Interessi sul debito pubblico: la spesa supera quella per la scuola

da Tuttoscuola

Ormai da molti anni nel bilancio della Stato la somma iscritta per pagare gli interessi sul “debito” contratto dal Tesoro con i risparmiatori nazionali e stranieri supera l’importo degli stanziamenti diretti a sostenere il sistema formativo. È una verità amara, scarsamente evidenziata forse per non deprimere la comunità, ma è lo specchio di una realtà che rende difficoltosa la stabilità economica della Nazione ed incerte le prospettive di sviluppo del Paese. La qualificazione del capitale umano è un fattore decisivo nella competizione delle economie globalizzate, ma se le risorse finanziarie prodotte dal nostro sistema produttivo vanno prioritariamente impiegate per pagare gli interessi ai risparmiatori, alle banche e ai fondi che acquistano i titoli di Stato, non ci sono margini per investire nella formazione delle giovani generazioni e per supportare gli altri servizi ai cittadini. Uno squilibrio finanziario patologico, una spirale tremenda dalla quale il Paese non riesce a uscire. Ne abbiamo parlato nel numero di gennaio di Tuttoscuola, in un articolo di Enzo Martinelli, ex direttore generale Miur.

Al netto degli interessi per il debito le entrate annue dello Stato superano leggermente le spese (avanzo primario). Ma gli oltre 75 miliardi di interessi pagati ogni anno ai possessori delle cartelle di credito del Tesoro vanno ad incrementare la montagna del debito pubblico arrivato ormai a 2.300 miliardi di euro. Dunque la vera, dura battaglia per le nuove generazioni sarà quella diretta a ridurre il debito statale che pone l’Italia al terzo posto mondiale fra gli Stati più indebitati ed al secondo posto in Europa. Giappone e Grecia sono i nostri concorrenti per il primato nelle rispettive graduatorie.

Per la verità tutti gli Stati hanno sul groppone un rilevante debito pubblico, ma la partita decisiva viene giocata sul rapporto tra il debito e il prodotto interno lordo (il famoso Pil) di ciascun Paese. Proprio su questo piano la condizione dell’Italia è critica, perché il nostro debito supera (132%) l’importo di quanto annualmente viene prodotto nella penisola.

Di queste abbastanza elementari nozioni i giovani che escono dai nostri istituti superiori e dalle università hanno effettiva cognizione e consapevolezza? Al di là dell’educazione finanziaria, più auspicata che realizzata nelle aule, vengono messe in atto da parte della classe docente attività finalizzate a rafforzare il profilo civico degli alunni sui quali, pro quota, grava il citato debito pubblico? Esiste tra i cittadini una diffusa consapevolezza della gravità finanziaria in cui vive il Paese, pesantemente condizionato dalla fiducia che in esso ripongono i risparmiatori stranieri che hanno in mano circa un terzo del nostro debito? Non si tratta di spaventare o deprimere adulti e giovani. Anzi. Si tratta di comunicare e rappresentare la realtà per quello che è, al fine di rilanciare il civismo come antidoto alla rassegnazione o peggio all’indifferenza, all’assenza di speranza. Oggi i veri nemici di troppi giovani sono la paura e la pigrizia. Per questo vanno resi edotti delle presenti difficoltà, spronati ad acquisire la reale cittadinanza e partecipare responsabilmente alla futura difficile costruzione della vita comunitaria.

Nell’ambiente scolastico troppe volte si sente dire che queste nozioni sono argomenti connessi alle vicende della politica, che quindi è bene che la loro trattazione resti lontana dalle cattedre. Inoltre tanti insegnanti dichiarano che nel loro percorso di studi non si sono “addentrati” in queste specifiche “materie”  e  non hanno la capacità di trattarle. Per tali motivi l’attenzione per creare o rafforzare il profilo civico degli studenti rimarrebbe scarsa nei banchi di scuola. Anche la stampa quotidiana non offre apprezzabili contributi alla causa perché il suo peso nella comunicazione è ridotto al lumicino; in Italia ogni giorno si stampano ormai appena 1.900.000 copie di giornale, un milione in meno di quante se ne stampavano nel 2014; rispetto agli altri grandi Stati europei ormai in Italia si leggono i giornali nella stessa misura dei Paesi sottosviluppati. Alla televisione urla e slogan la fanno da padroni e la funzione culturale di aggiornamento e formazione sui temi citati è ormai residuale. Per altro verso il dibattito politico è sempre più caratterizzato da scontri tra tifoserie piuttosto che da serie, approfondite e documentate riflessioni che aiutino a capire le vere problematiche e orientare le scelte idonee ad affrontare la grave situazione in cui si dibatte la comunità.

Non deve allora meravigliare se gli studenti continuano a celebrare, nell’autunno di ogni anno, le loro liturgie con i riti delle okkupazioni, degli scioperi, delle manifestazioni con i vessilli di lotta sotto le finestre del ministro di turno, chiedendo la luna che però si allontana sempre più dal pozzo perché la quota di finanziamenti del Pil nazionale destinata alla scuola scende sempre più in basso. Il rumore non sposta la forza dei numeri. Siamo appena al 3,8%., una percentuale che attesta il fallimento e l’assuefazione alle sterili “agitazioni” studentesche.

Le cifre purtroppo evidenziano una situazione quasi incredibile. Le abbiamo commentate nel numero di gennaio di Tuttoscuola.