I Livelli Essenziali delle Prestazioni

I LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI PER UN REGIONALISMO EQUO E SOLIDALE

di Gian Carlo Sacchi

Nell’ultimo decennio del secolo scorso una serie di provvedimenti investì l’organizzazione dello Stato e per la prima volta dopo l’istituzione degli organi collegiali la scuola entrò in un processo multilaterale di rapporti tra enti territoriali: dalla riforma degli enti locali con la quale prese consistenza tale settore all’interno di comuni e province, a quella della pubblica amministrazione che decentrò competenze dell’istruzione oltre che ai predetti enti anche alle stesse scuole, divenute per effetto di questi ultimi interventi legislativi autonome con tanto di personalità giuridica. La revisione del titolo quinto della Costituzione venne così a ridisegnare l’architettura dello Stato, con tanto di referendum confermativo.
Di esclusiva competenza statale furono indicate le norme generali sull’istruzione ed i principi fondamentali, alle regioni fu assegnata l’istruzione e la formazione professionale, per il resto un governo misto nel quale dovevano agire in modo “concorrente” stato e regioni, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Per i settori della sanità, welfare e istruzione “i livelli essenziali delle prestazioni” dovevano essere le clausule di salvaguardia della parità dei diritti sul territorio nazionale.
Con l’art. 116 la nuova Costituzione offriva la possibilità alle regioni che ne facessero richiesta di avere maggiori gradi di autonomia da concordare con il governo centrale e da concretizzarsi con legge nazionale. Questo percorso poteva riguardare sia le competenze concorrenti sia quelle esclusive dello Stato, come appunto le norme generali sull’istruzione.
La legge costituzionale del 2003 però non fu applicata, molto contenzioso suscitarono le suddette competenze concorrenti; l’autonomia scolastica da salvaguardare è rimasta largamente incompiuta ed i livelli essenziali elaborati nella sanità ed abbozzati nel welfare mancano del tutto nel settore formativo, se si eccettuano due soli interventi: il DPR 226/2005 che guardava più ai rapporti tra stato e regioni sul versante dell’offerta che ai diritti dei cittadini nei confronti del servizio e più di recente (D.Leg.vo 13/2013) la definizione di norme generali/livelli essenziali nell’ambito dell’apprendimento permanente, per individuare e validare competenze non formali ed informali ed arrivare alla loro certificazione; norme che sono rimaste perlopiù dichiarazioni di intenti senza un seguito a livello di sistema.
In sede di decentramento dello Stato il D.Leg.vo 112/1998 aveva indicato le competenze amministrative che dovevano essere trasferite a regioni, province e comuni, nonché alle scuole autonome, alle quali però non sono seguite le risorse umane e finanziarie; le funzioni degli enti locali sono state meglio precisate con la legge sul federalismo fiscale ed i relativi decreti applicativi e videro la luce solo per una iniziale ricognizione dei fabbisogni dei servizi formativi per l’infanzia. Cosa fossero quindi le norme generali e i principi fondamentali indicati dalla Costituzione non venne mai precisato, ma tutto l’ordinamento della pubblica istruzione sotto il governo dell’amministrazione scolastica centrale e periferica fu considerato generale perché a valere su tutto il territorio nazionale, come compito della Repubblica ad istituire scuole di ogni ordine e grado. Una bozza di accordo circolò nella conferenza stato-regioni (2008), ma non ottenne alcun risultato per l’opposizione del ministero; le stesse regioni tuttavia non hanno forzato la mano per il timore che fossero trasferite le competenze ma non i finanziamenti.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso una fioritura di leggi regionali cercarono di interpretare le predette competenze concorrenti, ma questo generò un notevole conflitto costituzionale, inducendo l’alta Corte a sostituirsi al legislatore indicando in una sentenza le norme generali che dovevano riguardare la definizione complessiva del sistema di istruzione e formazione, la regolamentazione dell’accesso, il diritto-dovere della fruizione, la quota nazionale dei piani di studio (il decreto sull’autonomia delle istituzioni scolastiche prevede infatti una parte del curricolo di istituto e la legge 53/2003 introduce una quota riservata alle regioni), il passaggio tra i diversi cicli, la definizione degli standard minimi, la valutazione degli apprendimenti e del sistema educativo, il modulo di alternanza scuola-lavoro e i principi di formazione degli insegnanti.
A proposito del personale si iniziò a parlare di dipendenza funzionale dalle regioni, mentre per quanto riguarda i principi fondamentali che dovevano ruotare intorno allo Stato Anna Maria Poggi (2010) identifica: la libertà di insegnamento, lo sviluppo dell’autonomia scolastica, la libertà di accesso, le pari opportunità, il diritto all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.
Dopo il secondo scontro tra centro e periferia prodottosi in relazione alle già citate competenze concorrenti ,a difesa delle autonomie regionali, eccoci al terzo, al contrario, paventando che le tre regioni che hanno fatto richiesta di autonomia: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, cerchino di minare l’unità nazionale. Prima i livelli essenziali e poi il regionalismo, si grida anche nella maggioranza di governo; a nessuno sfugge che se avessimo dato spazio fin da allora al distretto scolastico, o realizzato quanto previsto dal nuovo titolo quinto i livelli essenziali sarebbero già diventati parte integrante delle politiche territoriali e non astratti pronunciamenti giuridici che una volta messi sulla carta, ammesso che sia semplice e veloce farlo, non corrispondono alla realtà sociale ed economica dei territori, per cui si ha l’impressione che ancora una volta sarà il centralismo burocratico ad avere la meglio, come è accaduto in passato, facendo leva sulla parte più debole della politica in termini di visione strategica ed esperienza di governo.
Guardando alla realtà tutt’ora fortemente statalista si fa notare (CENSIS 2018) che è la situazione attuale differenziata, e non si fa fatica a riconoscerlo in base a tutte le ricerche nazionali ed internazionali di cui disponiamo, ma intanto cresce un forte bisogno di rappresentanza dei territori, che potrebbe riavvicinare i cittadini alla politica, nonché la necessità evidente di ridefinire i rapporti tra le regioni e lo stato centrale.
Un sistema di autonomie, che potrebbe riguardare tutte le regioni (sono già circa una decina quelle interessate all’autonomia differenziata) e in futuro dare anche più senso ad una camera nazionale delle stesse, sarebbe meglio in grado di interpretare le esigenze locali, incorporando servizi essenziali, cioè inderogabili, per garantire i diritti di tutti i cittadini, da condividere al tavolo con lo Stato come avviene per la sanità. Le prestazioni sono già identificate nella predetta legge sul federalismo fiscale; i livelli saranno soggetti ad un costante confronto stato-regioni nell’ottica del multigoverno territoriale e delle disponibilità finanziarie al quale devono partecipare anche le autonomie scolastiche.
Nell’orizzonte delle prestazioni c’è infatti sia la dimensione economica, sia quella educativa, orientata alla qualità pedagogica e didattica dei processi formativi. I livelli devono essere agganciati a standard di sviluppo della persona umana e della cittadinanza in riferimento ai diritti garantiti dalla Costituzione. Essi non sono solo gli elementi essenziali che vanno finanziati, ma il risultato della convergenza di punti di vista dei diversi soggetti che operano per questa comune finalità sul territorio, evitando che il passaggio dal centralismo alle autonomie provochi distrazioni di risorse.
Tali livelli devono indicare: i diritti da garantire (diritto all’integrazione, all’apprendimento per tutta a vita, ecc.), gli aventi diritto (evoluzione della popolazione scolastica; quantità e qualità dell’offerta e successo formativo, pari opportunità, ecc.), le condizioni per l’esercizio del diritto e la fruizione del servizio, (caratteristica delle strutture, ecc.), le prestazioni (orario e parametri del servizio, rapporto insegnanti/alunni, qualificazione del personale, sistemi di osseverazione della qualità) e le istituzioni ( scuola dell’infanzia, primaria, secondaria, post-diploma, istruzione degli adulti, ecc.).
Si tratta di realizzare una spesa efficiente, che potrebbe portare a soluzione anche il finanziamento delle scuole paritarie, che per ora vedrà le stesse risorse impiegate dallo stato per le diverse regioni, ma che in futuro andrà posta in relazione con la crescita economica, in quanto ad un maggiore PIL regionale corrisponderà una quantità di imposte che rimangono sul territorio, ma la Costituzione prevede un fondo perequativo a livello nazionale per quelle regioni con minore capacità fiscale. Verrà così superata la spesa storica per l’introduzione del costo standard.
La Costituzione prescrive inoltre che il finanziamento dello Stato venga assegnato a ciascuna regione senza vincolo di destinazione, ma per ogni livello del multigoverno occorre attivare un monitoraggio dell’erogazione delle prestazioni attraverso un controllo di gestione, una valutazione dell’efficacia e dell’equità nello sviluppo delle competenze, con riferimento a rilevazioni nazionale e internazionali ed una valutazione dell’efficienza finalizzata ad individuare e diffondere le migliori pratiche, nonché idonei piani di miglioramento, che arrivino fino alla revisione dei livelli medesimi, sulla base dei risultati conseguiti ed in rapporto all’evoluzione culturale, sociale ed economica del Paese.
Le diverse leggi regionali che daranno il via alla maggiore autonomia potranno essere l’occasione per completare il decentramento amministrativo nel settore e la stessa autonomia scolastica ha bisogno di migliori condizioni per potersi esplicare compiutamente; la sua elevazione a dignità costituzionale la mette al riparo da nuovi centralismi regionali.
La preoccupazione del legislatore costituzionale è quella di tenere legata la Repubblica che detta norme generali con enti e privati che hanno il diritto di istituire scuole e con le realtà territoriali che questo diritto devono applicare concretamente: da qui nasce l’intreccio di competenze e responsabilità previsto dalla revisione del titolo quinto.
Il dibattito su questi temi ha sempre privilegiato l’uniformità dei trattamenti a scapito della loro individualizzazione, nell’ottica del carattere trasmissivo della scuola, per cui i livelli sono visti come standard minimi di servizio e non piuttosto come diritti da tutelare a livello individuale e sociale. La governance dovrà quindi fondare il suo potere nell’intreccio tra autonomie scolastiche e locali.
Introdurre il costo standard per studente vuol dire riqualificare la spesa delle scuole nonché l’acquisizione di competenze di riorganizzazione amministrativa e gestionale, per rendere sostenibile una qualità senza sprechi. Tale costo sarà determinato con riferimento alla popolazione residente in quella regione, alle caratteristiche del territorio ed alla propria capacità fiscale. La legge 107/2015 ci si avvicina mediante la possibilità per le famiglie di effettuare una detrazione fiscale e per la scuola una raccolta fondi privati; con l’accentuazione dell’autonomia si potrà così valorizzare le ricchezze delle differenze nell’offerta formativa, portando a compimento, come si è detto, quanto iniziato anche per le scuole paritarie. E’ la legge 62/2000 che fa un passo avanti, dalla scuola di Stato al sistema nazionale di istruzione e formazione, oggi composto dai servizi per l’infanzia (D.Leg.vo 65/2017), dalle scuole statali, di iniziativa privata e degli enti locali, dalla formazione professionale regionale e degli adulti per il conseguimento di competenze formali, non formali ed informali (D.Leg.vo 13/2013).
Il costo standard viene già utilizzato per l’attribuzione del fondo per il finanziamento ordinario alle università (DM 585/2018), calcolato sulla base del costo del personale, della docenza a contratto, del personale amministrativo, delle figure di supporto, del funzionamento e gestione delle strutture didattiche, di ricerca e servizio nei diversi ambiti disciplinari. E’ prevista una perequazione in base al reddito medio familiare e della capacità contributiva degli iscritti della regione ove ha sede l’ateneo. Un’ulteriore perequazione a livello nazionale tiene conto delle diverse accessibilità in funzione della rete dei trasporti e dei collegamenti.
Agli inizi del federalismo fiscale erano circolati dei questionari per i Comuni, singoli o associati, al fine di determinare il fabbisogno in termini di servizi per l’infanzia e per il primo ciclo dell’istruzione, con l’indicazione del personale impiegato, l’edilizia ed altre attività ricreative. Dal versante delle scuole paritarie arriva un elenco di voci che dovrebbero essere utilizzate per questo calcolo, che vanno anche qui dal personale, alla manutenzione degli edifici, riscaldamento, pulizie e progetti didattici, investimento per le tecnologie, amministrazione, formazione dei docenti. Mense, trasporti ed attività extracurricolari resterebbero a carico delle famiglie (Alfieri 2018).
Livelli essenziali e costi standard sono utili la dove c’è una vera autonomia, per evitare che si produca disuguaglianza, e come per la sanità anche per l’istruzione si possono metter insieme istituzioni con diverse provenienze.