La realtà scolastica di oggi

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La realtà scolastica di oggi: un vagare senza meta o una riforma epocale?

di Stefano Stefanel

La scuola italiana in questa tarda primavera del  2019 assiste con alterna attenzione ad una serie di annunci, provvedimenti, dichiarazioni, richieste, proposte che vanno ad ingrossare le fila dei mutamenti nell’ambito di processi restauratori o riformatori che a volte si fermano alle dichiarazioni, a volte entrano in leggi o decreti, a volte alimentano dibattiti che poi finiscono non si sa dove. La domanda che mi pongo qui pubblicamente è se siamo di fronte ad un vagare senza meta o ad una riforma epocale del sistema dell’istruzione italiano fatta non attraverso una riforma organica, che – come le precedenti – sarebbe preda di contestazioni feroci e di cambiamenti in corsa col fine dichiarato di snaturarla, ma fatta attraverso una miriade di micro interventi tesi a modificare in forma consistente l’esistente. Pertanto porterò l’attenzione su alcuni elementi noti a tutti coloro che lavorano nella scuola e che possono essere analizzati attraverso una visione d’insieme da decodificare, oppure uno alla volta anche al fine di evitare l’apparente vagare senza meta. Decida dunque il lettore se il breve elenco commentato che riporto di seguito ha un senso d’insieme (e un senso comune) o se è proprio un segnale che il sistema è impazzito e cerca la sua linea d’insieme attaccando più o meno a caso punti spesso non collegati tra loro.

            RILEVAZIONI BIOMETRICHE SULLA PRESENZA DEI DIRIGENTI SCOLASTICI. Alla base della “crociata” del Ministro Bongiorno contro i dirigenti scolastici (chiamerei almeno qui le cose con il loro nome) esiste una visione della professione che va nella direzione opposta a quella in cui la professione si è sviluppata. Il sistema delle reggenze, le esigenze delle classi e dei plessi, la presenza sociale del dirigente scolastico, il rapporto con il territorio, il fitto reticolo di impegni, rapporti e presenze del dirigente scolastico propongono una figura dirigenziale fortemente attenta al presidio dell’area o delle aree di pertinenza, mentre il provvedimento sulle rilevazioni biometriche si colloca sul versante del lavoro d’ufficio. Il ministro Bongiorno rassicura quotidianamente sul fatto che non si tratta di un sistema di controllo, ma solo di una rilevazione della presenza anche a tutela del dirigente, nell’ambito di un’azione trasparente della pubblica amministrazione. Poiché prendo per buone le intenzioni del ministro Bongiorno (nessun controllo, ma “crociata” certa) vedo in questo provvedimento anche il tentativo di modificare la professione per via “biometrica”. Sapendo di essere controllato il dirigente uscirà meno possibile dal suo ufficio: diciamo che è un’idea molto ministeriale di dirigenza quella che ne viene fuori, perché dal proprio ufficio si possono coordinare anche tre-quattro istituti emanando provvedimenti e presidiando procedimenti, senza aver bisogno di scendere sul campo o di stabilire contatti umani. L’idea che sta alla base sia del provvedimento, sia delle spiegazioni date dal Ministro è quella di una dirigenza senza faccia, che non ha bisogno del rapporto umano, perché dirige tutto da un ufficio. D’altronde il dirigente scolastico è un funzionario, non un insegnante o un politico eletto. Gli unici che hanno bisogno dei bagni di folla sono i politici eletti, gli unici che hanno bisogno di un contatto diretto con i propri studenti sono gli insegnanti. Quindi questi controlli non potranno incidere su una professione che è senza orari, ma incideranno sui comportamenti di chi ancora intende esercitare una leadership pedagogica che non potrà avere riscontri biometrici. Il provvedimento in sé non attesterà il tempo di permanenza in servizio, ma il tempo di permanenza dentro il proprio campo biometrico, diminuendo le funzioni di controllo sul sistema pedagogico e aumentando il controllo sul sistema burocratico.

            TELEFACAMERE NELLE SCUOLE DELL’INFANZIA E NELLE SCUOLE. I reality sono entrati nel nostro “sistema simpatico” e stanno alla base di alcune idee che hanno circolato tra alcune forze di governo. La base scientifica del reality è molto banale: metto una telecamera per vedere tutto quello che succede e che fai. Quando andiamo in banca sappiamo di essere in un reality, penso di esserlo anche in qualche supermercato, mentre dove vedo gli addetti alla sicurezza penso si non essere in un reality perché c’è la sentinella al posto della telecamera (ma magari non è così). Davanti alle telecamere ognuno di noi trasforma i suoi comportamenti, il suo modo di essere, le sue azioni e le sue reazioni. Personalmente ho qualche difficoltà a partecipare a trasmissioni televisive locali (la mia celebrità non va più in là) perché soffro luci e telecamere (non capisco mai dove sono), ma mi faccio forza. Però tendo ad avere un comportamento diverso da quello che ho quando parlo in pubblico anche davanti ad uditori ampi. Anche in questo caso vedo il tentativo di spostare il comportamento degli insegnanti verso un’idea di scuola controllata, a fin di bene, ma controllata. La scuola sotto il controllo delle telecamere è una scuola più fredda, meno empatica, meno partecipata come già avviene all’università. Se tutti dobbiamo essere sempre sotto controllo vuol dire che il comportamento che avevamo quando non lo eravamo non andava bene, andava emendato. Si sa che le immagini una volta acquisite possono anche non sparire e sappiamo che il montaggio è spesso in grado di alterare il senso dell’azione compiuta. Tutto questo dunque tutela un’idea di scuola fredda e trasmissiva, in cui l’unica certezza di non fare cose esecrabili è quello di impartire nozioni corrette dentro un contesto freddo e non alterabile da sentimenti o partecipazioni, se non decise a tavolino. L’idea è quella della scuola come set, che quando vuole trasgredire deve compilare prima una scheda di autorizzazione alla trasgressione, perché una trasgressione in diretta può alterare il televoto. Tutta questa visione da reality fa il paio con l’eliminazione per via normativa delle note disciplinari nelle scuole primarie, procedura che credo nessuna scuola segua più da decenni. Anche qui c’è una visione molto statica della scuola e l’idea che si agisca disciplinarmente su alunni molto piccoli con le note scritte: poiché non è così, il messaggio lanciato dal provvedimento non è per i docenti, ma per gli utenti che devono venir convinti che una prassi assurda viene eliminata, anche se non praticata da alcuno. L’effetto annuncio prevale sulla realtà del provvedimento che è pressoché nulla.

            ALTERNANZA SCUOLA LAVORO: L’IMPORTANZA DEL NOME. Il cambio del nome dei percorsi per gli studenti del triennio superiore da Alternanza scuola lavoro a Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento e la diminuzione delle ore obbligatorie rientrano in una visione cattedratica della scuola. Togliendo il concetto di lavoro dal nome (e lasciando l’aggancio col lavoro solo nei termini tirocinio o apprendistato propri di altri percorsi secondari) si entra in quel terreno proprio dell’idea per cui si superano i problemi dovuti alla mancanza di lavoro con un’idea assistenziale a cui la scuola non deve essere estranea. L’idea di base è che essere a scuola vuol dire studiare, con un dirigente che sta nell’ufficio a far funzionare le carte e a gestire i soldi e con insegnanti ripresi da telecamere che quindi hanno il vantaggio di poter fare delle dotte lezioni frontali. In questa idea di scuola è necessario avere un buon orientamento, ma non necessariamente un rapporto organico col mondo del lavoro. Diminuiscono cioè le opportunità di uscire dalle aule anche perché solo nelle aule ci posso mettere le telecamere, che testimoniano come il sapere e la cultura vengano trasmessi e basta stare sintonizzati per apprenderli. Le esperienze esterne servono, ma in forma molto moderata.

            L’ESAME DI STATO. L’esame di stato è l’ulteriore esempio di come si sta intervenendo su parti del sistema e che la visione d’insieme deve essere trovata con analisi ermeneutiche. La pluridisciplinarietà viene connessa  con l’esclusione della traccia d’italiano che ha connessioni con l’arte. Alternanza scuola lavoro (o meglio Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento) e Cittadinanza e Costituzione diventano parte dell’esame insieme ad un colloquio che non vuol essere nozionistico. E tutto questo modifica l’esame di stato in corso d’anno, mettendo tutti gli interessati in situazioni abbastanza critiche. Se da un lato alcuni provvedimenti tendono a riportare tutto alla lezione frontale, altri sembrerebbero indicare una maggiore coesione tra la pratica scolastica e i compiti di realtà. Sembra proprio che qui stiamo vagando a caso. Io credo invece esista una forte preoccupazione che il nozionismo trasmissivo serva sì a controllare il sistema e le sue eccessive dosi di empatia, ma non possa far credere a nessuno (se non forze all’ex insegnante Paola Mastrocola o al professore universitario Ernesto Galli della Loggia) che così si possano fronteggiare la crisi del sapere, le esigenze della società della conoscenza, le fake news, le sfide internazionali o le rilevazioni Invalsi o Ocse-Pisa. Anche l’eliminazione dei crediti formativi con la permanenza del solo credito scolastico in cui eventualmente far confluire quello formativo mostra la tendenza ad avere paura della realtà e delle sue opportunità, senza sapere al tempo stesso come fare a gestire un mondo che cambia. Non avendo una chiara idea di futuro si scarica tutto sul sistema, tra aperture e controlli.

            IL DISEGNO DI LEGGE PROPOSTO DALLA SENATRICE GRANATO. Se il Ministro Bongiorno attacca i dirigenti scolastici ma assicura che non ha alcuna intenzione di farlo, la senatrice Bianca Laura Granato dichiara a chiare lettere che le sue proposte servono a fermare gli arbitri o abusi compiuti dai dirigenti scoalstici. Nei documenti parlamentari ci sono più d’una affermazione della senatrice fortemente lesivi della professionalità dei dirigenti scolastici. Se però noi abbiamo a che fare con un dirigente scolastico che sta chiuso nel suo ufficio monitorato biometricamente che senso ha che lo stesso non assegni i docenti alle classi come vogliono i docenti e che non emani l’orario che vogliono i docenti? Che motivo hanno i suoi interventi, se il suo lavoro deve trasformarsi nel controllo burocratico delle procedure? A quel punto al dirigente scolastico resta la sola leva disciplinare: se applicabile la si applica, sennò quello che viene auto deciso dai docenti non può essere toccato. Personalmente avrei trovato più semplice levare la competenza del dirigente scolastico dall’assegnazione dei docenti alle classi e dalla formulazione dell’orario didattico, ma così facendo veniva meno la sua responsabilità unitaria sull’istituzione scolastica assegnata. Quindi si vuole introdurre un farraginoso sistema di controllo ulteriore che pone in capo ad un nuovo soggetto, che nasce all’interno dell’Ufficio Scolastico Regionale, poteri a questo punto superiore a quelli del dirigente scolastico, senza che questo modifichi responsabilità e prerogative del dirigente stesso. Anche in questo caso si rimanda all’idea di un dirigente che faccia tante cose, ma non il leader pedagogico perché deve passare il tempo ad occuparsi solo di procedure: se queste sono fatte correttamente il provvedimento non potrà che trovare conferma dal nuovo organismo nato dentro l’USR. Se, invece, non sono state fatte a (burocratica) regola d’arte si eviteranno contenziosi giurisdizionali e si metteranno le cose a posto. In tutto questo non c’è alcuna idea pedagogica e non si affronta il problema degli insegnanti che invece non andrebbero assegnati a nessuna classe perché non sanno insegnare.

            LA SANATORIA COME INDIRIZZO. L’intesa tra sindacati e Miur sul concorso riservato e semplificato per docenti con almeno 36 mesi di servizio precario entra invece nella logica che vuole come priva di senso l’idea contenuta nella legge 107/2015 che alla base della professione ci debba essere una consistente formazione prima dell’ingresso e un forte tirocinio controllato. La sanatoria approvata con grande soddisfazione da tutti stabilizza ulteriore precariato individuando nell’esperienza maturata l’unico requisito preventivo all’ingresso in ruolo. Siamo di fronte all’idea che formarsi serva poco o nulla e che alla base della professione ci siano solo stabilità e stipendio. Inoltre si fa sapere che non ci sono vie privilegiate d’accesso per i giovani, che dovranno invecchiare di supplenze prima di essere stabilizzati. In questo modo si manda un messaggio molto chiaro: per insegnare basta essere laureati in qualche disciplina, tutto il resto è un’aggiunta non essenziale. Torna anche qui un’idea di trasmissione cattedratica e passiva di saperi assoluti, poco al passo con i tempi, ma molto al passo con un’idea non selettiva e meritocratica del personale docente. Immettere personale nella scuola dopo molta formazione significa condizionare il personale dentro una visione comune di scuola; lasciare che i singoli entrino per esperienze lavorative significa solo che più docenti vanno in pensione più precari assumiamo. Non importa che cosa sappiano fare, perché che sanno fare qualcosa lo hanno già dimostrato negli almeno 36 mesi di precariato. Non c’è una visione premiante il lavoro in tutto questo, ma un’idea che garantisca il lavoratore in quanto tale, non in quanto portatore di competenze utili al sistema.

            L’EDUCAZIONE CIVICA. Il ritorno dell’Educazione Civica senza mandare in pensione Cittadinanza e Costituzione non mostra con chiarezza che cosa si intende perseguire. La trasversalità  è un’idea molto corretta di visione d’insieme, ma dovrebbe incidere più a livello di comportamenti che di teoria. Anche in questo caso l’idea di base non è cattedratico trasmissiva, ma l’impressione è che si vogliano inserire nel sistema troppe cose senza variare l’architettura generale. Tra l’altro questa re-introduzione dell’Educazione civica passa attraverso una sottovalutazione di quanto avvenuto dopo l’ingresso di Cittadinanza e Costituzione nella scuola. Una lettura dei PTOF delle scuole potrebbe facilmente far vedere quanto lavoro di educazione civica viene fatto nelle scuole. L’introduzione di questa disciplina trasversale è in sé molto positiva, ma rientra comunque nella logica che aggiunge e non sceglie. In questi giorni circola una petizione per aumentare la presenza della filosofia nella scuola italiana (con un aumento delle ore e quindi delle cattedre), qualche tempo fa girava la petizione a favore della Storia dell’Arte espulsa dalle tracce dell’italiano all’esame. Si sono lette petizioni per la geografia, il diritto, le lingue, eccetera.  L’idea che sta alla base di tutto questo (e temo anche dell’Educazione Civica) è la richiesta di aumento delle ore e del tempo scuola, anche se in Italia ne facciamo già tantissima più degli altri. Tutto questo sembra rientrare nel problema sollevato da Edgar Morin ormai molti anni fa: bisognerebbe puntare alle teste ben fatte, mentre si punta alle teste ben piene. Questa idea di aggiungere ore e non togliere mai nulla è un’idea che vede un sapere trasmesso solo se “in orario”. Questa mentalità è dunque contraria rispetto al richiamo pluridisciplinare, perché dentro questa logica aggiuntiva o una disciplina è in orario o non esiste. In un mondo pluri, multi e trans culturale questo accanimento a favore delle discipline che vogliono più ore nel sistema (senza mai dire cosa togliere) mostra un’idea di cultura connessa all’obbligo e non alla scelta. Se si riducono i quadri orari obbligatori e si aumentano le possibilità opzionali delle scuole ci si inserisce in una logica europea, ma l’idea che sta invece alla base delle petizioni per aggiungere ore o discipline e del ministero che solo aggiunge è quella di aumentare non di far scegliere. Tutto dentro una logica di un sapere che comunque va trasmesso al di là degli apprendimenti degli studenti.

E VENIAMO AL GREMBIULE. Il Ministro degli Interni Salvini è a favore della re-introduzione del grembiule nel primo ciclo. Ci sono scuole in cui i bambini usano ancora oggi il grembiule e scuole in cui i bambini non lo usano nell’ambito di un completo e spesso complesso  discorso sull’autonomia didattica. L’obbligatorietà invece riporta ad un’idea di scuola in cui la trasmissione avviene per gradi logici: il dirigente sta in ufficio, l’insegnante sta in classe, la realtà sta fuori, i vestiti dentro non coincidono con i vestiti fuori. Diciamo che è un segnale abbastanza chiaro che la scuola debba occupare del tempo, ma non preparare al mondo, quasi che il rapporto con la realtà e con il lavoro siano un problema e non un’opportunità. D’altronde non c’è niente di più ostacolante alla crescita che trattare i diversi come uguali, come ebbe modo di osservare don Milani un po’ di tempo fa. Se la società è caotica bisogna preservare uno spazio di ordine, che sia meno autonomo possibile, ma che al tempo stesso costituisca un elemento facilmente riconoscibile di luogo dell’insegnamento in cui è possibile apprendere.

E DA ULTIMI I PON. Ho avuto la fortuna di ospitare, in un seminario organizzato dal Liceo che dirigo a Udine il 16 aprile scorso, una nutrita e competente componente dell’Autorità di gestione dei PON (ben quattro ottimi relatori). I PON dovrebbero riequilibrare alcuni squilibri del nostro sistema scolastico costruendo attività fortemente migliorative ed orientanti. Dovrebbero cioè per equilibrare le disfunzioni, non trattando i diversi da uguali. L’Autorità di gestione ha spiegato che la loro politica è quella di non restituire nulla a Bruxelles e quindi di far partire tutti i PON possibili. L’eccesso di controlli e di burocrazia nasce dai controlli e dalla burocrazia che l’Unione Europea fa sull’Autorità di gestione italiana e che poi ricade sulla scuola. Ma l’idea è quella di spingere alla realizzazione e fare in modo che tutto funzioni al meglio. Quello che stupisce è che ci sia un’attenzione spasmodica alle procedure e alla burocrazia, ma non ai contenuti e all’esito delle attività. L’attenzione è sulle procedure (che un dirigente controllato biometricamente potrà presidiar ancora meglio), non sugli esiti e sul miglioramento obiettivo grazie a questa grande iniezione di fondi e progettualità. Inoltre le scuole non sono tutte uguali e i Fondi PON alla fine saranno spesi dalle scuole più forti e attrezzate lasciando quelle deboli e con segreterie in difficoltà senza progetti (e direi che questo è l’inverso del senso dell’idea del finanziamento europeo). Anche in questo caso troppo palese è il disinteresse del Miur per un armonico inserimento dei PON nei PTOF, mentre permane l’idea dell’ampliamento del tempo scuola che ormai supera il limite della capienza e che spesso rende impossibili i progetti per mancanza di studenti che si iscrivono. Il tempo scuola per l’apprendimento chiede selezione e approfondimento, mentre la strada scelta è quello dell’aumento delle ore con la copertura degli spazi di vita delle persone.

Alla fine ci troviamo dentro un vagare senza meta o dentro una riforma epocale fatta per piccoli passi continui?