La maturità diventa di coppia

da la Repubblica

Stefano Bartezzaghi

Come prima cosa, guardiamo in faccia la realtà, accettiamola e non parliamo più di «nuovo esame di maturità». Millesimiamola, come lo champagne e il vocabolario Zingarelli; datiamola come la legge finanziaria o le edizioni del festival di Sanremo: insomma chiamiamola « Maturità 2019 » . Mangiamo-la, infine, quest’altra foglia: l’esame di stato per diplomare gli studenti delle superiori viene ormai variato ogni anno e chissà come sarà nel 2020, quando cambierà anche il decennio. I degustatori più esperti oltre all’anno sanno anche specificare l’autore, il ministro che aveva reso interne le commissioni, quello che aveva cambiato i criteri per la seconda materia. Aggiungi l’Invalsi, togli l’Invalsi, in un tripudio di trovate, fughe in avanti, marce indietro, figurazioni estrose in cui la politica scolastica perviene alla più imprevedibile delle sue possibili trasformazioni: la coreografia. A proposito di arte della danza, il 2019 si specializza nel « pas de deux » : si introduce la doppia materia. Perché scegliere fra Greco e Latino (per il classico), fra Matematica e Fisica (per lo scientifico), fra Scienze degli alimenti e Laboratorio di servizi enogastronomici per l’istituto professionale per i servizi di enogastronomia? Salviamo entrambe le materie, abbiniamole nello stesso esame, facciamole ballare assieme – qualsiasi cosa ciò voglia dire.

Cambiare, cambiare, cambiare. In un mondo in cui persino i conservatori hanno la smania e ora si fanno chiamare «neocon» il rischio è di dimenticarsi che a volte i cambiamenti hanno anche ragione di accadere. Per restare nel tema dell’esame di maturità, l’autunno scorso il linguista Luca Serianni ha proposto correzioni di rotta meditate e significative per la prova di italiano. Nel presentarle, ha segnalato che qualsiasi riforma va poi progressivamente aggiustata sulla base dell’esperienza. Ha potuto farlo, e autorevolmente, poiché a lui è chiara la meta verso cui dirigere: la verifica di un’acquisizione di competenza sufficiente alla comprensione e alla produzione di testi argomentativi. Si comporterebbe diversamente un consulente del ministero che fosse convinto che la scuola debba selezionare una generazione di grammar nazi o al contrario di emuli del personaggio interpretato dall’ottimo Nino Frassica. In conclusione: c’è il cambiare strada dei navigatori e non è quello dei randagi.

Gli scopi dell’introduzione della doppia materia e di altre aggiustatine piccole o vistose non vengono messi in luce dagli annunci e questo non testimonia a favore della loro esistenza. Il ministro ha fatto notare solo che se ne parla « già da ottobre » , come se fosse una concessione benevola aver annunciato cambiamenti sostanziali ad anno scolastico già cominciato invece che apportarli di sorpresa. Ha anche promesso simulazioni mensili delle prove d’esame: si sottrarrà così tempo alle lezioni e allo studio in aula per collaudare ( in realtà, per stabilire) le novità. Dunque sbagliavano i nostri vecchi professori a dirci che l’esame era la fine, non il fine, degli studi e non si andava a scuola per passare l’esame ma si passava l’esame per dimostrare di esserci andati e aver studiato. Forse lo scopo oggi è proprio solo quello di cambiare.

Fra i tanti problemi dati dalla famigerata «alternanza scuola-lavoro» ce n’è uno che promette di essere il più piccolo, ma che forse può essere preso come un sintomo. Scuola contro lavoro: la formulazione lascia pensare che quello che si compie in aula non sia lavoro, ma qualcos’altro, fatalmente più astratto e, per dirla tutta, più ozioso. L’alternanza invece non è tra lavoro e studio, ma fra due tipi diversi di lavoro: il lavoro della scuola e quello delle aziende. Quello della scuola non è meno serio o più vacuo. Si svolge con una programmazione, ha metodi, finalità, sistemi di verifica. Cambiare le modalità dell’esame a cinque mesi dal suo svolgimento significa non darsi preoccupazione della programmazione del lavoro comune fra docenti e studenti. È quell’idea poliziesca di meritocrazia che si concentra morbosamente sui modi della valutazione, li varia a suo talento e senza rispetto per il lavoro già impostato, non sa spiegarli. Ma forse è proprio questa la meritocrazia che ci siamo meritati.