Pensioni docenti, molti i beffati con quota 62+38, per loro un’altra iniquità

da La Tecnica della Scuola

Pensioni docenti, molti i beffati con quota 62+38, per loro un’altra iniquità
Di Anna Maria Bellesia

Se ne stanno rendendo conto in molti. La quota 62 anni di età + 38 anni di contribuzione sembra pensata per restringere la platea dei beneficiari della pensione, piuttosto che per anticiparla ai lavoratori più anziani, trattenuti coattamente dalla Fornero. La riforma, in cui tanti speravano, creerà nuove iniquità invece di rimediare a quelle esistenti.

All’inizio, pareva che l’asticella fosse fissata a quota 64+36, e avrebbero potuto beneficiarne 450mila lavoratori, fra cui moltissimi docenti, la categoria che ha il maggior numero di ultra sessantenni. Poi l’asticella è stata alzata a 37 anni, e i beneficiari sono scesi a 410mila (più favorito il settore privato, dove si vuole lasciare spazio ai giovani e dare impulso all’economia, più contenuta la percentuale nel settore pubblico, che evidentemente non sta più a cuore a nessun governo). Da ultimo, con il limite di 38 anni, la platea si è ulteriormente ristretta, si stima fra i 350 e i 400mila richiedenti. Le altre combinazioni possibili sono state scartate per i costi troppo alti.

Saranno dunque penalizzati i lavori più anziani che hanno meno di 38 anni di contributi, e che saranno trattenuti al lavoro fino a quota 101,102,103,104. Fino ai fatidici 67 anni, senza sconti.

Fra questi, molti docenti. Nella scuola, anzi, ci sarà il maggior numero di beffati, perché ogni “carriera” di insegnante comincia con le supplenze brevi e saltuarie, e non si maturano gli anni di contribuzione necessari.

La manovra annunciata va dunque incontro certamente alle esigenze di vita di una considerevole platea di beneficiari, ma non risponde al criterio di equità, perché si tengono comunque al lavoro i più anziani, invece di mandarli in pensione con qualche anticipo, come sarebbe logico e giusto aspettarsi.

Si tratta dei lavoratori nati negli anni Cinquanta, che oggi hanno più di 60 anni, e sono stati i più mazziati di tutti: pagano la pensione ai baby pensionati che hanno lavorato 15-20 anni e sono in pensione da una vita, mentre loro si sono visti allungare la vita lavorativa di molti anni dalla Fornero, tutti dopo i 60, senza alcuna gradualità, senza alcuna equità, solo per “salvare” i conti pubblici nel modo più facile e sbrigativo.

Contro la legge Fornero, Lega e M5S hanno fatto anni di battaglie. Salvini, soprattutto, continua a ripetere che la legge Fornero è “ingiusta” e “vigliacca”, che ha causato “ingiustizie e sofferenze”, che bisogna smontarla per mandare in pensione gli anziani a fare i nonni e lasciar spazio sul lavoro ai giovani, che bisogna restituire agli italiani il “diritto alla pensione” ad un’età non troppo avanzata, e addirittura il “diritto alla felicità” (non ne sentivamo parlare dall’epoca dell’illuminista Jefferson).

Sta di fatto che gli ultra sessantenni, che non raggiungono il paletto fissato a 38 anni di contribuzione, non avranno riconosciuto nessun diritto di uscire un poco prima dal lavoro, e non avranno altra chance, se proprio non ce la fanno più, di chiedere il mutuo alla banca, previsto da Renzi, e chiamato Ape volontaria. Cioè di pagarsi di tasca propria l’anticipo pensionistico, con gli interessi per banche e assicurazioni.

Come si fa a mandare in pensione lavoratori di 62 anni e tenere anziani di 65 e oltre? Chi comincia a capire, comincia pure ad arrabbiarsi, e a parlare di tradimento delle promesse elettorali, come leggiamo in rete. Certamente quella dei 62+ 38 non è la riforma equa tanto attesa.