“Noi insegnanti dobbiamo ricucire questa società”

da la Repubblica

Francesco Erbani

Nella scuola noi insegnanti ci sentiamo soli e spesso lo siamo»: Franco Lorenzoni, per quarant’anni maestro elementare, lucido erede della tradizione di don Lorenzo Milani, abbassa il tono della voce, come per prendere una pausa meditativa. Poi prosegue: «Leggendo le considerazioni che faceva Alessandro Baricco su Repubblica, mi sono chiesto: noi insegnanti facciamo parte dell’élite? Per come siamo trattati economicamente e considerati socialmente certamente no, nella gran maggioranza dei casi. L’opinione che molti genitori hanno di noi è pessima. Basti pensare a che cosa circola nei gruppi whatsapp.

Spesso capita che la nostra reputazione sia invece alta nelle famiglie di migranti. Ma élite o non élite, abbiamo, oppure dovremmo avere, una relazione privilegiata con la cultura».

Che dovrebbe avere quali effetti?

«Il mio sogno è che questa relazione ci stimoli a proporre e a offrire a tutti – sottolineo a tutti – la cultura come luogo di riconoscimento e di emancipazione per accrescere l’autonomia e la libertà dei ragazzi».

Lorenzoni non se la sente di schiacciare la scuola dentro uno stampo rigido. A Cenci, vicino ad Amelia, in provincia di Terni, ha fondato nel 1980 una Casa-laboratorio dove sono allestiti campi scuola per ragazzi di tutte le età. Quest’anno ha promosso con altri “Saltamuri”, un’associazione che riunisce 130 gruppi di insegnanti e non solo che si battono contro ogni discriminazione nella scuola. Il 24 gennaio esce il suo nuovo libro I bambini ci guardano.

Un’esperienza educativa controvento (Sellerio).

Che compito assolve la scuola contro le discriminazioni?

«La scuola è l’istituzione che meglio realizza la convivenza fra ragazzi di mondi e di culture diverse. D’altronde chi, se non noi insegnanti, dovremmo azzardare e impegnarci in questa delicata opera di ricucitura sociale?».

E ce la fa la scuola?

«Piero Calamandrei sosteneva che se la società fosse un corpo, la scuola sarebbe un organo ematopoietico, cioè il luogo dove si forma il sangue che porta nutrimento ad ogni cellula. La metafora è illuminante per chi avverte l’affanno dovuto alla pericolosa anemia di cui ci stiamo ammalando».

Sente anche lei nell’aria un vento che spira contro tutto ciò che abbia a che fare con un ragionamento appena complesso?

«Se la sacrosanta rivolta contro ingiustizie e disparità immagina la cultura come privilegio da abolire, con l’acqua sporca non buttiamo un solo bambino, ma tutti i bambini che verranno. Del resto la storia ci insegna che qualunque rivoluzione abbia puntato alla tabula rasa si è risolta in catastrofe: dai libri bruciati dai nazisti agli spartiti vietati negli anni della rivoluzione culturale in Cina, fino alle città distrutte dal delirio purificatore di Pol Pot».

Quindi la scuola è un presidio sia contro discriminazioni e ingiustizie, sia contro la “brutale semplicità” di cui parla Baricco?

«La scuola è uno dei luoghi chiave per fronteggiare ogni forma di semplificazione che avvilisce l’intelligenza e la capacità di comprendere ciò che accade nel mondo. Pensi ai cambiamenti climatici e alle migrazioni di massa. Sono problemi per i quali dobbiamo cambiare il punto di vista e mutare un bel po’ di abitudini. Può bastare qualche tweet? Abbiamo bisogno di pensare a fondo e di confrontarci».

Come?

«Lo scorso anno, in quinta elementare, dopo aver letto il mito della caverna di Platone, una bambina, Emilia, ha detto che “dobbiamo pensare ad almeno due punti di vista, per vedere oltre” e un’altra, Maia, ha sostenuto che dobbiamo “avere paura dell’ignoranza”».

Una doppia lezione di lungimiranza, da due ragazzine di dieci anni.

«La cultura nella scuola non si trasmette, si costruisce pezzo a pezzo, con tenacia e tempi lunghi, cercando di coinvolgere tutti. È un lavoro difficilissimo se fuori prevalgono il sentimento che è tutto inutile e la falsa affermazione che studiare non serve e non migliora le possibilità di lavoro. La cultura è relazione viva o non è. Oggi costruire cultura è come tendere un ponte tibetano sul crepaccio delle mille separazioni che avviliscono il nostro vivere sociale. Solo se sperimentiamo insieme quanto sia bello “sfregare e limare i nostri cervelli gli uni contro gli altri”, come auspicava Montaigne, possiamo contrastare chi pensa che il futuro si affronti chiudendosi dentro a un muro».

Le sembra che una tale consapevolezza circoli nelle classi dirigenti e di governo?

Che si sappia come contrastare la povertà educativa?

«Negli anni della crisi il nostro è stato l’unico Paese in Europa che abbia tagliato i fondi alla scuola e alla ricerca, dimostrando una cecità impressionante. Vorrei istituire una sorta di movimento del 5 per cento, che chieda di elevare di almeno un punto la quota destinata a quei settori.

L’Italia è attestata al 4,1 % di fronte a una media europea del 4,9. Non sono numerini».

Il sottotitolo del suo nuovo libro parla di “esperienza educativa controvento”. Che vuol dire?

«La scuola deve essere un po’ meglio della società che le sta intorno, altrimenti cosa ci sta a fare?».