Anche riformata, questa maturità non è più al passo con i tempi

da Il Sole 24 Ore

di Andrea Gavosto*

Nelle scuole superiori c’è agitazione. La nuova maturità farà il suo esordio il prossimo giugno e molti sono i timori, non solo fra gli studenti. Rispetto all’anno scorso, i cambiamenti sono numerosi e il tempo per digerire le novità è stato poco. Prima della conclusiva prova orale, da quest’anno gli scritti saranno soltanto due, invece di tre, con il poco amato “quizzone” che va in pensione. Il secondo scritto, però, potrà essere multidisciplinare (ad esempio, matematica e fisica allo scientifico): idea interessante, la cui validità sulla carta dovrà però essere verificata nella pratica, sperando nell’intelligenza di chi redigerà le prove. Condivisibile anche il maggior peso dato al percorso scolastico nel giudizio finale.

La novità più apprezzabile riguarda, però, la prima prova – quella di italiano – che dovrebbe cambiare secondo le linee della commissione guidata dal linguista Luca Serianni: forse è la volta buona per archiviare (già si era cominciato timidamente a farlo) il tema, sovente ancora esercizio di retorica fine a se stesso, puntando su nuove prove fondate sul principio che leggere, scrivere, sapere ragionare e argomentare – elementi essenziali di qualsiasi processo conoscitivo – vanno sempre insieme. Nella nuova maturità non mancano anche scelte censurabili, prime fra tutte la cancellazione della prova Invalsi e delle ore di alternanza scuola-lavoro come requisiti di accesso all’esame: qui il Miur ha scelto di compiacere la parte dei docenti più ostile all’innovazione.

Si può comunque concludere che nella nuova maturità le luci superano le ombre? Non è così: anche le novità più convincenti sono ben lontane da riscattare un esame che – così com’è concepito – da tempo non ha più senso.

Il suo vero e irrisolto problema è la discrezionalità di giudizio di ciascuna commissione, che permane anche dopo quest’ultima riforma e non potrà essere significativamente attenuata dalle nuove griglie nazionali di valutazione, peraltro a quanto pare previste solo per le prove scritte. Discrezionalità che fa vedere i suoi effetti distorsivi più clamorosi sui risultati nelle diverse aree del Paese: nel 2018 la Puglia ha avuto un numero di 100 e lode superiore a quello di Piemonte, Lombardia e Veneto messi insieme. Ma le differenze si osservano anche nel singolo istituto, quando al lavoro vi sono più commissioni.

Proprio perché non si fidano più dell’esame di Stato, che non dà loro esiti affidabili per comprendere e confrontare profili e competenze dei diplomati, le università hanno da tempo introdotto i propri test per selezionare gli studenti in ingresso. A loro volta, i datori di lavoro ormai quasi non tengono più conto del voto di maturità nella decisione di assunzione.

C’è un’alternativa all’abolizione di un esame oggi sostanzialmente inutile e che anche come rito di passaggio ha perso fra i ragazzi di oggi molto dell’antico pathos che ha avuto per genitori e nonni?

I suggerimenti che provengono dal resto d’Europa sono di due tipi: il primo riguarda le prove standardizzate – quindi immediatamente confrontabili su tutto il territorio nazionale – nelle materie di base, come italiano, matematica, inglese; non tutte le materie, però, si prestano (si pensi a quelle artistiche). La seconda possibilità è quella di esami le cui prove siano sottoposte a una correzione unificata a livello centrale, che garantisca omogeneità di criteri di giudizio: un esempio è in questo caso l’Olanda. Le verifiche possono avvenire ad opera di una commissione nazionale oppure scambiando le prove per la correzione fra diverse aree territoriali, come avviene per l’esame di Stato degli avvocati: il digitale renderebbe peraltro questa soluzione oggi meno costosa dello spostamento in massa dei commissari della maturità.

Un esame finale condotto secondo criteri di valutazione omogenei sarebbe una soluzione promettente per dare nuova linfa alla maturità, che a quel punto, con gli opportuni arricchimenti, potrebbe essere utilizzata dagli atenei come test d’ingresso e dai datori di lavoro come criterio di selezione dei giovani diplomati.

*Direttore della Fondazione Agnelli