Insegnare e apprendere…

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Insegnare e apprendere

di Stefano Stefanel

Mauro Covacich in un articolo pubblicato sul Corriere della sera del 5 novembre 2011 da titolo: “Guess my age, le sediate alla professoressa e l’epoca da incubo in cui tutti sono coetanei di tutti” ha scritto, fingendo di immedesimarsi in molti studenti odierni: “le cose che sanno i professori non solo mi sembrano inutili, ma comincio a sentirle parte di un disegno sadico, costruito ai miei danni, qualcosa contro cui mi devo difendere.” La frase è molto forte e tende a rendere estremo un pensiero che comunque, spesso in forma latente, è presente in molti studenti. 

In questo momento ci sono molti professori universitari, totalmente incompetenti di didattica, e molti docenti ancora in servizio, che invece qualcosa di didattica dovrebbero masticare, che battono il tasto sul degrado della scuola italiana, collocando quel degrado dentro una logica di lassismo che porta a promozioni di massa anche immotivate e a voti alti dati a caso. Nella società civile che va a scuola (studenti) o che è interessata alla scuola (genitori) prevale l’idea che l’innovazione didattica e metodologica sia sì importante, ma debba essere realizzata dagli altri: sia gli studenti, sia le famiglie preferiscono una didattica tradizionale, trasmissiva, precisa nelle sue domande e con interrogazioni e compiti molto chiari: interrogato da pagina a pagina, compito sugli ultimi tre argomenti spiegati in classe.Pochi paiono rendersi conto che il problema non è bocciare di meno o di più, ma cosa fare dei bocciati, come recuperarli, come evitare che diventino l’ennesimo insostenibile costo sociale. Domande che sembrano interessare poco anche chi si occupa di dispersione e si batte per diminuirla, visto che l’unico nostro progetto in merito è quello di far ripetere per il secondo anno le stesse cose ai bocciati, sia che le sappiano, sia che non le sappiano.

Il rapporto tra numero di pagine che devo studiare per l’interrogazione e “disegno sadico” è, però, molto evidente soprattutto se le cose che devo studiare per prendere un voto sono inutili o obsolete e stanno solo nella gerarchia di interesse di un docente e  non in quelle della società. Tra l’altro gli errori dei li bridi testo sono superiori a quelli di Wikipedia, anche se il numero di pagine di Wikipedia è enormemente superiore a quello dei libri di testo. Una volta l’errore era confutabile con enormi difficoltà documentali, oggi, invece, basta un clic. Sarebbe interessante raccogliere la casistica degli errori che fanno i nostri docenti in classe, a cominciare da quelli di molte (troppe?) maestre e pochi (ma perché sono pochi numericamente, la percentuale è uguale) maestri sull’ortografia e la sintassi italiana o inglese. Non dimenticherei mai che a insegnare inglese nelle scuole primarie ci sono spesso docenti con livelli linguistici di inglese preoccupanti. Ma errori ne facciamo tutti e a tutti i livelli, ma oggi che dovrebbe essere facile correggerli è invece tutto diventato più difficile. 

Io penso non si possa fare di ogni erba un fascio e sono certo che la qualità dell’insegnamento nelle scuole italiane è buono o molto buono. Il problema sorge se ci si sposta sull’apprendimento degli studenti e sui contenuti dell’insegnamento. Molti contenuti sono vecchi, stanchi, stantii e obsoleti, ma appassionano moltissimo chi insegna, diventando un “peso sadico” per chi deve apprendere. Il fragile equilibrio tra insegnamento e apprendimento è completamente saltato con il web e il BYOD, laddove i contenuti sono sempre alla portata di tutti (e non solo di chi ha sott’occhio li libro di testo).

Il cicaleccio sulla scuola però nasce dall’idea ormai,diventata di dominio pubblico, che tutti possono dire la loro su una struttura didattico-educativa che non viene ritenuta di alta specializzazione, Siamo dentro una follia interpretativa di livello altissimo, perché un’intera società non si sta accorgendo di quanto delicato sia il lavoro sui bambini e sui ragazzi, sulla loro crescita. Così si discute in maniera troppo superficiale e si individua nella “didattica per competenze”, che avrebbe soppiantato quella più “seria” di didattica di conoscenze e abilità, il capro espiatorio di un regresso della gioventù e della sua intellettualità. 

Publio Quintilio Varone nel 9 Dopo Cristo portò le armate romane di Ottaviano Augusto dentro la foresta di Teutenburg, nel nord della Germania. Entrò in quella foresta con ventimila uomini e un’enorme numero di carri ed animali. Pioveva, però, nella foresta e quando i germani di Harmin attaccarono i romani questi si trovarono impantanati e furono sterminati tutti. I carri non giravano e quindi ostruivano le vie di fuga, gli animali erano impauriti, i germani potevano attaccare un’armata sfiancata dentro un bosco e in mezzo alla pioggia, i soldati romani erano stanchi, bagnati, impauriti. Varo non era un grande generale, ma faceva parte di quella tradizione romana che nel 9 Dopo Cristo aveva le massime conoscenze e le massime abilità nell’arte della guerra. Perché allora Varo è andato ad infilarsi in quella foresta e dentro quel pantano? Perché i suoi generali non si sono ammutinati davanti all’inevitabile macello? In quella foresta non c’è stato il passaggio tra conoscenze e abilità e competenze: le conoscenze e le abilità sono rimaste nei campi di addestramento e nelle battaglie del passato in campo aperto e non si sono tramutate in quelle competenze che sarebbero servite per capire dove far confluire le conoscenze sulla guerra e le abilità per condurla. Sia la sconfitta dell’Invincibile Armada nella Manica, sia la disfatta di Kobarid(Caporetto per gli italiani, ma è da sempre un paesino sloveno) stanno sulla stessa linea di analisi: quando ci sono le conoscenze e le abilità e tutto si ferma lì, alla stanca teoria, che non fa il salto verso le competenze che ci fanno capaci di agire nelle situazioni più difficili, la catastrofe è a portata di mano. Io vivo nella paura di lavorare per studenti molto dotti che al momento di tramutare il sapere in competenze non lo sappiano fare e finiscano nella foresta di Teutenburg. 

Se invece si parlare tanto per parlare ci si provasse a interrogare su cosa sanno fare i nostri studenti durante e alla fine del ciclo degli studi e se si finisse finalmente di usare l’incredibile elogio dei nostri liceali per dimostrare che la scuola italiana funziona bene e quella dei Paesi Ocse che stanno sopra di noi nelle rilevazioni internazionali no, forse il dibattito sarebbe più equilibrato. I nostri liceali sono in genere tra i migliori studenti del mondo e i nostri laureati tengono alto il nome dell’Italia nel mondo (e infatti il nostro sistema non li sa trattenere e loro emigrano), ma la nostra scuola non è fatta solo di liceali, mentre la cultura di molti insegnanti è una cultura che vede liceo dappertutto, producendo solo dispersione. 

Il “disegno sadico” di cui parla Covacich sta qui: nell’uniformare quello che non si può uniformare, nel continuare a fare quello che don Milani ci ha detto, tanto tempo fa, di non fare: trattare i diversi da uguali. La nostra standardizzazione per classi e non per livelli, nemmeno nel triennio finale, ci porta ad essere l’unico sistema scolastico che porta le classi in quanto tali alla fine del percorso, lasciando a studenti e famiglie la scelta sul percorso, che monoliticamente è poi condizionato dalle classi di concorso. La tuttologia è una condizione dell’apprendimento primario, non di quello secondario, ma noi vogliamo tuttologi fino all’esame di stato: poi, a luglio, tutti specialisti. In questa follia pedagogica è entrata l’alternanza scuola lavoro, uno strumento di apertura che ha avuto luci e ombre nella sua attuazione, ma che ha introdotto un sistema formativo pratico e non solo teorico nell’ultimo triennio di studi liceali.

L’attuale sgangherato dibatti sull’alternanza scuola lavoro invece di affrontare la questione con dati chiari la butta ancora una volta sull’ideologico, alterando il sistema durante il suo percorso processuale (una soluzione avvilente e assurda, perché ancora una volta scuole e studenti che hanno lavorato “secondo la legge” saranno penalizzati a favore di chi se ne è bellamente fregato). Ancora una volta ideologia, urla, striscioni di protesta, articolessepolitiche, ecc avranno il sopravvento su analisi, dati, verifica dei fatti.

L’alternanza scuola lavoro permette di verificare almeno un certo tipo di competenze, il disciplinarismo spinto invece riporta le lancette indietro e si scontra contro soggetti che non possono più essere tuttologi. La pedagogia e la cultura dovrebbero lavorare per ridurre lo spazio “oscuro” tra insegnamento e apprendimento, in modo che quello che viene insegnato venga anche appreso. I nostri buoni insegnanti spesso non sono interessati all’apprendimento, ma solo alla valutazione. La cosa sorprendente però è anche un’altra: oltre 600.000 insegnanti valutano i processi di apprendimento dei propri studenti, ma non hanno studiato come si valuta, perché nessun percorso prevede lo studio dei difficili meccanismi della valutazione. Gli insegnanti sono professionisti dell’insegnamento, se diventassero anche professionisti della valutazione forse lo spazio tra insegnamento e apprendimento diminuirebbe.