Un Paese che deve andare lontano

Un Paese che deve andare lontano

di Maurizio Tiriticco

Siamo un Paese che viene da lontano e che lontano deve andare! Le vicende che hanno accompagnato la nascita della nostra Nazione sono note. Le abbiamo imparate a scuola fin da piccoli, quando la maestra ci insegnava che dovevamo parlare la stessa lingua perché la nostra identità di popolo, di bambini, di persone, di cittadini era la stessa! E ci insegnava anche che, se avessimo parlato lingue diverse, non ci saremmo capiti e ciascuno avrebbe operato per sé! Capivamo a poco a poco noi bambini quanto fosse importante parlare e ascoltare, leggere e scrivere usando le stesse parole, le stesse regole – la cosiddetta grammatica – per stare insieme, giocare, studiare, litigare anche, ma… Era importante che l’aula dove eravamo fosse per tutti noi, alunni della stessa classe d’età, un luogo dove imparare a leggere, scrivere e far di conto. I libri avevano gli stessi disegni e le stesse parole! E la maestra ci diceva anche quanto fosse importante la stessa lingua per la nostra vita, per il nostro futuro lavoro!
E fuori della scuola in determinate ricorrenze veniva issata una bandiera, i tre colori della nostra unità nazionale… parola grossa “unità”, parola ancora più grossa “nazionale”! Poi venne la guerra – avevo 12 anni quando Mussolini consegnò agli ambasciatori di Inghilterra e di Francia la dichiarazione di guerra in quel famoso 10 giugno del 1940 quando ebbe inizio un’altra storia, quella della nostra disfatta e della nostra disperazione! Io non ero a Piazza Venezia, ma c’erano i nostri padri, tutti pronti ad affrontare la nuova sfida che il destino – così si diceva – assegnava al nostro Paese! Parole importanti in quei tempi forse troppo avventate! Anche e soprattutto per noi bambini, felicemente armati di moschetto e pronti a dare la vita per la grandezza della patria… così ci veniva detto. Ma la mia maestra in quei giorni taceva! Mentre rullavano i tamburi, e gli inni inondavano le strade, la mia maestra taceva… e solo dopo tanti anni ho capito perché!
Quando la nazione diventa nazionalismo, hanno origini le grandi tragedie! Chi parla un’altra lingua è uno straniero, chi innalza un’altra bandiera è un nemico! Io ho vissuto tutta questa esperienza, quando ho imparato ad essere italiano, nelle classi delle scuole elementari, a parlare la mia lingua, e quando poi mi hanno costretto a pensare che eravamo i più forti di tutti e che era il nostro destino quello di governare il mondo… perché eravamo di pura razza ariana come i fratelli tedeschi, perché tanti secoli prima avevamo fondato un impero, dall’Atlantico al Medioriente! Ma fu la tragedia! E, dopo la tragedia abbiamo dovuto ricominciare!
Occorre sempre ricordare che tutti noi siamo nati tanto tempo fa, nel lontano 1861… con un Regno, e che poi… siamo rinati nel 1946… con una Repubblica, la nostra grande Repubblica! Abbiamo costruito un altro Stato, una Repubblica democratica fondata sul lavoro, una Repubblica in cui tutti siamo ormai semplicemente cittadini, mai più sudditi, che non avremmo più dovuto “credere, obbedire e combattere”, ma essere più semplicemente noi stessi, consapevoli dei nostri diritti e dei nostri doveri, studiare e lavorare per il bene di ciascuno e di tutti!
Oggi mi viene da pensare a un altro bambino, senza nome e senza genitori, che sbarca a Lampedusa, che sa appena come si chiama, ma non sa da dove viene, non sa neanche dove è nato né quale lingua parla! La tragedia di un bambino che non è cittadino, che non ha una patria! Quanti sono i nostri fratelli stranieri, piccoli e grandi, che parlano tante lingue, che hanno tante culture, tante religioni, oppure più disperatamente non sanno nulla del loro retaggio, quel retaggio che, invece, per ciascuno di noi è una ricchezza! Quei nostri fratelli che vengono da lontano, dalla disperazione e che sono alla ricerca di un pezzo di pane, ma anche di se stessi, di una patria, di una nazione anche! Anche se non ne hanno una piena consapevolezza!
Per tutti questi motivi è giusto, è doveroso che si guardi alla nostra storia! Dal 1861 sono trascorsi tanti anni, tanti per una persona, ma sono pochi, tanto pochi per un popolo che sia veramente una Nazione con la N maiuscola! Siamo un popolo giovane, che appena balbetta la sua identità nazionale, a fronte di tanti altri popoli della nostra Europa che ritrovano lontana nei tempi la loro origine, la loro lingua, il loro sentire comune!
Se noi siamo qui in questa città oggi è perché siamo cittadini di questa città, di questo Comune, che ci rinvia alla nostra gloriosa epopea delle libertà comunali contro gli Imperatori di Germania e, forse, anche contro quei Papi, incapaci di liberarsi di quel potere temporale che – secondo una certa tradizione rivelatasi poi falsa – l’Imperatore Costantino avrebbe a loro affidato. Siamo cittadini del nostro Comune, e siamo in sintonia con i cittadini di Lecce e di Brescia e di tanti altri Comuni, che come noi, parlano la stessa lingua, vivono e dichiarano i medesimi sentimenti, sanno di essere cittadini italiani, della nostra Repubblica!
Una Repubblica che viene da lontano, che era nata come Regno, in seguito a lotte politiche e militari, plebisciti e annessioni di cui furono protagonisti tanti italiani, Vittorio Emanuele, Cavour, Mazzini, Garibaldi e tanti tanti altri, da Cattaneo a Gioberti, da Mameli ad Angelo Silvio Novaro, da Pisacane ai Fratelli Bandiera! Allora tante idee, tanti progetti… Repubblica unitaria? Repubblica federale? Un unico Regno d’Italia? Oppure tanti Stati italiani tra loro federati? Il crogiuolo delle idee era ricchissimo… e le idee venivano anche macerate nel giro di poche vicende, in tempi che si susseguivano l’un l’altro… a smentirsi o a rafforzarsi… Non fu una nascita facile, ci furono vincitori e vinti, illusi e delusi, certamente! E gli storici hanno avuto un materiale ricchissimo, dopo quel 1861, per indagare dove, come, quando, perché questo mosaico di idee, questo crogiolo di iniziative abbia poi portato finalmente a quelle data fatidica, a quel 17 marzo di tanti anni fa, che sembrò suggellare in una sola giornata mille idee, mille attese, mille speranze diverse in un unico rinnovato vincolo! Fu autorevole e forte quel Vittorio Emanuele II che, doppiando coraggiosamente suggerimenti così diversi che venivano avanzati e proposti da tanta parte dei patrioti e degli artefici di quelle campagne unitarie, proclamò il nuovo Regno, proclamò per la prima volta un’Italia Nazione!
Ma veniamo ai fatti, al loro dettaglio. Nel lontano 10 gennaio 1859, alla vigilia della Seconda guerra di indipendenza, Vittorio Emanuele II, Re del Regno sardo, nel Discorso della Corona pronunciò la celebre frase: “Nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tanta parte d’Italia si leva verso di noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza”. Com’è noto, fu un discorso forte sul quale gli stessi suoi ministri e perfino il Conte di Cavour non erano totalmente d’accordo ed avrebbero suggerito una maggiore prudenza. Il fatto è che la storia, vista con l’occhio del poi, sembra scorrere come un fiume nel suo alveo certo, ma, vista con l’occhio del prima, è un fiume che irrompe impetuoso e che, passo dopo passo, cerca e costruisce il suo alveo.
Ed ancora. Nel successivo “Discorso della Corona” del 2 aprile 1860 Vittorio Emanuele II ebbe a dire: “Fondata sullo Statuto l’unità politica, militare e finanziaria e la uniformità delle leggi civili e penali, la progressiva libertà amministrativa della Provincia e del Comune rinnoverà nei popoli italiani quella splendida e vigorosa vita che in altre forme di civiltà e di assetto europeo era il portato delle autonomie dei Municipi, alle quali oggi ripugna la costituzione degli Stati forti ed il genio della Nazione. Nel dar mano agli ordinamenti nuovi, non cercando nei vecchi partiti che la memoria dei servigi resi alla causa comune, noi invitiamo a nobile gara tutte le sincere opinioni per conseguire il sommo fine del benessere del popolo e della grandezza della Patria. La quale non è più l’Italia dei Romani né quella del medio evo; non deve essere più il campo aperto alle competizioni straniere, ma deve essere bensì l’Italia degli Italiani”.
Il 27 gennaio 1861 in tutti i territori annessi ebbero luogo le prime elezioni politiche per la formazione del primo Parlamento italiano. In effetti, dato che si votava per censo e che le donne erano escluse dal voto, gli aventi diritto erano circa solo il 2% della popolazione residente, e di questi solo la metà si recò alle urne, meno di 300.000 persone! Com’è noto, non votarono gli elettori di stretta osservanza cattolica, in forza della parola d’ordine ”né eletti né elettori” – in ordine a quel “non possumus” di Pio IX contro le “usurpazioni” piemontesi – preoccupati delle mire unificatrici del nuovo regno, che di lì a qualche anno avrebbero portato anche alla caduta dello stesso Stato pontificio. Per non dire poi dei tanti brogli che “animarono” quei plebisciti!
Successivamente, l’11 marzo 1861, il Conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli Affari Esteri, presentava alla Camera dei Deputati un progetto di legge, in virtù del quale “Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele II assumeva per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia”. Fu nominato relatore di questo progetto il deputato Giorgini, che presentò la sua relazione alla Camera il 14 febbraio 1861. La Camera lo discusse nella stessa tornata e l’approvò all’unanimità con 294 voti. Il Senato aveva prima approvato il Regno d’Italia nella tornata del 26 febbraio 1861. La legge fu promulgata il 17 di marzo 1861 e porta il numero 4671 nella Raccolta degli Atti del Governo. Era nato il Regno d’Italia! Era nata l’Italia! Il 23 marzo venne costituito il primo governo italiano e Cavour fu il primo Presidente del Consiglio.
Il resto è storia nota. E nonostante le mille difficoltà dei primi decenni di Regno, va detto con forza che l’unità nazionale non avvilì e non avvilisce le autonomie, e con lo scorrere degli anni, lungi dall’isolarle in una possibile e mortificante autoreferenzialità, permise loro di situarsi in un contesto più ampio in cui ciascuna di esse potesse commisurarsi e crescere. E si trattò di un’operazione alla quale lo stesso Manzoni partecipò, quando volle sciacquare in Arno quel romanzo che di fatto costituì un interessante contributo per l’unificazione linguistica, culturale, civica.
In un pianeta che oggi sta attraversando profondi cambiamenti, due sono in effetti le linee di tendenza. Quella che porta a ricercarci tutti come cittadini del mondo, in un processo che gli economisti chiamano globalizzazione, indotto e prodotto dalle tecnologie della comunicazione, quelle fisiche, i trasporti, e quelle virtuali veicolate dal web, ben più potenti, perché incidono direttamente sulle conoscenze, sui saperi, sulle abitudini, sui modi stessi di pensare e di sentire. E quella che porta invece, in un processo contrario, a ricercare il locale, il particolare, l’origine identitaria di ciascuno di noi. E forse, in questa polarità di processi, il globale e il locale possono essere visti come le due facce della stessa medaglia che più compiutamente alcuni definiscono glocalizzazione. E queste considerazioni sono ancora più vere in un periodo storico in cui tanti disperati approdano sulle nostre spiagge semplicemente per salvarsi la vita.
Se queste considerazioni sono vere, come è, non c’è alcuna contraddizione tra il sottolineare l’Unità nazionale e nel contempo ricercare e valorizzare tutti i tasselli che costituiscono questa unità e che forse una unificazione troppo accelerata ha portato ad offuscare, se non addirittura in taluni casi a comprimere. Giova ricordare due fenomeni, tanto diversi, ma concomitanti: la violenta liquidazione di quel movimento di lotta armata che venne bollato come brigantaggio; e le bacchettate dei maestri quando un bambino di prima elementare, siciliano o veneto che fosse, persisteva nel linguaggio dei padri e resisteva alla lingua nazionale.
In taluni casi forse si è errato, si è forzata la mano: comunque, era anche necessario correre a costruire ferrovie, strade, ponti, scuole, caserme, ministeri, e tutte le infrastrutture di cui tutti gli Stati europei da decenni erano già largamente forniti. Va anche considerato che poi il regime fascista ha impresso al Paese quella fascistizzazione nazionalistica che grave nocumento ha arrecato a tutte quelle minoranze linguistiche e culturali di confine che dopo la grande guerra erano state annesse al Regno d’Italia.
Vale forse la pena riandare alla nostra stessa Costituzione. Nell’articolo 5 i nostri Padri costituenti nel 1947 scrissero testualmente: “La Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. E nell’articolo 114 leggiamo: “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”. I Costituenti hanno prefigurato fin dagli anni Quaranta, nell’immediato dopoguerra, per un Paese sconfitto e umiliato da venti anni di dittatura, uno Stato fortemente unitario ma nel contempo aperto alle autonomie locali e regionali. E nel processo che abbiamo avviato, di progressivo decentramento dei poteri dal centro alla periferia, dallo Stato alle Regioni, si procede proprio verso quella valorizzazione delle identità regionali che forse per tanti anni non sono state debitamente considerate.
E non è un caso che nella riscrittura che è stata fatta, in sede di revisione del Titolo V della Costituzione nel 2001, quell’articolo 114 è stato così riscritto: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Si sottolinea un netto passaggio da uno Stato che potremmo definire accentratore e verticale ad uno Stato, invece, orizzontale e fortemente decentrato sulle sue istituzioni periferiche. Si tratta di un deciso passo in avanti verso una più ampia democratizzazione e partecipazione delle istituzioni e dei singoli cittadini.
Siamo un Paese che ha una lunga storia! Siamo una Repubblica che viene da lontano! Che ha conosciuto e che ha superato momenti molto difficili! Ma che oggi sembra vivere tempi molto incerti! In realtà, è l’intero pianeta che oggi vive tempi incerti. Intere popolazioni muovono dal Sud al Nord del pianeta, da un continente ad un altro; dalla miseria, dalla fame, dalle persecuzioni, alla ricerca del pane, della pace, di un letto per dormire! Ciò che avvilisce e preoccupa è l’incapacità di certi governanti che non sanno leggere l’epoca che stiamo vivendo, che chiudono porti e confini! O meglio, che credono di chiuderli! In un mondo che, invece, oggi – e sempre più domani – procede al contrario! Uomini e donne e bambini che non hanno una patria e che non cercano una patria! Perché l’Ottocento della Nazioni è passato da tempo. Ed anche quel dannato secolo breve che è stato il Novecento. Chi oggi non conosce il nostro passato, non sa leggere il presente e non sa progettare il futuro non può governare un Paese.
“O Italiani, io vi esorto alle storie! Perché angusta è l’arena degli oratori”. L’ammonimento del Foscolo di tanti anni fa sembra oggi quanto mai attuale. In un’epoca buia e triste per il nostro Paese! Viviamo un’epoca estremamente difficile e meriteremmo governanti di grande spessore e di grande lungimiranza. Perché veniamo da lontano! E lontano dobbiamo andare!