Asili L’Italia a due velocità al Sud pochi posti ai nidi orari ridotti e rette record

da la Repubblica

Corrado Zunino

ROMA

A Cosenza, la città meno povera della povera Calabria, le rette degli asili comunali in dodici anni sono aumentate del 148,2 per cento. La lista d’attesa è arrivata al 71 per cento. Sette bimbi su dieci attendono il turno per entrare al nido, sempre più caro. Agrigento, provincia d’Italia con il più basso prodotto interno lordo per abitante, ha visto la retta mensile passare da 100 a 180 euro. Il nido pubblico a Benevento, con un aumento medio da 300 euro a 350, oggi costa più che a La Spezia, decisamente più che a Bologna e quasi il doppio che a Ravenna. Nel 97 per cento delle strutture meridionali, spiega Cittadinanzattiva che dal 2006 offre un report annuale sul tema, l’asilo resta aperto sei ore e offre solo il pranzo. Quattro nidi ogni dieci del Centro-Nord, invece, prevedono pannolini e saponette in tariffa. E coprono nove ore il giorno. In questo quadro di “offerta variante per macroregione” colpisce che nel Meridione i costi salgano, nel Settentrione abbiano iniziato a scendere. Bologna ha tagliato le rette di un sesto nell’ultimo anno, Ferrara di un quinto.

Gli aiuti nelle città del Nord

Lo specchio delle tariffe Nord-Sud riflette le scelte, per esempio, dei comuni di Lecco e Sondrio, città più costose della Lombardia: negli ultimi anni entrambe hanno attivato il “bimbi gratis”, rimborso totale per i meno abbienti. La Regione Friuli Venezia Giulia partecipa alla spesa nido delle famiglie e il governatore Chiamparino ha appena introdotto un bonus in Piemonte.

Nel Sud? Crescono i costi e diminuiscono i posti disponibili.

In Campania vanno all’asilo sei bimbi su cento, in Valle d’Aosta quattro su dieci. In dodici anni Campania e Puglia hanno fatto registrare miglioramenti minimi, Sicilia e Calabria ulteriori arretramenti. In quest’ultima regione solo sette Comuni su cento oggi possono offrire il servizio 0-3 anni: erano diciotto (su cento) nel 2010. In Calabria tre quarti dei nidi sono privati, l’esatto contrario della provincia di Trento. La storia degli specchi.

L’unica struttura di Reggio — cinquemila bambini in attesa — ha aperto nel settembre 2015 ed è aziendale. A Catanzaro c’è un solo nido comunale. A Cosenza tre, dati in gestione a cooperative. I municipi che hanno rinunciato ad occuparsi dell’infanzia sono quelli in dissesto che, secondo la Corte costituzionale, non possono più spalmare il debito su trent’anni. La Regione Calabria, spiega l’assessora al Welfare, Angela Robbe, sta provando a lavorare sull’asilo domiciliare di tradizione trentina, le Tagesmutter: le maestre qui sono mamme che possono offrire una casa larga, con spazi per i riposini, e una formazione da puericultrici. In Calabria sembra più disperazione che strategia.

Il confronto tra i posti pubblici disponibili e il numero di figli tra zero e tre anni dice che in Italia la copertura del servizio è del 6,5 per cento. Bassina. In Emilia Romagna, però, è al 15,2 e in Calabria allo 0,9. A Caserta, Campania, crolla allo 0,2. Solo due bambini ogni mille messi al mondo hanno il posto assicurato in un asilo pubblico. Solo il 19 cento dei nidi comunali, d’altronde, è al Sud.

Il Piano Marshall di Salvini

Il governo in carica, uscito dalla bolla medievale di Verona con il mantra “fate figli”, è entrato nel prossimo Documento di economia e finanza con due nuove promesse, al solito divergenti. Sull’infanzia il vicepremier — con delega a tutto — Matteo Salvini ha annunciato un Piano Marshall: «Mille nuovi nidi a costo zero per lo Stato». Alla vigilia delle Europee ha ripescato la proposta di legge leghista depositata alla Camera: un contributo statale per convertire in asili gli immobili pubblici inutilizzati. Saranno concessi gratuitamente ai privati che, magnanimi, s’impegneranno a garantire rette sociali. Il vicepremier Luigi Di Maio ha risposto con il modello francese: abbattimenti del 50 per cento sulle rette per primo, secondo, terzo figlio e sulle spese per le baby sitter. Il premier Renzi nel 2014 aveva promesso a sua volta “Mille nidi in mille giorni”. «Li stiamo aspettando», dice Laura Branca, presidente dell’Associazione BolognaNidi.

«Nei tre anni, in verità, abbiamo osservato strutture cedute in subappalto e altre aperte al Sud con i soldi pubblici e dismesse terminati i finanziamenti». Il passaggio degli asili alla gestione “coop” significa stipendi più bassi e a volte in nero per i maestri, rotazione continua degli educatori, disorientamento dei babies. Nell’anno scolastico in corso, a proposito della bontà del servizio, i posti garantiti dagli asili privati-convenzionati hanno superato quelli pubblici.

Diminuiscono nascite e posti

Per ora tutti gli studi (Istat, ministero dell’Interno, Senato, Openpolis) inchiodano la politica e le mamme a dati sconfortanti, ispiratori di denatalità. Il costo mensile di un asilo comunale italiano è pari a 311 euro: un quinto del reddito familiare.

Sempre più genitori, in conseguenza, non accompagnano il bimbo al nido anche se c’è disponibilità: il 13 per cento dei posti liberi non viene coperto e diverse strutture chiudono.

I bambini in età da nido oggi non raggiungono il milione e mezzo.

Per effetto delle minori nascite i posti a disposizione sono saliti fino al 2016, poi il dato è nuovamente peggiorato. Meno bambini e anche meno sedie.

Tiziana Toto, responsabile tariffe di Cittadinanzattiva: «Le famiglie faticano a sostenere i costi delle rette, i Comuni a sostenere le spese di gestione».

Dal Prodi bis alla Buona scuola quattro leggi hanno normato la pre-scuola trasferendo alle strutture 10 miliardi e 222 milioni in dieci anni. Un miliardo e 150 milioni sono stati erogati dallo Stato e assorbiti in gran parte da Campania, Calabria, Puglia e Sicilia senza un contributo alla qualità della vita di mamme e figli del territorio. Otto miliardi e quattro sono arrivati dai Comuni.

Il primo Piano straordinario nazionale ha portato 55mila ingressi in più, con una leggera spinta anche alle Regioni sofferenti. Dal 2011, però, finiti i soldi pubblici, i numeri sono tornati a scendere. Il Consiglio europeo, tenuto a Barcellona nel 2002, chiedeva una copertura per Paese del 33 per cento entro il 2010. Sopra questa soglia, oggi, ci sono solo quattro Regioni italiane: Valle d’Aosta, Emilia, Umbria e, di recente, la Toscana. Più la Provincia autonoma di Trento. Il resto del Centro-Nord ha percentuali vicine al traguardo, il Sud non è mai partito. Per toccare quota “33” servirebbe raddoppiare il numero dei bambini accolti investendo 2,7 miliardi l’anno. Il Def pentaleghista non li prevede.

L’Ispettorato del lavoro racconta qual è, alla fine, il risultato dell’insieme di austerità e denaro buttato fin qui rappresentato: 30.700 madri italiane, in difficoltà a conciliare famiglia e mestiere, nel 2017 hanno lasciato il mestiere. Motivi? La mancanza di un nido di prossimità, la presenza di un nido troppo caro.