Il “tempo” del caregiver

Redattore Sociale del 31-08-2018

Il “tempo” del caregiver. Una mamma: 3.100 ore trascorse nella sala d’attesa

La testimonianza e l’appello di Veronica Asara, mamma di due bambini nello spettro autistico, che ieri in un post su Facebook ha fatto il calcolo delle lunghe ore “in attesa”, raccontando la “vita da mamma caregiver” e chiedendo riconoscimento, tutele e soprattutto “una rete di sostegno adeguata”.

ROMA. “Approssimativamente sono 3.100 le ore della mia vita trascorse nella sala d’attesa di un centro di riabilitazione. Fino ad ora” Cioè, in otto anni, cioè da quando il primo figlio ha iniziato il suo percorso riabilitativo. E’ un calcolo approssimativo ma molto significativo quello che ha fatto Veronica Asara, 42 anni, mamma di due bambini nello spettro autistico e presidente, a Olbia, dell’associazione “SensibilMente onlus”. Quattro fredde cifre e un’istantanea, scattata nella sala d’attesa, per raccontare “una vita da mamma caregiver”, spiega. Il posto non ha mancato di suscitare reazioni e commenti, di mamme ma anche di papà che vivono una condizione simile, nel silenzio e nell’invisibilità, nella totale mancanza, in Italia, di tutele e riconoscimenti per un’attività che impegna non meno di un lavoro.

“Le altre mamme, che come me accompagnano i figli e sostano nelle sale d’attesa, hanno commentato dicendo che anche loro ne hanno passate più o meno lo stesso o di più e c’è chi dice che ci spetterebbe uno stipendio, una pensione o addirittura un vitalizio – racconta oggi Veronica – A conti fatti e sempre approssimativi, tremila ore sono tre anni di un lavoro part time. Così la riflessione è presto fatta: a quanto ammonta il costo, collettivo e personale, del mancato reddito di un caregiver? E in termini di qualità della vita, a quanto ammontano le perdite?”

Domande ed esperienza da cui scaturisce una riflessione a tutto tondo sui “tempi” del caregiver e sulle sue inascoltate necessità. “Le ore trascorse nelle sale d’attesa non sono, ovviamente, le uniche spese nel proprio ruolo di cura. Nel mio caso specifico, le ore che i miei figli passano al centro rappresentano un terzo del loro impegno riabilitativo, i restanti due terzi si svolgono a casa e a scuola. Cosa vuol dire avere la casa sempre piena di operatori? Che diventano gente di casa, persone di famiglia, senza dubbio, ma significa anche che ogni giorno, il tuo tempo è scandito dalla presenza di altre persone”.

Ma il “tempo del caregiver” è anche quello speso nei progetti personalizzati dei bambini, che “ vanno pianificati, stesi, discussi, aggiustati cammin facendo e questo comporta riunioni, follow up con gli operatori che si svolgono a cadenze regolari oltre eventuali urgenze. Anche queste sono ore dedicate alla cura e non computate”. E poi c’è il tempo, tanto tempo, da dedicare alla scuola, “a partire dall’iscrizione e dalla produzione dei relativi documenti: il verbale 104, la diagnosi funzionale… Presenti tutto l’occorrente e poi, occhi aperti, bisogna sapere se la copertura del sostegno è adeguata alle esigenze di tuo figlio ché altrimenti c’è da organizzare un ricorso. Altri documenti, altro impegno, altro tempo. Poi ci sono i glh, gli incontri con le insegnanti, le pratiche per l’assistente educativa e infine, la speranza di trovare persone umanamente valide che abbiano a cuore i progressi di tuo figlio. E sulla scuola – assicura Veronica – più di una volta si passano notti insonni”. C’è poi il tempo della burocrazia, “fatto di servizi sociali, inps, uffici di vario genere”.

Ma c’è anche il tempo della routine quotidiana e soprattutto “la necessità di mantenere un barlume di normalità a cui aggrapparsi con ogni forza”. Perché “dietro una mamma caregiver, c’è una donna che chissà dove si è nascosta, dimenticata e persa nella memoria d’altri tempi che non solo si è dimenticata di sé aldilà dei suoi figli e la sua famiglia, ma che non trova il tempo per tornare ad esistere e, quando ci riesce, qualcuno o qualcosa arriva a redarguirla ché il ruolo ‘sacro’ della cura di questi figli venuti non proprio perfetti, non si può lasciare per frivolezze tipo la cura di sé e del proprio aspetto, ad esempio. Tra l’altro, ogni tanto rispunta l’accusa di essere mamma frigorifero, che magari lo avevi messo al mondo che era a posto, poi l’hai guastato e vuoi pure truccarti e andare a mangiarti una pizza con le tue amiche?”

Il problema è che “c’è un microcosmo intorno alla disabilità, che ancora oggi fa della famiglia l’unica area gravitazionale. In tutto questo, in Italia, la figura del caregiver non è giuridicamente riconosciuta a differenza del resto d’Europa. Giace, in chissà quale cassetto di chissà quale ufficio parlamentare, un disegno di legge che non si è fatto in tempo ad approvare nella precedente legislatura. Chissà se questo nuovo Parlamento lo troverà il coraggio di affrontare questo tema così urgente – si domanda Veronica – Rispetto al neonato Ministero per la famiglia e disabilità mi sorge il dubbio già dalla sua definizione: rimarrà la disabilità ancora, solo una questione di famiglia?”.

In chiusura, a scanso di equivoci, Veronica Asara rende esplicito il suo appello: “Il ruolo del caregiver a mio parere, andrebbe tutelato non elargendo retribuzioni o simili, ma consentendo al caregiver stesso di trovare il giusto equilibrio tra il suo ruolo di cura e quello sociale oltre la famiglia. Ciò si può fare solo con una rete di sostegno adeguata. È questa rete sociale che deve funzionare a sostegno: il resto sono scuse per chi vuole soldi facili”. (cl)