Verso una SMART school: strategie per una scuola di qualità

Verso una SMART school: strategie per una scuola di qualità[1]

di Giancarlo Cerini

 

La scuola dietro la lavagna

Le speranze di una scuola migliore si infrangono spesso sugli scogli delle politiche finanziarie restrittive, di una quantità insufficiente di risorse che il nostro Paese è disposto a riversare verso le sue istituzioni educative. Non è questione di breve momento, di questo o quel Ministro del Tesoro, ma di un trend di lunga durata. Come rivelano i recenti dati dell’OCSE, l’Italia – per quote di risorse destinate all’istruzione – si colloca al 29° posto sui 34 paesi più sviluppati, con il 4,8% di ricchezza dedicata all’education rispetto alla media OCSE del 6,1%. Come mai, nonostante le esplicite affermazioni di autorevoli rappresentanti dell’establishment finanziario italiano[2], la spesa per l’istruzione viene rubricata quasi sempre come un costo (da contenere) piuttosto che come un investimento (da incrementare)? Evidentemente non bastano i grandi disegni di riforma approvati dalle maggioranze del Parlamento, spesso con il ricorso a rassicuranti voti di fiducia, se poi questi progetti non si traducono in prospettive di cambiamento realmente praticate dalla scuola e condivise dalla società. Negli ultimi 15 anni è proprio mancato questo consenso: chi sta all’interno della scuola non si è immedesimato nelle riforme di volta in volta approvate (Berlinguer, 2000; Moratti, 2003; Gelmini, 2008)[3], mentre gli “stakeholder” non si sono dimostrati troppo disponibili a riconoscere la qualità del servizio reso dal sistema educativo.

 

Accountability vuol dire fiducia

Non è scattato quel feeling tra scuola e società che è indispensabile per ottenere buoni risultati formativi. Moltissime ricerche, infatti, mettono in evidenza la stretta correlazione tra il contesto sociale e culturale in cui opera una scuola e i livelli di apprendimento degli allievi. C’è dunque un fattore “t”, come “territorio” ma anche come “talento”, “tolleranza”, “tecnologia”, che influisce enormemente sulla qualità dell’istruzione, fino a determinare un vero e proprio spread tra territori, città e quartieri. Questo dato è già un segnale importante per delineare strategie di intervento, evidentemente di lungo periodo, per ricostruire un rapporto positivo tra istituzioni scolastiche e comunità, in forma di patto educativo per una reciproca assunzione di responsabilità.

Ma questa alleanza scatta solo se la scuola sa farsi “vedere”, se è capace di far apprezzare il suo valore, se è in grado di testimoniare la sua qualità, insomma se sa render conto dei propri risultati. E’ scoccata l’ora dell’accountability, come ha scritto il Governo italiano all’Europa nell’autunno 2011, nello scambio di lettere con le nostre buone intenzioni di diventare un paese normale, per capire come funzionano le scuole che producono buoni risultati e quali sono quelle che invece sono in difficoltà, per aiutarle a migliorarsi.[4]

Ma non basta indicare i benchmarks di Europa 2020 per rimettere in moto le politiche scolastiche, né evocare i pessimi risultati Ocse-Pisa (tra l’altro differenziati su base regionale) per introdurre un salutare scossone in molti comportamenti, né adottare unicamente una via legislativa e ordinamentale “pesante” (le cosiddette riforme di struttura).

Spesso le grandi riforme sono preannunciate da roboanti dichiarazioni di principio, proclami “epocali”, apparati normativi imponenti (decreti, regolamenti, linee guida, ecc.) che però non riescono a creare quell’appeal necessario per catturare emozioni, interessi, energie positive. Da troppo tempo la scuola è ai margini dell’attenzione della società. Da questa constatazione amara occorre ripartire, senza scoraggiarsi, trovando anche strade nuove. Insomma è l’idea che già ha molti proseliti, della “scuola che funziona”[5], delle tesi contenute nel “manifesto degli insegnanti”[6], delle molte iniziative che forse ci stanno dicendo che la buona scuola già c’è, che bisogna saperla vedere, ascoltare, accompagnare e diffondere.

 

Le riforme “visibili”

Ma non basta raccontare questa scuola, occorre re-immaginarla, ri-evocarla, per costruire aspettative positive nell’immaginario della gente, dei genitori, ma anche degli studenti, degli insegnanti. Bisognerebbe partire da alcuni gadget che possono fungere da veicoli mediatori di una scuola che può cambiare dal basso. Si tratta di lanciare delle immagini-obiettivo molto concrete, ad esempio:

–          uno strumento musicale per ogni allievo;

–          un tablet  su ogni banco;

–          una certificazione linguistica per tutti;

–          uno stage, un viaggio, un’esperienza di lavoro garantita ad ogni ragazzo.

Si tratta di accendere delle idee-faro per catalizzare energie per il cambiamento, facendo percepire cosa potrebbe cambiare nella vita quotidiana dei ragazzi con l’adozione di innovazioni che si materializzano in oggetti.

 

Saperi da “toccare con mano”

Così, dotare ogni allievo di uno strumento musicale rappresenta il ripristino di una attenzione, che si va perdendo, alla dimensione estetica, espressiva, creativa nella formazione di base (tutta proiettata sulla dimensione cognitiva). Un rapporto più intenso con la musica (e più in generale con i linguaggi analogici, corporei, cinestesici, visivi) è elemento naturale nel vissuto dei giovani, ma offre anche la possibilità di recuperare un tratto fondamentale della nostra identità culturale e civile. L’approccio alla musica pratica, più volte richiamato dal Comitato nazionale per la musica (presieduto dall’ex Ministro Luigi Berlinguer), consente anche di introdurre stimoli operativi nella didattica, emblematici per il rinnovamento dei nostri ambienti di apprendimento. Così come potremmo sottolineare l’equilibrio tra la dimensione dell’esercizio (della performance) e quello della espressività, tra l’impegno individuale ed il confronto con l’ensemble (il gruppo) nella realizzazione di un prodotto visibile. Quest’approccio va oltre l’attuale collocazione della musica nel curricolo (con debole valenza nella scuola primaria e nella secondaria di II grado), o nella filiera specialistica (scuole medie ad indirizzo musicale e licei musicali), per interrogarci invece sul posto della musica nella formazione di tutti i cittadini.

Analogamente potremmo riferirci all’idea di dotare ogni allievo di un tablet, per significare il potenziamento delle possibilità di accesso alle informazioni, di utilizzo di fonti e documenti, di creazione di scambi e relazioni per la costruzione collaborativa delle conoscenze, anche qui intercettando “usi e costumi” dei nuovi barbari (i nostri ragazzi), ma offrendo loro un ambiente riflessivo indispensabile per non farsi travolgere inconsapevoli dall’estasi della comunicazione, comunque ed ovunque.

L’acquisizione di certificazioni linguistiche ricolloca un tema delicato come è quello della valutazione degli apprendimenti in una dimensione “autentica”, di apprezzamento delle competenze intese come padroneggiamento pratico di conoscenze d’uso, in contesti significativi, reali o simulati, con il pregio di ancorare le abilità acquisite a standard di riferimento collaudati (il quadro europeo delle competenze), pur salvaguardando il principio dell’autovalutazione e della personale consapevolezza delle abilità possedute. Anche in questo caso, l’immaginario di un risultato “utile” e spendibile (la certificazione) si sposa con l’innovazione delle pratiche didattiche e valutative.

Le esperienze di alternanza scuola-lavoro, gli stages, gli scambi all’estero, sono altrettante occasioni per recuperare un gap storico del nostro sistema educativo nel rapporto con la cultura d’impresa che sta cambiando, con i processi di internazionalizzazione, con un più stretto legame con la realtà sociale e produttiva, per svecchiare l’astrattezza dei nostri profili formativi.

Si può certamente parlare di curricoli, di indicazioni, di linee guida (e siamo in presenza di un guardaroba curricolare che si sta rinnovando sia nel primo che nel secondo ciclo), ma questi documenti – anche nel migliore dei casi – non riescono a “bucare” l’immaginario dell’opinione pubblica, oltre che aver perso ogni effetto pratico tra gli operatori scolastici. Di qui l’idea di trasformare il tema del curricolo in situazioni di innovazione visibile, anche per drenare risorse indispensabili per la scuola, attraverso la compartecipazione degli utenti (l’dea è chiedere 1/3 di risorse ai genitori, 1/3 agli Enti locali, 1/3 allo Stato), anche per recuperare quelle risorse “private” che mancano nel budget dell’istruzione pubblica italiana.

Fuor di metafora, lo stato di salute della scuola italiana richiede azioni che producano trasformazioni nel modo di fare scuola, piuttosto che radicali trasformazioni di ordinamento (difficili da ottenere ed ancora più difficili da attuare), richiamando tutti i soggetti alle loro responsabilità. Non è un approccio minimalista, perché implica comunque cambiamenti incisivi nei comportamenti delle persone e delle istituzioni.

 

Le riforme “sostenibili”

Facciamo tre semplici esempi, riferendoci alle strutture scolastiche, ai modelli organizzativi, alla cultura professionale. Dei curricoli abbiamo già detto, attraverso l’esempio degli oggetti mediatori.

La qualità degli ambienti fisici non può essere rubricata solo sotto le esigenze della sicurezza degli edifici, della agibilità degli stessi, della ottemperanza agli standard funzionali di legge (che peraltro risultano alquanto invecchiati). In gioco è certamente la vetustà del nostro patrimonio edilizio, con tutto il suo carico di criticità, come rivelano le annuali indagini di Legambiente e Cittadinanzaattiva, ma soprattutto l’incoerenza tra la configurazione della maggior parte delle strutture e un’idea costruttiva, partecipata, collaborativa dell’apprendimento. Una “smart” school, come oggi si auspica, richiederebbe spazi per la ricerca, lo studio (anche per i docenti), il lavoro a piccoli, gruppi, laboratori, biblioteche multimediali, oltre ad un tessuto connettivo di servizi, aree di relazione, tempo libero, verso l’ipotesi di veri e propri campus. Certo, si potranno dotare tutte le aule di LIM, la banda larga collegherà forse tutti i 42.000 edifici che ospitano scuole, ma resta il grande problema delle nostre architetture scolastiche, cioè dell’idea di scuola che è sottesa alla configurazione materiale dei luoghi dell’educazione. La strategia è duplice, locale-globale: aspettando i nuovi contenitori “intelligenti”, le aule potrebbero già essere diversamente strutturate ed organizzate.

Lo stesso approccio dovrebbe riferirsi alla realizzazione dell’autonomia scolastica: sono passati oltre 12 anni dal conferimento della “personalità giuridica” alle singole istituzioni scolastiche (circa 10.500 in Italia) e dall’applicazione del relativo regolamento (Dpr 275/1999), con ampi spazi  di autonomia organizzativa, didattica, di ricerca e innovazione. Una fotografia realistica ci direbbe che ben poca di quella discrezionalità è stata utilizzata: gli orari sono bloccati a scacchiera, il curricolo non offre margini di opzionalità, i tempi appaiono rigidi, le forme di utilizzo dei docenti ancora di più (con l’organico funzionale tornato in cantina)[7]. E’ necessario un ripensamento culturale sul significato dell’autonomia, su come essa possa migliorare il lavoro didattico: servono interventi sul piano legislativo, ma si può cominciare già all’interno delle scuole, attraverso un’adeguata riorganizzazione della comunità professionale (staff, dipartimenti, formazione, ricerca, documentazione, legame con il territorio, ecc.).

 

La questione insegnante

Ritorniamo dunque a chi la scuola la fa funzionare giorno per giorno, ai docenti e naturalmente al dirigente scolastico ed al suo ruolo strategico[8], prendendo atto che occorre essere più coraggiosi nel tratteggiare le condizioni di esercizio della professionalità docente. Purtroppo i Contratti di Lavoro e le leggine di assestamento finanziario si susseguono senza nessun discorso innovativo per attirare i migliori insegnanti verso l’insegnamento, stimolare motivazioni e innovazioni, garantire formazione a fronte di nuovi scenari. A partire dagli orari di lavoro: l’orario di cattedra non regge più, perché rimanda ad una immagine di docenza tutta giocata sull’insegnamento frontale, dimenticando funzioni fondamentali come il tutoraggio, la relazione di aiuto, la gestione del recupero, la cura dei laboratori.  Si apre anche il grande tema della valutazione del lavoro degli insegnanti, ma più che mettere in competizione i docenti tra di loro (a questo porterebbe una pedissequa applicazione del sistema premiale previsto dal D.lgs. 150/2009, c.d. Brunetta), occorre creare un sistema di incentivi, in forma di crediti riconoscibili ai fini della carriera o della assunzione di incarichi di prestigio, che riconoscano le qualità degli insegnanti (il curriculum, la formazione, la didattica in classe, i risultati degli allievi, la reputazione), partendo da forme di autovalutazione validata da “pari” o da “esperti” esterni.

Senza attendere le grandi riforme di ordinamento, che forse non arriveranno mai più (e che forse non sono poi così indispensabili), occorre ricostruire un rapporto di fiducia della società civile verso la scuola, attraverso la piena attivazione di tutte le energie interne alla scuola, utilizzando tutti gli spazi che l’attuale normativa mette a disposizione, e attivando una legislazione di “favore”, in grado di consentire a tutti i soggetti di esprimersi al meglio.



[1] L’articolo è stato pubblicato sul n. 3, maggio-giugno 2012, di “Qualità”, la rivista nazionale di AICQ – Associazione Italiana Cultura Qualità (che si ringrazia per l’autorizzazione alla diffusione in rete). Alla SMART SCHOOL è dedicata l’annuale Summer School organizzata da Tecnodid/Formazione ad Ischia, dal 23 al 26 luglio 2012

[2] Ci riferiamo all’intervento del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, tenuto a Catania il 25 novembre 2011 sul tema “Investire in conoscenza: giovani e cittadini, formazione e lavoro” rintracciabile sul web all’indirizzo http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2011/visco-catania/visco-25112011.pdf

[3] Il riferimento ai ministri pro-tempore sottende il richiamo a grandi disegni riformatori tradotti in provvedimenti ordina mentali, variamente applicati (Legge 10-2-2000, n. 30; legge 28-3-2003, n. 53; legge 6-8-2008, n. 133).

[4] Sul rapporto tra politiche scolastiche nazionali e scenari europei, in particolare sul memorandum inviato all’Unione Europea nel novembre 2011, si veda G.Cerini, Facciamo i conti con l’Europa, in “Rivista dell’istruzione”, n. 1, gennaio-febbraio 2012.

[5] Si tratta di un social network ove gli insegnanti confrontano le loro pratiche e si scambiano idee, proposte, progetti: http://www.lascuolachefunziona.it/

[6] Il documento è rintracciabile in rete all’indirizzo: http://www.manifestoinsegnanti.it/

[7] Il decreto-legge sulle semplificazioni (febbraio 2012) sembra rilanciare il tema dell’organico funzionale di istituto e di rete, ma lo condiziona al quadro delle risorse congelate dalla legge 133/2008.

[8] G.Cerini (a cura di), Il nuovo dirigente scolastico. Tra leadership e management, Maggioli, Rimini, 2010.

G.Cerini, M.Spinosi (a cura di), Profili della dirigenza scolastica. Competenze giuridiche amministrative organizzative pedagogiche, Tecnodid, Napoli, 2012.