Ricominciamo dalla pedagogia

Ricominciamo dalla pedagogia*

 di Maurizio Tiriticco

 

Carissime! Carissimi! Grazie di essere così numerosi qui a Laceno per discutere di pedagogia, piuttosto che stare al mare ad abbronzarvi! Mi piace ricordare una riflessione di Carlo Cattaneo, tratta da “I problemi dello Stato italiano”. E’ un’ottima cosa il fatto che “i maestri e le maestre, chiuso il loro annuale corso d’insegnamento, vengono chiamati alla volta loro a imparare. Parte dell’anno insegnano; parte dell’anno imparano ciò che debbono insegnare. E così, d’anno in anno, questi veri padri e queste vere madri del popolo salgono d’un gradino la scala; e con loro sale tutto il popolo”.

Raffaele Laporta, nel suo L’assoluto pedagogico, saggio sulla liberà in educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1996, a pag. 257, così scrive: “Esiste una diffusa pratica di educatori che non hanno rispetto per la libertà dei loro educandi; anzi, si può affermare che una gran parte della riflessione sull’educazione abbia all’origine proprio constatazioni relative ai danni prodotti da un tale tipo di pratica”. Laporta ci ricorda nella sua ultima opera – ci ha lasciati nel 2000 – che non c’è libertà di insegnamento, se non c’è libertà di apprendimento. E non è un gioco di parole! Sono anzi parole importanti, che hanno segnato la lunga storia della nostra ricerca pedagogica. Sia quella di matrice laica che quella di matrice cattolica, molto attive nel nostro Paese. Alcuni nomi: Giuseppe Lombardo Radice, Ernesto Codignola, le sorelle Agazzi, Rosa e Carolina. Per non dire anche di Antonio Gramsci! Mi è sufficiente ricordare un saggio bellissimo di Mario Alighiero Manacorda: Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Roma, Armando, 1970. E per non dire di Don Milani! Ma qui mi fermo perché la nostra ricerca educativa è stata più che fertile!

Sì, fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Ma poi?

 

La scuola ai tempi del Regime

 

Molti molti anni fa, esattamente nel 1916, John Dewey pubblicava a New York “Democracy and Education”. Ma in Italia non venne pubblicato! Prima la guerra, poi il fascismo e, con il Regime, c’era poco da scherzare! Solo la classicità, l’Antica Roma, erano rivisitate ad uso e consumo… della nuova Italia! Che bisogno avevamo noi Itagliani, sì Itagliani, con la gl, come ci apostrofava il Duce in ogni suo discorso! Che bisogno avevamo di accedere alle culture straniere? Straniero come estraneo, come nemico, soprattutto! Noi, eredi di un’antica civiltà, dovevamo farla rinascere ed esportarla in tutto il mondo! Sulla mura di Via dell’Impero figurava un enorme tavola marmorea! I confini dell’Impero Romano ai tempi di Traiano! Ovviamente non solo un ricordo, ma anche e soprattutto un monito, una promessa!

L’Enciclopedia Utet del ragazzo italiano – venti volumi, se non erro, e i miei genitori, ovviamente, me l’acquistarono – era tutta un’esaltazione della Nuova Era fascista, i cui anni, in cifre romane, si affiancavano a tutti i calendari gregoriani! E l’America in quell’enciclopedia ci era descritta come il Paese degli scioperi e dei gangster! E i nostri ragazzi dovevano essere difesi da quella incultura! Così fummo tutti irreggimentati! Io balilla, prima semplice, poi escursionista, poi moschettiere, poi tamburino, poi trombettiere, poi mazziere! Un cursus honorum di tutto rispetto, di cui andavo fiero, fino a quel 25 luglio del 1943! Ed erano passati appena tre anni da quel discorso del Duce, pronunciato dallo storico balcone di Palazzo Venezia la sera del 10 giugno 1940!

A memoria me lo avevano fatto imparare! “Combattenti di terra, di mare e dell’aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Italiani! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania! Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano. Alcuni lustri della storia più recente si possono riassumere in queste frasi: promesse, minacce, ricatti e, alla fine, quale coronamento dell’edificio, l’ignobile assedio societario di cinquantadue Stati”. E mi fermo qui.

Anni bui per la nostra cultura! Ed anche per la ricerca pedagogica! Dewey? Non ne avevamo alcun bisogno. Dominavano Croce e Gentile! E soprattutto l’attualismo gentiliano! Un Dewey, che con molta umiltà attendeva nel suo libro a sviluppare concetti fondanti, educazione come necessità della vita, educazione come funzione sociale, educazione come direzione, educazione come crescita. E che così scriveva: “Una società distinta in classi deve prestare attenzione speciale soltanto all’educazione dei suoi elementi dirigenti. Ma una società democratica, mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti, ovunque si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione. Ne conseguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe dei risultati delle attività altrui cieche e dirette all’esterno” (p. 111).

Sono solo alcune delle considerazioni di Dewey. Quindi estremamente pericolose per un regime che, come tale, doveva irreggimentare un popolo e soprattutto la sua gioventù. Il regime accettò soltanto Maria Montessori, la cui esperienza, comunque, aveva ormai raggiunto una fama internazionale! E poi lei si occupava degli svantaggiati! Questo sosteneva il regime! Perché tutti i bambini e le bambine non svantaggiati venivano inquadrati nei “figli della lupa” e nelle “piccole italiane”! Tutti e tutte con tanto di emme maiuscola sul petto o sul fez!

Nel ventennio l’elaborazione pedagogica d’oltremare o d’oltr’alpe – l’allusione è anche a Piaget e a Vigotsky – da noi non ebbe alcuna fortuna! L’attualismo gentiliano era più che sufficiente! Ed istruire i nuovi piccoli italiani, insegnare loro a leggere, scrivere e far di conto – la grande scommessa dei governi dell’Italia postunitaria – non era più sufficiente. Occorreva ben altro! Il regime doveva occuparsi non solo di istruire, ma anche e sopratutto di educare! Ed educare, ovviamente agli ideali e ai principi della nuova era fascista. “Libro e moschetto, fascista perfetto”! Quindi si superava il leggere, scrivere e far di conto di sempre per educare soprattutto i nuovi nati ai princìpi e agli ideali della nuova era fascista!

E Giovanni Gentile fu il primo ministro dell’Italia fascista dopo la “marcia su Roma”. Guidò il ministero a partire dal 30 ottobre del 1922 – il 28, due giorni prima i fascisti avevano marciato su Roma – fino al primo luglio del 1924! Quel Ministero dell’Istruzione che dal 1929 fu ridenominato Ministero dell’Educazione Nazionale! Gentile governò il ministero per appena due anni! Durante i quali, però, la nostra scuola venne interamente riformata! Educare tutti e subito, non appena nati! Era una scommessa, oltre che un parola d’ordine, per il regime fascista. E nel 1923 Gentile varò quella riforma che porta il suo nome, riforma che, di fatto – almeno secondo il mio modesto giudizio – non è stata ancora del tutto superata! Nei suoi contenuti di fondo! Ed è trascorso quasi un secolo! Novantacinque anni, per l’esattezza!

 

La scuola come palestra di libertà

 

Ma torniamo a Dewey. E a quel titolo, “Democrazia e Educazione”. Così giustifica la sua scelta lo stesso Dewey nella prefazione all’opera: “Le seguenti pagine contengono un tentativo di scoprire ed esporre le idee implicite in una società democratica e di applicare queste idee ai problemi del compito educativo. La discussione include un’indicazione degli scopi costruttivi e dei metodi dell’educazione pubblica osservati da questo punto di vista, e una valutazione critica delle teorie della conoscenza e dello sviluppo morale che erano state formulate in precedenti condizioni sociali, ma che ancora agiscono, in società nominalmente democratiche, per ostacolare l’adeguata realizzazione dell’ideale democratico”. Queste considerazioni Dewey le sviluppava nell’agosto del 1915. L’Europa era nel pieno della prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti interverranno a fianco delle truppe dell’Intesa nel 1917.

In Italia finalmente potemmo leggere e conoscere Dewey solo dopo la seconda guerra mondiale, dopo tanti anni di scuola fascista, di retorica fascista e di mistica fascista… non sto scherzando! La “Scuola di mistica fascista Italico Sandro Mussolini”, nipote di Mussolini, morto giovanissimo, fu fondata a Milano il 10 aprile del 1930 e fu attiva fino al 1943. Il fascismo era letto addirittura come religione! Ebbene, Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano tradussero “Democrazia e Educazione” e lo pubblicarono nel maggio del 1949 per i tipi de “La Nuova Italia”. Leggere Dewey per noi non fu solo una scoperta, ma la grande occasione per riprendere quel discorso pedagogico – che andava anche oltre i confini italiani – che il fascismo aveva violentemente interrotto! Per non dire poi di tutte quelle aberranti giustificazioni addotte quando il regime, in ordine alle scelte naziste, decise che la pura razza italica avrebbe dovuto essere difesa! Per poi affermarsi in tutto il mondo! Appunto! Quando nacque quella orribile rivista, “La difesa della razza”, diretta da Telesio Interlandi. E Giorgio Almirante era segretario di redazione.

Ma non fu solo la scoperta di Dewey che ci appassionò, che mi appassionò, in quegli anni. C’era anche un Jean Piaget! Ed anche quel comunista sovietico di Lev Semënovič Vygotskij. E la polemica che tra loro era intercorsa. Problema: il pensiero e il linguaggio – che poi sarà il titolo dell’opera di Vigotskij – nascono dal soggetto/persona in quanto tale, o sono indotti dal sociale, dalla comunità in cui il soggetto nasce e apprende? Una tematica oltremodo interessante. Sulla quale mi sono già intrattenuto sei anni fa con la relazione intitolata “Omaggio a Jean Piaget e al suo fondamentale contributo all’educazione: attualità della sua ricerca”, presso l’Institut de Psycologie et Education de l’Université de Neuchâtel, Svizzera, in due giornate di studio organizzate dall’ANDIS. Un contributo che allego alla presente relazione. In effetti, a mio vedere, si trattò più di una polemica ideologica che di un confronto scientifico. In realtà, e’ come se volessimo polemizzare se è nato prima l’uovo o la gallina.

Comunque, è certo che il compito del vivente è in primo luogo quello di sopravvivere e di riprodursi. Pertanto, i viventi di tutte le specie apprendono nella misura in cui devono sopravvivere e riprodursi. Ciascun vivente apprende secondo i programmi genetici e i quadri concettuali che gli sono naturalmente dati. In linea generale possiamo dire che ogni vivente, dagli esseri unicellulari all’uomo, per sopravvivere deve adattarsi all’ambiente secondo un processo che Jean Piaget distingue in due stadi: assimilazione e accomodamento. Se piove, io mi riparo; se ho freddo, io mi copro; se ho fame, io mangio; se ho uno stimolo sessuale, io mi riproduco. Sono le strategie imposte dalla natura e adottate per sopravvivere e riprodursi! Sono le chiavi dell’apprendimento! Se non apprende, l’individuo muore… e muore la specie. Il che è un’assurda banalità!

 

La Scuola Città Pestalozzi

 

Ma torniamo a quel “Democracy and Education”, che per prima volta apparve in Italia ben trentatre anni dopo la sua prima pubblicazione! Trentatre anni di silenzio! Perché doveva risuonare la fanfara dell’educazione fascista. Ebbene, quel volume nell’immediato dopoguerra segnò la ripresa nel nostro Paese del discorso pedagogico, della ricerca pedagogica, anzi. Non a caso fu pubblicato a Firenze, per i tipi de “La Nuova Italia Editrice”. Perché a Firenze Ernesto Codignola e la moglie Anna Maria Lelli avevano fondato nell’immediato dopoguerra la Scuola Città Pestalozzi. Un’assoluta novità! Gli obiettivi della nuova scuola erano essenzialmente due: offrire un servizio sociale alle famiglie disagiate del rione, tra i più popolari e malfamati di Firenze e tra i più disastrati dalla guerra; costituire uno spazio educativo per la formazione del cittadino, dove si potesse coniugare l’istruzione ed il consolidamento di una coscienza civica e democratica. Al progetto partecipò anche Raffaele Laporta, mio maestro di pedagogia.

Laporta sosteneva con forza che l’istruzione e la cultura devono essere proposte ed erogate non solo da istituzioni a ciò dedicate, ma anche dall’intera comunità sociale del territorio. E’ notorio – e lo era anche allora – che non è cosa facile affidare o restituire la scuola al sociale, in forza del fatto che dell’educazione da sempre si sono fatto carico la famiglia ed il conteso comunitario. Comunque, pensava ad una scuola che provenisse dal sociale e che appartenesse al sociale, ma… come? Si trattò in verità di una scommessa, anzi di una “Difficile Scommessa”! È il saggio più significativo di quegli anni che Raffaele Laporta pubblicò nel 1971 per La Nuova Italia e che volle dedicare a Bruno Ciari, scomparso l’anno precedente.

Gli anni Settanta furono anni felici per la rinnovata ricerca pedagogica nel nostro Paese. Potrei accennare a più tipologie di ricerca, a quella cattolica e a quella laica: quest’ultima riconducibile al filone socialista e al filone comunista! Quindi, si leggevano anche tre prestigiose riviste: “Orientamenti pedagogici”, gestita dai Salesiani; “Scuola e Città”, dell’area socialista; e “Riforma della Scuola”, dell’area comunista. Ed io ne ero redattore. Ricordo anche benissimo come condussi due seminari annuali – quando ebbi in sorte di insegnare con Raffaele Laporta – uno avente come tema la pedagogia cattolica, il secondo la pedagogia marxista.

Nel 1978 vide la luce un aureo volumetto, di ben 334 pagine, intitolato “Pedagogia e scienze dell’educazione”. Ne era autore Aldo Visalberghi, che si era avvalso della collaborazione di due validi scolari, tra virgolette: Roberto Maragliano e Benedetto Vertecchi. Due animali di razza, come si suol dire! Le scienze dell’educazione – dopo anni di diseducazione fascista – andavano quindi per la maggiore! Ed erano anche tante! Alla pagina 21 del citato volume i nostri autori ne individuano ben ventiquattro! Afferibili a quattro macroaree: settore psicologico; settore sociologico; settore metodologico-didattico, settore dei contenuti. E sono citati numerosissimi autori di un panorama pedagogico internazionale! Ne cito solo alcuni. Althusser, Bloom, Bruner, Calonghi, Castelnuovo, Chomsky, Claparède, Decroly, Dewey, Engels, Freinet, Gagné, Illich, Jakobson, Nicholls, Piaget, Pontecorvo, Rogers, Lodi, Tornatore, Vygotskij, e tanti altri! Ed ovviamente, non poteva mancare la “Scuola di Barbiana”.

 

Da Comenio a Morin

 

Ma voglio tornare un po’ indietro nel tempo. E’ noto che per secoli e secoli l’istruzione pubblica non ha mai interessato i governi, tranne qualche rara eccezione nel periodo degli Illuministi. Ciò non significa che la ricerca filosofica a volte non approdasse anche a qualche suggerimento pedagogico! E’ più che noto! Ci sono voluti secoli perché la pedagogia si riscattasse come disciplina di ricerca a tuttotondo e soprattutto autonoma. Voglio ricordare una rara ma preziosa eccezione! Cito un nome e un’opera: Comenio e il suo “Orbis pictus”! Convinto che l’istruzione dovesse coinvolgere tutti ed arrivare a tutti, Comenio volle produrre quello che potremmo definire il primo sillabario della storia. Fu un grande primo maestro nel porgere all’alunno il disegno di un dato oggetto, il suo nome, il suo significato e l’uso che se ne dovesse fare. E tutto con un linguaggio di estrema semplicità. In un’epoca e in un mondo in cui il bello scrivere era una sorta di gara tra dotti e letterati! Il volgo era ignorante! E tale doveva rimanere! Ma mi piace rinviarvi ad un saggio di Benedetto Vertecchi, “Rileggere Comenio”, che del nostro grande pedagogo ne sa senz’altro più di me. Ecco il link — (http://lps.uniroma3.it/wp-uploads/2014/03/140317_09-10-Rileggere-Comenio.pdf) — Buona lettura!

Gli anni corrono! Giungiamo alla fine del “secolo breve”!! E, a cavallo del nuovo, si distinguono due autorevoli autori, ma ricercatori e militanti di campi opposti! Alludo a Luigi Berlinguer e a Giuseppe Bertagna. La storia è nota. Giuseppe Bertagna ispira direttamente quella riforma condotta e realizzata dalla Ministra Letizia Moratti, che trova corpo nel Legge n. 53 del 28 marzo 2003, avente come titolo: “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale”. Con questa legge, le due leggi varate con il Ministro Berlinguer vengono abrogate: la legge 9, del 20 gennaio 1999, concernente “Disposizioni urgenti per l’elevamento dell’obbligo di istruzione”, e la legge 30 del 10 febbraio 2000, concernente il “Riordino dei cicli di istruzione”. La nostra scuola militante visse allora momenti molto difficili. Nel corso di un biennio furono varate due riforme, e non di lieve entità.

Ciò che è accaduto dopo è cosa nota. Matura la stagione delle “Indicazioni nazionali” e delle “Linee guida”. Cito soltanto due nomi, un filosofo e un politico: Edgar Morin, con la sua “Testa ben fatta”; Giuseppe Fioroni, ministro dell’istruzione dal maggio del 2006 al maggio del 2008! Mi piace ricordare che con quest’ultimo è stato innalzato l’obbligo di istruzione: dpr n. 139 del 22 agosto 2007.

Ma, in tutto questo bailamme, la ricerca pedagogica ha avuto una funzione? Non so! In effetti non c’è ministro che non intervenga a ritoccare o a riformare la scuola, un po’ per lasciare il suo nome ai posteri, un po’ per dare qualche indicazione di non so quale natura, ma… mi sembra che ciò che è avvenuto in questi ultimi anni si debba più a una sorta di furore normativo – qualche allusione alla 107? – che di una effettiva necessità di innovare qualcosa! Anche e soprattutto perché non si può innovare senza un’idea! Ed oggi c’è carenza di idee! Spesso si innova solo per innovare, per lasciare traccia di sé, ma! La situazione delle nostre scuole è sotto gli occhi di tutti! Fatto salvo il primo gradino di istruzione – grazie soprattutto a tante nostre brave maestre – rileviamo studenti ed insegnanti sempre più demotivati. Gli studenti in forza di strutture e modalità amministrative vetuste! Sulle quali qualunque presunta innovazione si infrange inesorabilmente! E non sto qui a ripetere la storia delle tre C, Classe, Cattedra, e Campanella su cui ho scritto centinaia di pagine! Quelle tre C che il dirigente scolastico Salvatore Giuliano – oggi nostro apprezzato Sottosegretario all’Istruzione – ha brillantemente dribblato e da tempo nel “Majorana” di Brindisi, l’istituto tecnico da lui diretto! E gli insegnanti in forza del fatto che il loro lavoro è sottopagato!

Ma ciò che è più grave è che la scuola OGGI non è sostenuta, accompagnata, incoraggiata da una ricerca pedagogica che sia veramente tale! Comunque, se mi sbaglio, mi corrigerete! Come disse Papa Vojtila quando si presentò al popolo romano per la prima volta dal balcone di San Pietro! Ovviamente, la pedagogia si insegna all’Università. Tuttora! Ma con quali finalità? Non so e vorrei essere corretto ed informato! E manca anche forse una sociologia dell’educazione. Ricordo Bourdieux e Passeron! Sostenevano l’inutilità della scuola! Considerata uno strumento di cui la società si serve per riprodurre se stessa! E vorrei capire se è vero o no che gli insegnanti sono anche oggi le “vestali della classe media” come sostenevano negli anni settanta Marzio Barbagli e Marcello Dei. Ma c’è anche il risvolto della medaglia! La scuola non condiziona le menti e non riproduce l’assetto sociale! La scuola libera! Ovvio è il richiamo a Don Milani! “La scuola non deve essere un ospedale che cura i sani e respinge i malati”! La scuola, l’istruzione, come liberazione! Paulo Freire, un maestro di scuola, in Brasile! Sempre anni settanta del secolo scorso.

Il mio cruccio è oggi quello di allora! La parola d’ordine allora è: gli insegnanti non devono soltanto istruire! Anche se il Ministero è il Ministero dell’Istruzione! Debbono anche e soprattutto formare persone, educare cittadini! I tre verbi di cui all’articolo 1, comma 2 del dpr 275/1999, con cui abbiamo varato l’autonomia delle istituzioni scolastiche! Queste sono tematiche che richiedono attenzione, studio, ricerca, promozione!

Esistono i dipartimenti di scienze dell’educazione, o della formazione! Ma io sono abbastanza ignorante da non sapere quali siano oggi i ricercatori più accreditati, o all’avanguardia! In grado di dare alla nostra povera scuola qualche luce! Ammesso poi che la nostra povera scuola abbia gli occhi per vedere! E non solo per piangere! Come a volte avviene! Insomma, non vorrei che i pedagogisti di oggi fossero come le lucciole estive, la cui luce ha durata stagionale! O come le chimere, pezzi di varie discipline male assemblate.

Ovviamente, in questo nostro consesso, amici più esperti di me mi potranno illuminare in proposito! Quello che so, ho detto! Quello che non so, non dico! Parafrando il Maestro Manzi, che era sempre generoso con i suoi alunni! Quando diceva: “Fa quel che può, quel che non può, non fa”!

Ed io non sono un buon alunno! Ma un novantenne! Che ha bisogno di luce, di tanta luce! Altrimenti rischia di spegnersi! Ma oggi no! Grazie a voi!

Laceno, 14 luglio 2018


*Relazione tenuta da Maurizio Tiriticco all’”11° Seminario Nazionale Estivo ANDIS di studi e confronto sul tema: Proviamo a riparlare di scuola e di educazione” – Laceno – Bagnoli Irpino (Av) – 12-13-14 luglio 2018