Linguaggi e matematica: due assi veramente distinti?

Linguaggi e matematica: due assi veramente distinti?

Una riflessione su due dei quattro assi culturali del biennio obbligatorio, quello dei linguaggi e quello matematico (dm 22 agosto 2007, n.139)

di Maurizio Tiriticco

Nel documento che descrive i quattro assi culturali che devono essere considerati negli insegnamenti dei bienni dell’istruzione secondaria superiore investiti dall’innalzamento dell’obbligo viene opportunamente distinto l’asse dei linguaggi da quello matematico. Tuttavia, occorrerà assolutamente evitare che gli insegnanti di materie letterarie e quelli di matematica progettino percorsi formativi tra loro assolutamente diversificati. Infatti, occorre tenere presente alcune circostanze.

In primo luogo, non bisogna dimenticare che anche la matematica è un linguaggio, pur se, per certi versi, fortemente formalizzato. In secondo luogo, non va dimenticato che anche i processi linguistici delle informazioni formalizzate non possono sottrarsi al rigore delle scelte che l’emittente deve compiere se vuole che il messaggio giunga al ricevente non ambiguo e senza errori. Ed è il sintagma parte nominale-parte verbale che lo consente, purché da parte dei comunicanti si condividano codici e referenti. In effetti, tra un enunciato quale “la Camera ha approvato a maggioranza il disegno di legge x” e l’enunciato“tre per due eguale sei” non c’è differenza sotto il profilo della struttura comunicativa logico-formale.

Ma, quand’è che le due discipline si differenziano? Quando utilizziamo il veicolo orale per costruire informazioni, a volte queste, sia sotto il profilo della correttezza che sotto quello della pertinenza, provocano alcune perplessità. Chi ci vieta di dire che tre per tre eguale sei oppure che la Camera ha mangiato a sette ganasce il disegno di legge x? Ed ancora, chi ci vieta di dire che con gli stivali di Perrault si percorrevano sette leghe con un solo passo? O che il Minotauro del mito era figlio di Pasifae e di un toro? O che al suono delle trombe di Giosuè le mura di Gerico crollarono? Il fatto è che il linguaggio non matematico è ricco di metafore, sottintesi, inferenze, invenzioni surreali, che portano alla fiaba, alla favola, al mito, al racconto, alla poesia. Sono le forme di fronte alle quali la logica si arresta e l’analogico sopravanza il discreto. Da parte sua, peraltro, lo stesso linguaggio matematico non fa sconti e l’alta matematica veleggia anch’essa a cimentarsi sulle frontiere dell’impossibile quadratura del cerchio e di un 3,14 puntini puntini, tuttora irrisolto.

Le ricadute che riflessioni di questo tipo hanno sulla didattica, soprattutto quando chi insegna si deve cimentare sugli sconfinamenti della pluri-, dell’inter- e della transdiciplinarità, sono infinite. Se poi consideriamo che chi apprende ha sempre un atteggiamento pluridisciplinare e mal digerisce le partizioni che del sapere hanno operato coloro che fino a qualche anno fa costruivano programmi ministeriali ripartiti per discipline – o, peggio, per materie – ne consegue che nel biennio obbligatorio dobbiamo tutti assolutamente rimboccarci le maniche per ripensare le linee che ci sono indicate dal Miur e che dobbiamo assolutamente progettare per curricoli: in forza dell’autonomia! E’ una sfida di non poco conto. Ed è una sfida che deve coinvolgere ineluttabilmente anche la scuola media!

Insomma, la matematizzazione e i processi linguistici o, se si vuole, contare e parlare sono processi continui, anche se, in apparenza, sembrerebbero agli antipodi. Se pensiamo al verbo raccontare, costatiamo all’instante che in effetti il verbo contare ne costituisce un fattore fondante. Quindi occorre avviare una sorta di esplorazione – se si può dir così – su due discipline che in genere sono erroneamente considerate agli antipodi. Ovvero, la matematica e l’italiano o, se si vuole, l’insegnamento/apprendimento matematico e l’insegnamento/apprendimento linguistico.

Matematizzazione e processi linguistici

Con il termine matematizzazione si intende una funzione della nostra attività mentale che governa, disciplina ed ordina una serie di aspetti dei nostri pensieri – e, conseguentemente, della nostra stessa vita – a partire da quelli della più semplice quotidianità fino a quelli della ricerca scientifica più avanzata.

Così matematizziamo quando, al risveglio del mattino, ci alziamo, ci laviamo, ci vestiamo, facciamo colazione e coordiniamo tutti i nostri tempi per non giungere tardi al lavoro, o quando acquistiamo il giornale o saliamo sull’autobus. Apparentemente si tratta di azioni più che banali, ma di fatto l’aprire e chiudere un rubinetto, prepararsi il caffè, scegliere l’abito dall’armadio ed indossarlo, contare i soldi per il giornale, leggere i numeri sui display degli autobus in arrivo alla fermata, sono atti che richiedono operazioni mentali non indifferenti. Si tratta di riattivare nella nostra memoria una serie di contatti, di prese d’atto, di riconoscimenti, di discriminazioni e di scelte. Quindi dobbiamo distinguere e associare, ordinare e numerare, classificare e seriare, indurre e dedurre, e infine decidere e fare.

In genere si crede che le operazioni del quotidiano non impegnino più di tanto, in quanto l’abitudine alle reiterazioni rende in gran parte automatiche le operazioni stesse. E ciò rende possibile, ad esempio, che, mentre ci facciamo la barba, programmiamo la nostra giornata o pensiamo a come svolgere un certo lavoro; ed è una grande fortuna che al mattino non si debba ogni giorno “ricominciare da capo” a comprendere perché ci si debba alzare e come farlo, a non confondere un calzino con una camicia o una saponetta con una brioche. I processi apprenditivi servono proprio a questo: ad acquisire e a rinforzare conoscenze e processi, a farne quadri di riferimento e vere e proprie mappe mentali e operative da utilizzare tutte le volte che sia necessario.

Così, sono solo le “prime volte” che costituiscono motivi di mille difficoltà. Un bambino deve pazientemente imparare ad abbottonarsi il cappotto e ad allacciarsi le scarpe, come ad usare coltello e forchetta, e poi via via ad apprendere operazioni sempre più complesse, il leggere, lo scrivere, il contare e così via: tutte cose che costituiscono poi l’insieme della strumentazione necessaria per la sopravvivenza quotidiana. Le “prime volte” per l’adulto sono in genere più rare, ma non meno difficili: c’è una prima volta per la guida di un automobile, o per il viaggio aereo, o per l’aprire un conto in banca, o per utilizzare l’ultimo cellulare dalle funzioni sempre più ricche! O addirittura per affrontare una nuova esperienza di lavoro. Ebbene, se non avessimo interiorizzato ed automatizzato le operazioni della quotidianità, ci sarebbe poco spazio per nuovi apprendimenti; ma è proprio in questa capacità di potere apprendere ancora e di più che ci differenziamo dal mondo animale! Con tutto il rispetto che si deve agli animali, oggi sempre più costretti alla ricerca di nuovi habitat, in forza di un processo i antropizzazione che si fa sempre più incisivo ed invadente

D’altra parte, non si deve pensare che l’automatizzazione delle operazioni più semplici sia una garanzia per l’organizzazione della sopravvivenza quotidiana. Può capitare che il rubinetto della doccia non funzioni o che manchi l’acqua o che lo scaldabagno si sia rotto, o che il caffè che cerchiamo nel solito barattolo sia finito; o che l’abito che intendevamo indossare sia ancora in tintoria; o che ci sia un improvviso sciopero dei mezzi pubblici, e così via. Sono tutti casi in cui scattano processi mentali che potremmo definire superiori: si tratta di risolvere problemi, anche se piccoli, di analizzare il caso problematico, di formulare delle ipotesi, di operare delle scelte, di adottare strategie; a volte sarà anche necessario “rompere delle norme”. Si dovrà ricorrere ad una tazza di tè al posto del caffè o ricorrere a un abito non più alla moda. In effetti, possiamo dire che, quando si operano queste “rotture”, siamo sulla soglia della produzione creativa.

E’ sufficiente matematizzare?

Ma… è proprio su questa soglia che dobbiamo fermarci, in quanto andiamo oltre ai processi di matematizzazione.

In conclusione, possiamo dire che tutti noi matematizziamo, anche coloro che sono soliti dire che si sono dati agli studi letterari perché “in matematica andavano malissimo e non ci capivano niente”. Come se la produzione letteraria, e quella artistica in genere, non richiedesse anch’essa una solida base di matematizzazione! Se è vero che la poesia e la musica hanno il loro fondamento nel ritmo, è anche vero che il ritmo è numero, è misura, è ordine. Se è vero che le arti figurative si fondano sulla proporzione, sulla prospettiva, sul rapporto dei colori, dei volumi e delle forme, è anche vero che proporzioni e rapporti si ricercano e si producono matematizzando.

Matematizza, allora, l’uomo della strada, come il genio matematico, come il genio poetico. Certamente, l’uomo della strada – ma dopotutto anche il genio è, per le operazioni della sopravvivenza, un uomo comune – matematizza solo fino a un certo limite. Il genio va oltre, trova nuove soluzioni, infrange vecchie norme e ne crea, a volte, di nuove, che poi ad ogni buon conto spetterà ad altri infrangere: da Tolomeo a Galileo, da Galileo a Einstein, fino alla teoria quantistica, ed oltre ancora! Anche perché sembra che questo sia l’ineluttabile destino dell’uomo! La soluzione di un problema comporta che inevitabilmente se ne presenti subito un altro, superiore e più complesso.

Ma possiamo forse dire che la matematizzazione esaurisca le modalità del pensare e dell’operare umano? Certamente no! Infatti, vi sono altre operazioni, che del resto appartengono a tutti, al genio come all’uomo comune, che per altro provengono da altre molle del nostro interagire con gli oggetti, con gli altri, e con noi stessi!

Matematizziamo quando acquistiamo una camicia: ci assicuriamo che sia della nostra misura, che sia di buona qualità e che non presenti difetti di fabbricazione, verifichiamo se il prezzo è conveniente, andiamo alla cassa e paghiamo. Ma tra le tante camicie tutte adatte per noi, perfette e convenienti, ne scegliamo una, e solo una e non un’altra. Non solo, spesso andiamo di vetrina in vetrina, di negozio in negozio finché non sia scattata quella molla particolare che ci fa dire: “Questa sì che mi piace!”. Chi ci accompagna potrà concordare con noi sulla misura e sul prezzo (matematizza anche lui!) ma, potrà dire a sua volta: “A me non piace affatto!”.

Insomma, la matematizzazione ci accomuna, ma altre operazioni ci differenziano. Ci soccorre il vecchio adagio secondo il quale in materia di gusti non si discute; ed infatti non c’è una regola che possa disciplinarli: appartengono a un mondo che non può essere matematizzato!

Così i gusti e le emozioni, le simpatie e le antipatie, l’annoiarsi di una situazione o il provarne piacere, il “mi piace” e il “non mi piace”, provare odio od amore, attrazione o repulsione, il sentirsi motivati oppure no, il sentirsi Ok o Non Ok, come vuole la psicologia transazionale, sono tutte sollecitazioni che appartengono ad una sfera del nostro essere che non rientra nella matematizzazione.

Accade così che ciascuno di noi matematizza quando deve acquistare i pensili per la cucina o l’armadio per la stanza di letto, o il servizio di bicchieri in ordine alla necessità di una coppia o di una famiglia molto numerosa. Così, va al negozio con in tasca il foglietto delle misure giuste, in relazione allo spazio che le pareti gli consentono! E sa che gli servono sei bicchieri per l’acqua e sei per il vino! Ma non matematizza quando sceglierà “quei” mobili e non “quegli” altri, “quei” bicchieri e non “quegli” altri e così via. Ma, ancora una volta matematizzerà quando disporrà i bicchieri nei pensili di cucina e non nell’armadio della stanza da letto, e i vestiti nell’armadio e non negli scaffali della libreria.

Il nostro quotidiano, cioè la nostra casa, le nostre attività, il nostro posto di lavoro, il nostro tempo libero, costituiscono le “espansioni” – se si può dir così – del nostro essere, pensare, operare. Rappresentano fisicamente, oggettualmente la duplicità del nostro mondo interiore, fatto di un complesso mix di matematizzazioni e di stati emotivo-affettivi, o meglio, di operazioni logiche e di moti interni dell’io. A volte tra le due dimensioni vi è continuità, a volte no. Nel primo caso si vive una situazione di appagamento, nel secondo una situazione di sofferenza: so che devo lavorare per vivere (matematizzazione) e il lavoro che faccio mi piace (gratificazione); so che il fumo fa male (matematizzazione), ma non posso farne a meno (frustrazione).

Matematizzazione e processi comunicativi

I processi che abbiamo messo a fuoco riguardano le modalità interattive dell’uomo a livello globale, con se stesso, con gli altri da sé e con il mondo esterno degli oggetti e dei concetti. Ai fini di questo scritto occorre individuare, tra queste modalità, quelle che riguardano la comunicazione umana, quella attività che è fatta dei simboli matematici e linguistici che, faticosamente costruiti nel corso della nostra lunga storia di essere umani, vengono utilizzati nelle relazioni interpersonali, negli studi, nella ricerca, nella pubblicizzazione e nella socializzazione delle informazioni.

Anche nel mondo della comunicazione possiamo individuare i poli estremi del puro e semplice far di conto e della espressione emotivo-affettiva. Ed inoltre, anche nel caso della comunicazione esistono i far di conto della quotidianità e quelli della ricerca matematica pura; come la quotidianità delle nostre emozioni e l’elevatezza della grande produzione poetica.

Ma i due poli sono veramente mondi tra loro separati, o tra di essi esiste un’ampia terra di tutti e di nessuno, in cui sarebbe estremamente difficile sceverare in assoluto il logico dall’emozionale? In altri termini, esiste veramente una discriminante tra il far di conto e il produrre parole, tra la produzione umanistico-letteraria e quella scientifica?

Si tratta di un’annosa e mai risolta querelle. Non intendiamo affatto ripercorrerla, anche perché andremmo fuori del tema del nostro discorso. Ci preme soltanto dire che, a nostro avviso, i due mondi sono molto più vicini di quanto si pensi.

Si potrebbe ricorrere alla trita esemplificazione che i grandi come Leonardo o l’Alberti erano letterati e scienziati, che il letterato Goethe si occupò proficuamente di mineralogia, botanica, ottica; si potrebbe richiamare la ormai classica tesi di Charles Percy Snow per il quale le due culture solo apparentemente sono due. Si veda il suo The Two Cultures and a Second Look, 1959, 1963, by Cambridge University Press, ovvero Le due culture, pubblicato da Marsilio nel 2005. In effetti non esistono due culture! In effetti afferma fortemente Snow che “colmare la frattura che separa le nostre culture è una necessità sia nel senso intellettuale più astratto, sia nel senso più pratico”.

Così il nostro Croce riteneva che poesia e non poesia fossero due categorie dello spirito non continue; ma che non fosse opportuno ricorrere ad una meccanica distinzione della poesia dalla non poesia. E sappiamo anche con quanta lucidità all’inizio del secolo futuristi ed ermetici, cubisti e formalisti, avvertissero come fosse necessario che parole, colori, suoni, ritrovassero vie originali e nuove di manifestazione, in piena libertà a fronte di quelle regole che – secondo loro – una certa tradizione culturale aveva imposto alle arti comprimendone la libertà di ispirazione e di espressione.

Così, a loro avviso, la parola doveva liberarsi dalla logica grammaticale, il colore dalle forme offerte dalla natura, le note dalla disciplina del pentagramma! Da questi assunti nacquero la poesia ermetica, la pittura astratta, la musica dodecafonica! Ciascun’arte doveva ritrovare al suo interno la ragione stessa della sua esistenza, indipendentemente dal renderne conto a criteri imposti da altre discipline. Insomma: ars gratia artis, arte come fine di se stessa, come assoluto regno di libertà.

Non ci interessa in questa sede analizzare le ragioni di quella ribellione, ma segnalare soltanto l’importanza di un fenomeno che ha segnato la nostra cultura e che ha anche, indirettamente, favorito l’avvio di studi più mirati sulle possibilità dei processi produttivi della nostra mente, studi che, ovviamente, hanno trovato corpo in discipline di recente costituzione, quali la psicologia cognitiva, la psicologia dell’età evolutiva, la psicologia genetica, la linguistica, la semiologia, e così via.

Ma contributi determinanti, a nostro avviso, sono pervenuti, da un lato, dalla informatica, che dalla teoria della informazione ha dedotto quei principi della inform-azione automa-tica – l’informatica, appunto – che nell’elaboratore elettronico ha trovato la diretta applicazione tecnologica, e, dall’altro, dagli studi sul cervello che solo fino a qualche anno fa era ancora considerato una sorta di inaccessibile scatola nera.

Due mondi alternativi ma… contigui!

Questi ultimi hanno permesso l’esplorazione delle aree attive dell’emisfero destro del cervello e di quello sinistro, ritrovando – parlando per grandi approssimazioni e senza entrare nel merito, il che richiederebbe ben altri discorsi – nel primo la sede dei processi emozionali, nel secondo la sede di quelli razionali. In effetti si tratta di due mondi separati. A rigore l’uno non può comprendere l’altro: da un lato la sfera della necessità, dall’altro quella della libertà. Ed è una contraddizione che ha afflitto non pochi filosofi del passato! Resta, comunque, il fatto che con le funzioni di un emisfero possiamo smentire quelle dell’altro, e viceversa.

Ricorriamo ad alcuni esempi, forse banali, ma significativi.

Con il cervello sinistro affermiamo che due più due fa quattro, anche se con il destro possiamo pensare che fa cinque o sei o che so io! Ciò che costituisce un errore rispetto alla funzione logica, costituisce una opzione, una possibilità per la funzione non logica. Si pensi ancora a tutti i sintagmi logico-matematici, a tutte le operazioni aritmetiche semplici come il due più due, e alle operazioni complesse, di algebra e di alta matematica, il cui esito è dato, predeterminato – possiamo dire – dalla stessa sequenza sintagmatica. Le operazioni logiche non ammettono varietà: se si formula una ipotesi, la soluzione attesa è una soltanto; se l’esito è diverso, è l’ipotesi che non è corretta. Si tratta, tutto sommato, di sintagmi conclusi in se stessi. Nell’equazione x + 2 = 5, x non può che essere 3!

Ma si pensi adesso ai sintagmi che riguardano la produzione linguistica. Com’è noto, i sintagmi sono insiemi coerenti di parole che costituiscono i nuclei logici con cui e su cui costruiamo i nostri discorsi di senso compiuto. Così, nella frase “il professore svolge la lezione”, “il professore” è un sintagma, “svolge la lezione” è un altro sintagma; ma anche “la lezione” costituisce un sintagma. E la frase può proseguire con altri sintagmi: “nell’aula” “della prima A” “sui problemi” “del decadentismo”. Nella frase compiuta, alcuni termini come “professore”, “svolge”, “lezione”, “aula”, costituiscono dei referenti lessicali oggettuali, altre parole come “il”, “la”, “nella”, “sui”, non hanno un significato e servono soltanto a far procedere logicamente la frase/pensiero.

Le parole assumono un significato quando sono associate secondo dati criteri, condivisi dall’emittente e dal destinatario. Ovviamente, parole associate a caso come “sigaretta caramella” o “brutto sfogliatella” non costituiscono sintagmi né danno luogo a frasi di senso compiuto. Con la serie infinita di tutti i possibili segni del vocabolario e della enciclopedia e di tutti i possibili sintagmi noi costruiamo i nostri discorsi logici. Operiamo attente selezioni lungo l’asse orizzontale delle sequenze sintagmatiche ricercando a volta a volta sull’asse verticale dei paradigmi la parola “giusta” da mettere al posto “giusto”.

Così, sull’asse dei paradigmi nominali scegliamo “il professore” e non “il neonato” o “il cane” o “Lucio Dalla” o “i soldati”; sull’asse dei paradigmi verbali scegliamo “svolge” e non “abbaia” o “canta” o “combattono”. Le possibilità di scelta sono moltissime, a seconda di ciò che vogliamo dire o della realtà che intendiamo rappresentare. Sono moltissime, ma non infinite, se intendiamo produrre discorsi “logici”, secondo il significato che convenzionalmente attribuiamo a questo termine. Così il professore può svolgere la lezione, leggere un libro, cantare, combattere, ma non abbaiare; d’altra parte né il neonato né il cane potranno svolgere una lezione, e così via.

Ma l’interessante sta proprio nel constatare che il cervello destro può produrre infinite frasi, e discorsi, gran parte delle quali, però, vengono “censurate” dal cervello sinistro. Possiamo dire indifferentemente “Maria mangia la carne”, “Maria abbaia”, “la carne mangia Maria”, ma il cervello sinistro ammette solo la prima frase… a meno che Maria non sia il nome di una cagnetta, o la carne una certa signora Carne, dedita alla antropofagia!!!

Per farla breve, concludo con una metafora. Noi umani disponiamo di due libri: uno nella mano destra, quello della grammatica o della matematica (corrisponde al cervello destro); l’altro nella mano sinistra, il vocabolario di tutte le parole e di tutti i numeri! Attenzione! Sono libri che, appena usciamo dal grembo materno, hanno le pagine bianche! In seguito, con lo sviluppo/crescita e con l’apprendimento, cominciamo a riempirle di lettere e di numeri. Le prime parole… mamma, pappa! E quanto tempo deve passare perché il bambino possa dire: “Mamma, voglio la pappa”! E poi quando piangerà perché la mamma ha dato a lui due caramelle ed al fratello più grande tre o quattro, è un gran segnale! Non sa contare, ma il poco e il tanto sono concetti che ha appreso!

E questo che segue è il punto centrale della analisi fin qui condotta. Esiste nella produzione linguistica la possibilità di produrre frasi e discorsi che hanno un alto potere informativo, per il fatto che sono costruiti secondo una logica e una coerenza da tutti condivisa. Ma esiste anche nella produzione linguistica la possibilità di produrre frasi e discorsi che hanno un potere informativo e comunicativo più forte proprio in forza del “non rispetto” della struttura logica. Alludiamo ai linguaggi espressivi, al linguaggio metaforico.

Logica e metafora

Com’è noto, non occorre confondere la comunicazione con l’informazione. La comunicazione costituisce il campo, il contesto spaziale, possiamo dire, in cui si veicolano le informazioni. Due persone che parlano sono situate in un campo in cui sono veicolate le informazioni che si scambiano. Per informazione intendiamo la pura e semplice informazione, logicamente rigorosa e che nulla concede all’enfasi della espressività, della retorica, dei tratti paralinguistici e sovrasegmentali, tutti fattori che giocano un ruolo importante ai fini del coinvolgimento dell’interlocutore.

Va però anche detto che nel linguaggio comune a volte per comunicazione intendiamo, invece, una particolare informazione quando è caricata di tratti spuri dal punto di vista logico, ma che vogliono intenzionalmente interessare, coinvolgere, a volte anche condizionare l’interlocutore.

Si guardi a queste esemplificazioni. Un conto è che un fruttivendolo dica al mercato: “comprate le mie pesche perché sono belle e buone”; si tratta di un linguaggio altamente informativo ma scarsamente comunicativo. Altro conto è che gridi con voce sonora e accattivante: “le persiche… donne… le persicheeeee!!!”. Si tratta di un linguaggio logicamente assai traballante, ma assai coinvolgente! E il “Taja ch’è rosso” é molto più eloquente di un “Acquistate le mie angurie che sono tutte mature”. Anche il registro svolge una funzione importante, se non determinante, ai fini degli scambi comunicativi. La semplice informazione “è morto il nonno” sarà pronunciata con toni diametralmente opposti se il parlante vuole esprimere il suo dolore per la perdita di una persona cara, od esprimere la sua gioia per il favoloso patrimonio che eredita!

Si pensi anche alla ricchezza del linguaggio metaforico! Secondo la logica, posso dire che “Marco mangia” e che “un leone divora”; posso anche dire che “Marco divora”, a condizione però che sia rientrato in casa affamato. Non dirò mai che un oggetto divora; eppure la mia automobile è così veloce che “divora i chilometri”! Il linguaggio poetico – alogico e non matematizzante – ci ha abituato a soluzioni assai originali: dal “padellon del ciel la gran frittata”, come il Marino identificava la luna, ai “gruppi di silenzio” del Lamento di Ignazio, fino alle arditissime metafore degli ermetici!

E si pensi quanto e come il linguaggio pubblicitario ci stia ormai abituando ad una dilatazione continua, in chiave metaforica, delle infinite possibilità linguistiche espressive. Un messaggio dell’Alitalia diceva: “Vi voliamo bene ancora di più.” Ed ancora: “Volvo V 40. La sicurezza si diverte.” “Milano brucia”… ma… nessuno spavento! E’ la pubblicità di uno show room di una casa di moda. E chi non ricorda il “Chi vespa mangia le mele”? La pubblicità del classico “motorino” che tanta fortuna ha avuto presso i nostri rgazzi… e non! Sono tutte espressioni che fanno a pugni con la logica, ma che sono più intriganti, più allusive, più persuasive di qualsiasi linguaggio che si limitasse alla pura e semplice informazione. E che dire di un accattivante “buonaseeeeeraaaaaaaaa….” del ragazzotto incoraggiato dal fatto che la signora tradita è disposta ad uscire con il primo che incontra? Non è certo il “buonasera” frettoloso, svogliato, formalissimo, con cui ci rivolgiamo all’inquilino della porta accanto con cui tutte le sere ci imbattiamo, ma di cui non ci interessa assolutamente un bel nulla!!!

Per concludere su questo punto, possiamo fare due constatazioni.

Le operazioni di matematizzazione svolgono una funzione preziosa ai fini dei linguaggi informativi, logico-matematici e logico-linguistici; e si tratta delle operazioni che permettono lo scambio quotidiano di informazioni, che possono avere fini diversi, come ci suggerisce ampiamente la teoria degli atti linguistici. Se fissiamo un appuntamento alle otto, se dobbiamo prendere il treno alle quindici e venti, se dobbiamo girare un assegno o riscuotere una somma, o mettere benzina, o chiedere dove si trova una via, non ci sarà molto spazio al di là del matematizzare. Il parlar metaforico ci servirebbe a poco.

Se, invece, siamo impegnati in un corteggiamento, o dobbiamo convincere qualcuno a far qualcosa per noi, è il matematizzare che serve a poco. Non diremo mai alla corteggiata che siamo un poco di buono o che siamo disoccupati. E, se debbo vendere la mia vecchia automobile, dirò che è perfetta, che non consuma nulla, che chi la compra fa un grande affare!

Però – e questa è la cosa meravigliosa – due attività così lontane l’una dall’altra, se non estranee, vengono prodotte ora separatamente, ora unitariamente, con continuità e contiguità, dalla stessa “macchina” cervello, che è poi quella macchina che ha permesso all’uomo di signoreggiare sulla natura, di riflettere sui suoi atti e su se stesso, di scegliere, volere, decidere in quella dimensione di libertà che nessun altro vivente possiede.

Insomma, questi due mondi, la cui convivenza appare agli studiosi una realtà pressoché impossibile per la contraddizione che la caratterizza, invece coesistono nel nostro cervello in una perfetta continuità. E contiguità! Come è possibile questo? Pare che la funzione di raccordo e di interazione reciproca tra i due emisferi sia svolta da quel corpo calloso che, allora, non si limiterebbe a essere soltanto quella struttura fisica che funge, tra loro, da sostegno e da ponte.

Informatica e linguaggi

E concludiamo con il discorso sulla informatica e sul computer. Che cosa hanno comportato questa nuova scienza e questo nuovo strumento nella nostra vita quotidiana, negli studi sulla lingua, nella applicazione nella ricerca e nella didattica?

Possiamo dire che il computer imita, replica e potenzia le operazioni logico-matematiche del cervello sinistro. Per il computer due più due fa quattro e altre soluzioni non può né produrle né immaginarle, costituiscono un error e basta! Però, è in grado di risolvere operazioni aritmetiche che implicano più numeri e cifre in frazioni di secondo, laddove noi, con carta e matita e con i criteri operativi che conosciamo impiegheremmo ore, se non giornate ed anni interi! Si dice che il computer è stupido perché non è capace di intuizioni, di passaggi analogici, nei quali invece il nostro cervello destro è maestro. Se chiediamo al computer “sai dirmi l’ora?”, mi risponderà “sì”, laddove, invece, ciascuno di noi, cogliendo il significato implicito della domanda, risponderà informandoci sull’ora del suo orologio. Il computer non conosce l’implicito, il sottinteso, il significato aggiunto, la connotazione, il registro, l’analogia; sa indurre e dedurre in ordine a passaggi logici, ma non sa compiere inferenze, che invece sono tipiche e fondamentali del nostro “operare” quotidiano. Si limita ad eseguire, passo dopo passo, processi, anzi procedure rigidamente gerarchizzate; infatti, il processo è più ricco e più vario rispetto ad una procedura! La procedura obbedisce a un programma pre-disposto, il processo implica percorsi che vanno anche al di là del progettato e del programmato.

Il computer vincerà sempre agli scacchi perché, laddove l’avversario uomo deve formulare il più gran numero di ipotesi possibili circa le mosse da compiere e le contromosse da evitare, magari non riuscendo a ipotizzare e formulare quella vincente, il giocatore computer le formula tutte ed in tempi rapidissimi.

Si suole dire che il computer – come tutte le macchine della narrativa fantascientifica – è incapace di emozioni. Il fatto è che mentre dei processi logici e delle attività di matematizzazione sappiamo ormai tutto per il determinismo che li caratterizza e li sostanzia – ed è per questo che siamo stati capaci di costruire i nostri replicanti elettronici – invece dei processi emozionali sappiamo poco e nulla, forse proprio perché, essendo la parte profonda della identità della nostra persona e della nostra specie, riesce estremamente difficile rappresentarla, oggettivarla, ricostruirla.

L’essere umano possiede l’immenso mondo della intuizione, del sentimento, del presentimento, del ricordo, della rimozione e dell’oblio; egli è capace di sperare e di credere, di immaginare e di sognare, di creare altri mondi frutto della fantasia, è capace di creare ordini morali ed estetici, valori e disvalori. Possiede questo immenso mondo, ma non è detto che sappia anche governarlo, anzi spesso ne è governato o ne è travolto. E si tratta pur sempre di intenzioni e di atti del cervello destro, che poi a loro volta portano a manifestazioni linguistiche altamente sofisticate e complesse, in cui le stesse regole della grammatica e le convenzioni lessicali sono costantemente ripercorse e rivisitate, modificate e arricchite, in senso diacronico e sincronico (per dirla con i linguisti) con il trascorrere del tempo ed il variare dei contesti ambientali.

Il computer è del tutto impotente in ordine a questa fenomenologia. Sa solo “giocare” con il caso e con la probabilità, sa indicarti delle soluzioni solo nella misura in cui sai inserire certi dati: a dati diversi, soluzione diversa! Ti aiuta laddove l’elaborazione dei dati richiederebbe tempo, fatica ed ampi margini di errore!

Il computer è quindi una macchina estremamente limitata. Ciò non significa che non sia utile ai fini dell’apprendimento logico, logico-matematico e logico-linguistico. Ci aiuta, cioè, in tutti quei processi in cui apprendiamo a matematizzare, e matematizziamo quando facciamo calcoli e quando produciamo linguaggi informativi. Ci correggerà se scriviamo la parola “gomittolo” o la parola “scharpa”, ma non aiuterà il poeta a scrivere “gomitoli di fumo” o il pubblicitario a scrivere “la scarpa che respira”, perché le associazioni gomitolo-fumo o scarpa-respirazione implicano associazioni, passaggi e salti analogici che il computer, tutto digitale, è incapace di compiere.

Ovviamente, farà anche qualcosa di più rispetto a ciò che chi scrive con carta e penna in genere non percepisce sempre con la dovuta chiarezza, e, quindi, non apprende: cioè ci evita di procedere per brutte e belle copie in quanto ci rende possibile un continuum tra scrittura provvisoria e definitiva, ci aiuta nella divisione sillabica, ci dà la dimensione del periodo, del paragrafo, dell’impaginato, soccorrendoci con tutte le funzioni del work processor. Si tratta di un potente valore aggiunto rispetto alla scrittura carta-penna, sul quale valore la didattica della lingua ha già prodotto cose assai interessanti.

Il computer facilita e potenzia l’acquisizione della competenza produttiva logico-linguistica, quella della matematizzazione e del panletto (è il linguaggio che identifica e accomuna un gruppo sociale in genere ampio, è il linguaggio standard); ma è praticamente ininfluente a fronte della competenza produttiva linguistica espressiva e creativa. La poesia, il racconto, la riflessione originale in idioletto (lo stile che individua e identifica il linguaggio di una persona) nascono dalle vie analogiche della nostra competenza comunicativa, ed in tal caso il computer è un semplice strumento, come può essere la matita o la penna.

Dal punto di vista didattico, com’è noto negli ultimi anni si è andati ben oltre al tema e al riassunto e si sono ritagliate dal linguaggio comune – e conseguentemente adattate per lo sviluppo della competenza linguistica nel parlante allievo – le migliaia di occasioni della concreta produzione linguistica, dalla relazione al diario, dal verbale agli appunti, dalla annotazione alla riflessione, dall’avviso alla recensione, dalla locandina al manifesto, dal telegramma al biglietto, dalla scheda alla lettera, fino a tutte le tipologie del far poesia, raccontare, drammatizzare, e così via.

Ebbene, un insegnante preparato sa come accedere alla diversa strumentazione, cartacea ed elettronica, testuale ed ipertestuale, con tutti gli apporti che ci sono oggi dati dai cosiddetti testi misti (parola, immagine, suono) e dai linguaggi non verbali; sa come avviare gli allievi secondo strategie per le quali l’apprendimento linguistico procede di pari passo con l’ampliamento delle capacità di matematizzazione e di espressione comunicativa attivate in ordine alle diverse situazioni di vita reali dei discenti.

Si tratta di un insegnare/apprendere che tanto più è efficace quanto più riesce a far vivere agli allievi e agli stessi insegnanti situazioni che siano le meno “scolastiche” possibili! Ed è poi la scommessa che ci vede tutti impegnati nella costruzione di una scuola che sia veramente più che a tempo pieno e a spazio aperto!R