V. Bellocchio, La festa nera

Bellocchio, tra realtà e fantasia

di Antonio Stanca

A Giugno di quest’anno è stato pubblicato da Chiarelettere, Milano, il romanzo La festa nera di Violetta Bellocchio, nipote del noto regista cinematografico Marco Bellocchio.

Violetta è nata a Milano nel 1977 e insegna presso la Scuola Holden di Torino. Giornalista, saggista e scrittrice va considerata ché tanti sono i giornali e le riviste con le quali ha collaborato e collabora, tanti i romanzi e racconti che ha scritto. Sua prima opera narrativa è stato il romanzo Sono io che me ne vado del 2009 ma è stato il memoriale Il corpo non dimentica del 2014 a procurarle la notorietà. Seguiranno altri romanzi fino a giungere a quest’ultimo che ha sorpreso perché costituito da una situazione perennemente sospesa tra regola ed eccezione, senso e non senso. E’ diventata una nota della produzione narrativa contemporanea quella di andare oltre i limiti del finito, di percorrere spazi, tempi sconosciuti, di cercare significati insoliti, di creare situazioni prive di chiarezza, di comprensione, di logica. In questa tendenza può essere fatta rientrare l’ultima opera della Bellocchio giacché tratta del viaggio particolare che tre giovani, Nicola, Misha e Alì, compiono nelle zone interne dell’Italia centro-settentrionale col proposito di riprendere, tramite la telecamera, quanto avviene, come si vive in alcune comunità che si sono costituite da tempo annullando ogni rapporto con la precedente vita dei loro membri, con la società alla quale appartenevano. Sono gruppi di persone che hanno scelto di darsi regole diverse da quelle diffuse, di vivere un’altra vita. In verità spesso sono state vittime di gravi sconfitte, di perdite irreparabili e soltanto con una vita completamente diversa hanno creduto di rifarsi di quanto avevano perso o era finito per sempre.

Ma anche i tre viaggiatori, in particolare una delle due ragazze, Misha, sono incorsi nei pericoli della moderna condizione sociale, anche loro hanno intrapreso questo viaggio, si sono proposti questo compito perché convinti di liberarsi dei loro ricordi, delle loro pene tramite la visione, la registrazione di quanto per lo stesso scopo viene fatto dagli altri.

Non riusciranno, tuttavia, ad ottenere tanto ché a situazioni, ambienti, modi di stare, di fare, di pensare ancor più gravi di quelli rifiutati assisteranno, ad una vita che, pur volendosi comunitaria, non ha messo da parte differenze, distanze, ad una società che, pur volendo recuperare i principi, i valori originari, non ha smesso di perseguire quelli attuali, ad un’umanità che, pur rifiutando la crudeltà, la violenza, ha continuato ad usarle.

Due di loro, Nicola e Misha, rimarranno vittime di quanto hanno voluto sapere, vedere, filmare. Alì riuscirà a sfuggire al grave pericolo che da una di quelle comunità deriverà loro. Il ricordo dei compagni la inseguirà sempre, erano stati la sua vita e di questa le sembrerà di essere stata privata.

Fantastico, surreale, inquietante è il romanzo della Bellocchio ma non tanto lontano da quello che in verità può accadere oggi a chi si metta alla ricerca di un’altra vita senza pensare che sarebbe meglio impegnarsi per correggere questa, per restituirle quanto ha perso, per liberarla delle gravi impurità sopraggiunte, per riportarla alla sua funzione di un bene per tutti valido.

Non tanti quanti quelli di ogni comunità ribelle possono essere i modelli di vita ma uno solo e da tutti seguito. Soltanto così, soltanto rimanendo insieme, soltanto proponendosi obiettivi uguali si può pensare di raggiungerli, di migliorare, di progredire. Se, invece, ci si divide e gli obiettivi sono diversi non possono essere considerati un progresso quelli raggiunti da un gruppo ma solo un altro segno della sua differenza dagli altri gruppi.