Vecchie e nuove paure

Vecchie e nuove paure: ricerca di un mondo perfetto e nuove forme di autoritarismo

Dal dissolversi dei “legami” e della fiducia è possibile ripartire dalla scuola con una creativa responsabilità educativa

di Francesco Lorusso
con la collaborazione di Cristina Macina

L’aspettativa di un mondo perfetto ha sempre generato orrori.
Perché adesso, da uomo di scuola, affermo questo? La quotidianità delle relazioni in un istituto complesso, con diversi ordini di scuola, con più di 200 lavoratori, con una variegata utenza espone a dirimere innumerevoli problemi e a interagire con un’umanità e situazioni personali familiari varie.

Che cosa sta accadendo nel comune sentire, nello spirito del tempo qui e ora, nel microcosmo costituito dalla scuola, in cui per molti aspetti si riverberano tensioni del sentire generale e planetario, attraversato oggi da antiche e vecchie paure dell’altro e del diverso, da chiusure mentali e di frontiere, dall’ancestrale timore di perdere la propria identità, i propri vantaggi, i propri beni?

Sovvengono periodi storici, specie il secolo scorso, analoghi a questo per la presenza di tensioni e contraddizioni, per la carica di inquietudine e paura, e per l’attesa (quasi escatologica) e la pretesa di garanzie, di sicurezza, di certezze e (antico virus) di individuare un colpevole su cui scaricare le responsabilità del disagio contemporaneo. Si affermano così il desiderio e la ricerca di una società che governi ed elimini ogni infezione dal male che turbi una presunta quiete e armonia (forse mai esistita). E’ questa un’antica aspirazione dell’uomo che ha generato la stagione delle utopie come
esplicitato da diversi autori, basti pensare alla Città del Sole di Campanella.

E tuttavia, in queste situazioni che potrebbero essere feconde e foriere di soluzioni e di equilibri innovativi e originali, spesso si affacciano idee e ideologie semplificatrici, che devono individuare subito un colpevole del male e del conseguente malessere, rassicurando gli animi e depurandoli da sensi di colpa e responsabilità rispetto alle normali aporie del vivere.

Non c’è niente, ancora una volta, di più rassicurante di un nemico su cui proiettare ogni responsabilità del dilagante disagio.

Erano colpevoli gli ebrei e i comunisti al sorgere del Nazismo, acclamato perfino nelle elezioni democratiche.
Sono colpevoli oggi gli immigrati africani. La malasanità. Le istituzioni che non funzionano.

I preti pedofili, le forze dell’ordine che massacrano un povero tossico e violentano la sprovveduta turista americana: casi particolari, talvolta isolati, sapientemente gonfiati da mass media e programmi in TV, che fanno di tali circostanze la propria merce esclusiva, in una sorta di tribunale popolare. Scompaiono le dimensioni della speranza, del possibile recupero, del dialogo e della cura, deflagra la possibilità di riporre fiducia nell’altro e nelle istituzioni, e forse anche in se stessi.

Ne deriva pericolosamente il bisogno dell’uomo forte e dispensatore di certezze, il veltro dantesco, cui affidarsi, cedendo la propria libertà e le farraginose regole e procedure garantiste, pur di non guardare la realtà, pur di non rimboccarsi le maniche assumendosi le dovute responsabilità nei propri ambiti di competenza.

Si scivola perciò verso la ricerca e il concomitante linciaggio del presunto colpevole. Quasi che infierire su questo garantisca la palingenesi e la riconquista dell’armonia perduta.

Giace nel sottofondo della coscienza una diffusa pretesa di perfezione e un fanatismo giustizialista.
Pretesa di un mondo privo di problemi, di una scuola di una società e di un ambiente privi del Male.

Pretesa di tenere sotto controllo ogni aspetto del reale, illusione fomentata dalla tecnologia. Paradossalmente e inconsapevolmente tutto questo diventa preludio di raffinate e subdole forme di autoritarismo e di violenza, che si insinuano nelle istituzioni in modalità aggressive di presunta partecipazione popolare in cui risuona una manichea divisione tra il bene e il male, tra i giusti e gli ingiusti.

Si sconvolgono in tal modo le regole e gli equilibri del vivere civile e democratico sorti dagli orrori delle guerre mondiali, in una società oggi tecnologicamente regolata e prevedibile nelle attese,
nei gusti, nelle ansie e nelle paure.

Soffiare sulla paura del male è in effetti già diventata autentica strategia di potere.

La sfiducia nelle istituzioni e nelle procedure democratiche non soddisfano nell’immediato l’ansiosa sete di giustizia genera i frequenti linciaggi mediatici e fisici (le risse contro il chirurgo e il medico del Pronto Soccorso o contro la maestra). La ricerca e l’individuazione dei nuovi untori, causa assoluta del male assoluto (oggi gli immigrati, i politici, i funzionari assenteisti, gli ispettori, i poliziotti corrotti ecc.) diventano così percorsi privilegiati per ottenere consenso a facili soluzioni che preludono a nuove forme di autoritarismi.

Ad esempio nella scuola, con il propagarsi, della giusta prevenzione dei fenomeni di bullismo, che in qualche modo sono sempre esistiti anche se oggi in forme forse più aggressive e tecnologiche, si rischia, se non si agisce con accortezza, di ingenerare un’esagerata attenzione a ogni minimo atteggiamento che possa ledere l’altro, anche in dispute più o meno normali tra pari. In tali situazioni sempre più diffuse, con l’esclusione di casi di autentica prepotenza e delinquenza individuale o di gruppo, esplodono sensi di colpa dei genitori, che proiettano sugli aggressori la mancanza della propria presenza educativa e affettiva o la paura di essere inadeguati rispetto alla crescita e protezione del figlio.

In modo analogo si estendono tali modalità di percezione e di vissuto nei diversi contesti del vivere civile, quali la sanità, la giustizia, la politica, la vita di quartiere. Comune denominatore di tali processi: il venir meno della fiducia, linfa vitale dei legami intersoggettivi e fondativi della personalità.

Le classi dirigenti e alcune lobbies dell’informazione interpretano queste ansie e angosce collettive e ne cavalcano demagogicamente i contenuti per assicurarsi il consenso ad un potere fine a se stesso, rinunciando all’idea di un’azione di governo e di leadership finalizzate a educare e temperare tensioni comprensibili ma irrazionali, che danneggiano la convivenza civile e la ricerca del bene
comune.

A fronte di tali complessi fenomeni sociali e rischi di degenerazione della vita democratica e del tessuto sociale che fare come gente di scuola?

“Quando i legami intersoggettivi si incrinano in tali forme diffuse è necessario sperare ragionevolmente nelle nostre capacità creative, analizzando i processi che fabbricano le attuali scordature con noi stessi, con gli altri, col mondo e approfondire con sapienza e competenze più evolute le buone pratiche di ricucitura e riaccordatura che sostengano il riappropriarsi della soggettività.
E ciò:
• con la chiara percezione della propria responsabilità di fronte ai bisogni soffocati dal malessere delle famiglie e dei giovani
• con una creatività attenta che, pur condividendo i disagi del presente, proponga un io presente, anche autorevole nelle forme istituzionali, che mette a disposizione memoria, umanità e creatività utili per scoprire nel caos le forze di germinazione di altre forme di civiltà.
La ricerca della felicità e di un bene comune diventa centrale: essa non è più solo una sfida individuale, ma una sorta di impresa comunitaria, in un lavoro di civiltà, che ora più che mai diventa necessità vitale per ciascuno e per il mantenimento delle istituzioni essenziali per vivere insieme.
Al fondo di tale ricerca si rintraccia la questione dell’amore e della tenerezza, che va oltre e fonda il lavoro di civiltà per realizzare un’autentica cura dell’io e del noi delle e nelle comunità. E consiste in un’esigenza di lavoro psichico e comunitario attento a interpretare e rispondere alle nuove dimensioni in cui si esprime il desiderio di vita, di benessere di relazione: con l’orgoglio di porsi come istituzioni rispondenti, fatte di persone che si mettano in gioco, che accolgano la sfida di realizzare una creativa responsabilità educativa.”