli stracci vecchi, quelli dismessi, che sono stati riposti, ma sempre in attesa di incontrare qualcuno disposto a riprenderli e a scuoterli dalla polvere.

Così dalle pagine del Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia offre al nuovo pilota del Miur la suo ricetta per le scuole del nostro paese, composta alla maniera antica, con tanto di calamaio e cannetta.

L’elogio della predella, questo arredo archiviato dallo spazio delle nostre aule, ”altar step” la chiamano gli inglesi, sostegno dell’altare dell’istruzione, umile asse destinato ad innalzare la cattedra del sapere.

La cattedra è il luogo su cui si siede, se posta su una predella si siede in alto, è come sedere su un trono, è come sedere su un soglio.

La cattedra come il trono è il luogo dell’autorità, l’ex cathedra delle cattedrali, dei sovrani e dei tribunali.

In classe, nell’aula, l’insegnante è il sovrano, perché solo lui possiede la parola, solo da lui può promanare il verbo.

Per non essere perduta la parola richiede il silenzio, la concentrazione, l’attenzione, l’ascolto, la comprensione, la disciplina del corpo, che altro non è che il controllo di sé, per evitare di compiere movimenti e atti che potrebbero alterare il silenzio, con la conseguenza perniciosa di perdere particelle preziose della Parola.

A scuola ci si abbevera alla fonte della Parola. La scuola come la chiesa, come la cattedrale, luogo della catechesi, dove il pensiero dorme perché la mente assorba, senza muovere nulla del pensiero, perché anche un solo pensiero potrebbe distrarre dal nettare che nutre il verbo.

La parola va ascoltata per essere accolta, assimilata, ripetuta per essere riportata quale prova della sua memorizzazione e ritenzione, attraverso l’esercizio dell’ascolto, dell’attenzione e della comprensione.

Questa è la scuola dell’insegnamento, quella che lascia il segno istruendo, costruendo, modellando, plasmando col fluire nelle menti degli astanti del verbo dell’insegnante, riversato dall’alto sublime della cattedra.

È il luogo dove il Sapere è collocato in alto, come l’occhio di dio, mentre i postulanti nel basso dei loro banchi allineati in file ordinate, umili questuanti del Sapere, si alzano in piedi per riconoscerne la superiorità quando compie il suo ingresso in aula incarnato nell’insegnante che ne è il portatore.

Superior stabat magister, longeque inferior discipulus. Discepoli votati all’ascolto con la promessa d’essere liberati dalla loro inferiorità, assimilando e nutrendosi del verbo.

La cattedra come l’ambone, luogo di epistole e di evangeli, il pulpito come domicilio della lezione, l’insegnante predicatore, ministro dell’istruzione, nel senso di colui che amministra il sacramento del sapere, che prepara alla sua unzione.

La scuola come tempio sacro, come luogo della salvezza dal peccato originale dell’ignoranza, con le sue vestali che officiano la liturgia dei riti da celebrare giorno dopo giorno sempre uguali: lezioni, compiti, interrogazioni.

La liturgia non ha bisogno di corpi estranei che non siano i fedeli ad essa adepti, non ha bisogno che i suoi sacerdoti perdano tempo in tempi morti, perché tutto sta già scritto nei messali compilati nei lustri e nei decenni da schiere di predecessori.

La scuola come seminario di clerici, non vaganti, perché il mondo è pericoloso, meglio i luoghi di casa propria, come i luoghi comuni dei propri pensieri.

La scuola apparato, con la predella apparato sacro del suo arredo.

E dire che noi avevamo pensato alla scuola come quel luogo in cui si apprende, dove tutti, insegnanti e studenti si impara ad apprendere, dove tu che hai già appreso ed hai appreso più di me mi insegni come si fa.

La scuola né chiesa, né seminario, né caserma, né istituzione totale.

La scuola come luogo di liberazione, luogo di liberazione del pensiero, dove si inizia ad imparare come si fa a ragionare, a fare libero uso della propria ragione, dove si apprende ad usare la propria mente e non quella degli altri, mai reclusorio di intelligenze in ostaggio delle vestali del sapere.

La scuola come luogo di dignità e non di gerarchia, come luogo di unità e non di divisa, la scuola dove si apprende ad essere umani condividendo la propria umanità, la scuola da dove si esce cresciuti e non plasmati, la scuola da cui si esce più intelligenti che ubbidienti, più critici che accondiscendenti, più grati al sapere e a chi ce l’ha testimoniato accompagnandoci tra i suoi meandri. La scuola da cui si esce con fiducia nella vita e non risentiti per la superbia dei soloni che hanno ucciso i nostri sogni e cosparso di grigia noia i giorni dei nostri anni migliori.