Accountability tra dichiarato e agito

Accountability tra dichiarato e agito

di Maurizio Muraglia

Il tema della documentazione non è nuovo nella scuola. Per il semplice fatto di essere un servizio pubblico, alla scuola è sempre stato richiesto di dar conto delle sue azioni, sia sul versante amministrativo che sul versante formativo. Con l’autonomia scolastica l’esigenza di rendicontazione si é fatta sempre più esplicita a misura delle nuove responsabilità assunte dalle istituzioni scolastiche. Eppure non si può negare che gli ultimi anni hanno fatto registrare un serio colpo di coda del sistema in materia di accountability, e non è il caso qui di riepilogare i passaggi normativi che hanno tenuto a battesimo il Sistema nazionale di valutazione (DPR 80 /2013), volto proprio a raccogliere i dati che servono alla comprensione dell’efficacia di tutto il sistema scuola. L’orizzonte della Rendicontazione sociale per tutte le scuole, proprio in questo 2019, rappresenta il culmine del processo.

Il principio dell’accountability com’è noto é anche funzionale alle varie spending review messe in campo negli ultimi anni dalle amministrazioni pubbliche. Una categoria strutturale del principio di rendicontazione è quella di risultato, di cui si parla chiaramente a proposito dei Dirigenti scolastici, cui si attribuisce la responsabilità dei “risultati del servizio” (Dlgs 165/2001). Occorre misurare e valutare i risultati del servizio ed i processi che ne sono stati all’origine.

A questo proposito si impone un piccolo intermezzo emblematico. Quando le scuole elaborano i Rapporti di Autovalutazione (RAV), al termine del documento devono indicare le priorità ed i traguardi che discendono dal processo valutativo. É sintomatico che le priorità debbano riguardare esclusivamente gli esiti, cioè i risultati scolastici (o quelli delle prove standardizzate). Poi si indicheranno anche gli obiettivi di processo e le modalità del loro conseguimento. Ma il tutto è finalizzato agli esiti, e gli esiti in genere sono rappresentati in modo quantitativo (percentuali di promossi, bocciati, trasferiti, dispersi ecc.). Gli esiti rappresentano la cartina al tornasole del fatto che i processi sono stati ben condotti e monitorati. Controllati. Da un Rapporto di Valutazione esterna traggo questo suggerimento dato dal Nucleo esterno di Valutazione ad una scuola: il NEV suggerisce di attivare la costruzione e la realizzazione di azioni di monitoraggio che possano contribuire al controllo di gestione ed alla progettualità della scuola. Controllo di gestione è un’espressione che individua l’esigenza di fondo: si deve controllare l’utilizzo delle risorse. Chi potrebbe obiettare?

Dunque il “risultato” è cartina al tornasole dell’efficienza e dell’efficacia di un’istituzione scolastica. Da quello si vede il funzionamento del sistema. I processi devono essere ben controllati affinché siano correttamente orientati al risultato. É vero che nei Rapporti di Autovalutazione c’è sempre spazio per raccontare processi virtuosi. Ma è difficile immaginare che a fronte di risultati percentualmente disastrosi qualcuno si prenda la briga di andare a cercarsi, tra le carte, i processi virtuosi. Probabilmente sarebbe indotto a pensare piuttosto che quei processi di virtuoso abbiano ben poco se non sono stati capaci di produrre i risultati auspicati. Produrre, infatti. É proprio una questione di produttività. Il mantra da cui discende il paradigma dell’accountability.


Le scuole, alla luce dell’esigenza di rendicontazione, devono rappresentare l’agito utilizzando il linguaggio richiesto dal sistema. Che è un linguaggio tecnocratico, cui si chiede di avere come referente la realtà educativa delle scuole.

Questo contributo ha lo scopo di riflettere sul rapporto che in una comunità educante come la scuola è possibile istituire tra quanto è dichiarato e quanto agito, nella consapevolezza che tutti i rapporti di autovalutazione ed i rapporti di valutazione esterna che i nuclei preposti elaborano non sono altro che il tentativo di tenere quanto più possibili vicini i due livelli: quello, potremmo dire, del discorso e quello della realtà. Il rapporto tra le parole e le cose è un campo di ricerca alquanto battuto – si pensi soltanto al celebre “Le parole e le cose” di Foucault -, e non vi è qui la pretesa di utilizzare categorie ermeneutiche particolarmente sofisticate. Vi è invece il desiderio, alla luce dell’esperienza, di delineare un quadro interpretativo utile a comprendere se esista una soglia di tollerabilità per il naturale gap che si istituisce tra i fatti e le carte (o i files) che di quei fatti costituiscono narrazione.

Il MIUR ha predisposto uno spazio, detto “Scuola in chiaro”, che permette ai cosiddetti utenti di farsi un’idea di una scuola a partire dai documenti che vi sono pubblicati. In epoca di iscrizioni, le famiglie hanno anche la possibilità di visitare direttamente le scuole attraverso gli open day, che in qualche modo rappresentano anch’essi una narrazione. Si situano cioè ad un livello mediato rispetto al dato di realtà che intendono descrivere.

É istituita quindi la duplicità di livello che cerchiamo: la realtà e la sua rappresentazione linguistica. I filosofi del linguaggio e gli ermeneutici hanno chiarito da tempo l’impossibilità dell’umano di accedere direttamente al reale. Davvero, con Heidegger, il linguaggio resta la casa dell’essere. Lungi da questo contributo quindi, ipotizzare ingenui approcci al reale che abbiano la pretesa di far comprendere la “verità” di un oggetto peraltro complesso come una scuola.

Qui semmai si vuole esorcizzare il rischio opposto, ovvero l’autoreferenzialità di una rappresentazione in cui le parole rimandano a se stesse. E per far questo occorre compiere, a mio parere, una duplice operazione: sul linguaggio che prova a rappresentare il reale e sul reale sottoposto a rappresentazione. La doppia analisi è però un’unica analisi, che riguarda la stagione attuale della scuola e delle questioni scolastiche: apprendimento, conoscenza, educazione.


Cominciamo con le questioni di linguaggio. “Da circa due decenni, con generazioni di insegnanti quasi del tutto privati della pedagogia, delle sue esperienze e della sua storia, le parole della scuola sono cambiate o hanno subito uno slittamento di senso. Il nuovo vocabolario è stato costruito attorno ad una specifica interpretazione di alcuni termini che spesso ne ha distorto il senso originario: autonomia, competenza, obiettivo, valutazione, merito. Questi termini non nuovi (ciascuno di essi ha una storia), sono stati reinterpretati alla luce di nuovi modelli culturali. Le interpretazioni sono diventate pian piano senso comune, un immaginario collettivo che gode ormai di ampia diffusione nella scuola e nella società”.

I modelli culturali cui fa riferimento Bottero nel suo illuminante contributo sono in effetti modelli economici, ispirati al neoliberismo delle politiche anglosassoni degli anni Ottanta. Gli slittamenti semantici di cui si parla hanno un corrispettivo esplicativo in acronimi come RAV, PTOF, PDM, RVE, che danno sostanza all’azione dei sistemi di valutazione standardizzati e funzionali all’accountability con cui è stato introdotto questo contributo.

La lingua tecnocratica è funzionale all’esigenza di dichiarare – rendicontare – quel che si fa nelle scuole in modo che sia possibile raffrontare i risultati ai processi messi in atto per conseguirli. Negli ultimi anni si è fatta dunque strada, sulle macerie della vecchia, una nuova pedagogia, quella “che proviene dagli Istituti di valutazione nazionali e internazionali, dal tecnicismo burocratico degli ambienti ministeriali, da molti media, dai poteri economici. Il tutto ha contribuito a formare ‘un politichese istituzionale, una sorta di esperanto neoliberale, che promuove il ‘management partecipativo’ e organizza il controllo tecnocratico dei risultati senza mai preoccuparsi di ciò che si costruisce nella classe, sia in termini di trasmissione di cultura che di crescita dei soggetti’”.

Schiere di dirigenti e di docenti, ma in numero certamente ridotto rispetto al totale, sono impegnati quotidianamente nella fatica del dichiarato, che consiste nella necessità di attribuire spessore semantico alla lingua tecnocratica del sistema per provare ad adattarla alla realtà dei processi educativi e didattici vissuti quotidianamente. É uno sforzo che tutti i docenti conoscono, per la verità. Negli anni Settanta e Ottanta la pedagogia introdusse nella scuola termini quali programmazione per obiettivi, curricolo, valutazione formativa e sommativa, che costrinsero tutti ad adeguare la res al nomen. Con l’autonomia lo sforzo ha trovato ulteriori campi di esercizio, ma da quando è entrata in campo la valutazione di sistema la tecnocrazia linguistica nelle scuole ha di fatto ristretto il campo degli addetti ai lavori, cioè oligarchie di insegnanti – chiamate staff o impropriamente figure di sistema – che tentano di scrutare l’improbabile rapporto tra significanti e significati.

É una logica che qualcuno definisce aziendale. Certamente è una logica centrata sul prodotto. “Gran parte della ricerca didattica – scrive sempre Bottero nel suo contributo già citato – centra oggi la sua attenzione su due aspetti del processo di insegnamento: la programmazione degli obiettivi e la valutazione (degli allievi, della scuola, del sistema formativo). L’attenzione quasi esclusiva a questi due aspetti insegue la logica aziendale orientata al prodotto che ha al centro la coppia obiettivo – valutazione, l’inizio e la fine. Non interessano più le situazioni di apprendimento, la pedagogia del progetto, ecc., insomma tutto ciò che sta tra l’obiettivo iniziale e la valutazione finale, ciò che fa l’insegnante e ciò che sono chiamati a fare gli allievi. Quando il processo didattico viene pensato attorno al raggiungimento dell’obiettivo è l’obiettivo stesso che si fa metodo”.

Dichiarato e agito. All’interno di questa tensione dialettica, la domanda che sorge è: quanto dell’agito è rappresentabile con la lingua tecnocratica utilizzata dal sistema? Qui perveniamo al secondo livello di analisi, quello che riguarda il reale da rappresentare e le possibilità della sua rappresentazione.

Intanto bisognerebbe partire da un dato di sostanza. Cosa avviene di fondamentale in una scuola? Chi potrà negare che il fatto dell’insegnare e dell’imparare in un luogo in cui è presente un gruppo di allievi ed un insegnante sia il focus della scuola? Se partiamo dal fondamento, ci accorgiamo che tutte le mattine avviene una stessa vicenda dappertutto. Dei discenti incontrano il sapere con la mediazione di un adulto, e questo avviene in un contesto di relazioni e di comportamenti. Avviene anche che di questo incontro l’adulto chiede agli allievi di rendere conto attraverso verifiche cui seguiranno valutazioni di tipo quantitativo (tante) o discorsivo (poche e poco influenti).

Al fondamento della didattica occorre aggiungere tutto l’agito progettuale messo in campo dagli organi collegiali: consigli di classe, dipartimenti, collegi dei docenti, gruppi di progetto e quant’altro. E ancora tutto ciò che riguarda le azioni del Dirigente scolastico a livello organizzativo, che attendono anch’esse la loro rappresentazione discorsiva o messa in forma nella prospettiva, anche per i capi d’Istituto, della valutazione.

Quale rapporto si instaura, nelle scuole, tra i fatti e la loro rappresentazione? Quali capacità professionali occorre mobilitare affinché la rappresentazione sia quanto più possibile aderente al fatto? A queste domande è molto difficile rispondere, ma certamente è possibile mettere in evidenza una circostanza: che per documentare occorrono distacco e osservazione, due variabili che è praticamente impossibile attivare durante il lavoro d’aula. Gli insegnanti che agiscono in classe non dispongono di un “terzo” che prenda appunti. E quel che avviene in classe non sempre può essere registrato in modo puntuale.

Pensiamo poi al rapporto tra fatti e loro verbalizzazione negli organi collegiali. Quanto di ciò che si discute e del modo in cui lo si discute è determinato proprio dalla necessità della sua registrazione? Quanto di questa registrazione, dunque, può sfuggire al “politicamente corretto” che non poche volte impone di mascherare la realtà con le parole che si ritengono più adeguate ad una verbalizzazione ortodossa?

L’atto della scrittura documentativa intrattiene col reale che rappresenta un rapporto la cui complessità spesso fa sorgere il sospetto che l’agito cammini su binari molto diversi e non rappresentabili. A meno che l’agito non venga rappresentato in forme “oggettive”, cioè quantitative. Pensiamo alle percentuali di promossi e bocciati o a quelle dei trasferiti o dispersi, che rappresentano in modo asettico processi la cui incandescenza e la cui naturale multiprospetticità finiscono per scomparire.

Insomma, il rapporto tra reale e linguaggio, in contesti educativi segnati da dinamiche interumane complesse, sembra segnato da una sostanziale ambiguità di fondo. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che enfatizzando la complessità di questo rapporto il rischio che si corre è quello dell’autoreferenzialità, ovvero dell’impossibilità di socializzare il lavoro di ogni singola scuola. E questo certamente non è un bene. Come non è un bene correre il rischio che a chi scrive appare più pernicioso, ovvero quello di una rappresentazione operata da pochi abili scrivani che presenta scarsi legami con l’esistente.

Il sistema si è dotato di meccanismi di controllo volti a constatare il grado di “veridicità” delle auto rappresentazioni. Chi scrive ha avuto la possibilità di vedere all’opera alcuni nuclei esterni di valutazione inviati dall’amministrazione per constatare il rapporto tra il dichiarato e l’agito. Il metodo è quello dell’intervista. Nessun valutatore esterno infatti può vivere i processi reali, ad esempio assistendo alle lezioni oppure presenziando ad una seduta di un organo collegiale. L’intervista è una ulteriore raccolta di rappresentazioni, di cui si cerca di ravvisare la coerenza con quanto è già stato rappresentato. E non vi è chi non veda ancora una volta il prevalere dell’ordine del discorso sull’ordine delle cose, tanto più significativo quanto più il dichiarato per iscritto ed il dichiarato per intervista presentino un alto livello di compatibilità. Ma questa è la tecnocrazia oggi imperante, che celebra l’unione tra esigenze di produttività del sistema, centrate sui risultati e sulla narrazione dei processi orientati a quei risultati, e l’utilizzo di una lingua che, pur presentando i tratti patinati della scientificità, spesso corre il rischio di opacizzare il suo referente.

Che, come tutto ciò che è essenziale, resta invisibile.