Primo maggio

Primo maggio

di Vincenzo Andraous

Festa del lavoro, festa dei lavoratori, festa in piazza, festa di chi fatica, suda, arranca, inciampa, fa salite e poche discese. Chissà perché la chiamano festa, quando dovrebbe esser giornata dedicata alle memorie corte, ai riassunti corti, alle sintesi di facciata ancora più assottigliate. Festa di che, di che cosa, di chi, quando i lavoratori sono sempre meno e spremuti come limoni, quando muoiono giovani e disperati, quando rimangono stesi o affogati con gli occhi spalancati. Festa del lavoro che non c’è, e quando ve ne fosse è lavoro di rincalzo, di sgambetti e spintoni, lavoro di orario che non c’è, lavoro di seconda mano, lavoro rassegnato all’esistente iniquo, con gli anni che passano, testimoni di un tempo dove gli uomini per mangiare rispondono a chiamata.

Festa del lavoro, Primo maggio, le righe non stanno mai ferme, gli accenti rimbalzano, le virgole esplodono mentre la punteggiatura trattiene il respiro, allora sono le pause a marcare il passo, a dare uno spazio all’esperienza, attraverso l’accoglienza e l’accompagnamento delle parole.

Uno ripensa alla propria strada, quella che ha lasciato, l’altra che ha trovato, quell’altra che non ha saputo bene interpretare, eppure oggi è festa, è celebrazione di emozioni che hanno dato senso ai passi di ognuno e di ciascuno. Tutti sanno cos’è il Primo maggio di ogni anno, tutti conoscono la festa del lavoro, tutti nessuno escluso è finalmente festeggiato. Ma ogni volta questa ricorrenza rammenta le pagine di un libro,  come una voce che viene da lontano, dapprima incomprensibile, indecifrabile, pian piano diventa nota che sale per resistere ai piani inclinati della vita, e come la storia di ognuno, continua su una pagina nuova, scritta ora, letta ieri, appoggiata nella polvere, nel colore sbiadito, al tempo che non muore mai.

E’ festa dei lavoratori, quand’anche il libro degli assenti, dei feriti, dei malconci e dei divenuti diseredati, hanno riempito le pagine, le zone d’ombra, pure quelle che sfuggono, che stanno lontane, ma hanno desiderio di rivelarsi, di mostrarsi, anche quando il bilancio è chiaramente in rosso, e non è facile distaccarsi dal passato, dal presente, dal suo peso, consapevoli che il futuro non è più nelle nostre mani.

Festa delle braccia, delle mani, dei corpi e delle menti, festa di chi non lavora, di chi lavora sfruttato e sottomesso, lavoratori dalla pelle scura, bianca, nell’angolo più buio della privazione, della paura, dei ricatti e dei soprusi, è tutta carnagione da festeggiare.

E’ festa che assomiglia nuovamente a quelle pagine bianche di quel libro, non è solo carta, inchiostro, segni, è anche strumento di conto, è somma, detrazione, dove le certezze, i superlativi degli assoluti, sono pandemia del dubbio, persino quando si ha bisogno di credere a Dio nel domani negato.

Quante storie sono rimaste appese a un filo di voce, quanti fremiti incorniciati a una lacrima, i libri sono come le persone, bisogna trattarne bene le angolature, le spigolature, le assenze e le presenze, hanno storie e mondi a cui appartengono, posseggono anima, come gli uomini che vi sono elencati,  che soffrono, amano, mantengono l’umanità a immagine e somiglianza di quello scrittore sgangherato, così bravo da diventare architetto non solo della parola, ma della vita che abbiamo il dovere di vivere.

I libri hanno la voce di chi è stato costretto per secoli a tacere,  a rimandare, anche a mentire, sono pane e acqua, sono ciò che manca per avere un sogno per chi non ne ha, perché gli sono stati ripetutamente rubati, peggio, rapinati dalle promesse mai mantenute.

Una festa del lavoro dopo l’altra, una pagina dietro l’altra, sopra l’altra, per comprendere cosa siamo stati capaci di fare, quanto sappiamo combattere per onorare una responsabilità, quanto siamo coscienti delle idee e delle parole che fanno amore, passione, sacrificio.