Il racconto come aiuto allo sviluppo cognitivo, affettivo ed etico-valoriale

Il racconto come aiuto allo sviluppo cognitivo, affettivo ed etico-valoriale

di Immacolata Lagreca

 

Introduzione

È spesso consuetudine della maggior parte delle scuole italiane trattare le arti narrative come qualcosa di più “ornamentale” piuttosto che necessario, insomma qualcosa con cui rendere piacevole il tempo e le lezioni. Per fortuna negli ultimi anni la narrativa sta acquistando sempre più spazio nell’ambito della didattica:

Assistiamo ormai da alcuni anni a profondi mutamenti all’interno di svariate discipline scientifiche, mutamenti a loro volta collegati a trasformazioni che hanno investito la cultura ed i modi di vivere dei paesi ad avanzato sviluppo industriale e tecnologico. Alcune discipline quali l’epistemologia, l’antropologia, la storia, la paleontologia, la sociologia, la neuropsichiatria, la psicoanalisi, e la psicologia hanno, ognuna nel proprio campo, sempre più messo in luce l’importanza del concetto di narrazione. Le storie, siano queste costruite dallo scienziato che dalla persona comune, sono apparse come modi “universali” per attribuire e trasmettere significati circa gli eventi umani[1].

La narrazione, dunque, è stata oggetto di precise analisi e di specifici studi da più punti di vista: storico-antropologico, linguistico, socio-culturale, psicoanalitico. In anni recenti c’è stato un interesse specifico per il pensiero narrativo dal punto di vista psicologico e pedagogico. Mi riferisco in particolare alle ultime opere di Jerome Seymour Bruner[2], ma anche ai trattati e alle opere scritte di accademici italiani, ad esempio ai lavori dei pedagogisti Marco Dallari[3] e Duccio Demetrio[4], al contributo della filosofa Adriana Cavarero[5] e in ambito psicologico agli studi di Andrea Smorti[6] e di Maria Sbandi[7].

Narrare rappresenta l’unico modo che l’essere umano possiede per far conoscere un accaduto o la propria storia. Non è possibile, infatti, presentarsi al mondo se non narrandosi.

Tutti i popoli della storia hanno fatto uso della narrazione. La narrazione appartiene a tutte le culture, sia quelle che conoscono la scrittura sia quelle che la ignorano. Il pensiero narrativo è da sempre una funzione del tutto normale e comune. È la più accessibile di altre forme di pensiero.

Sia la nostra esperienza immediata, quello che ci è successo ieri, sia il nostro vissuto passato sono espressi sotto forma di racconto. È dunque attraverso il meccanismo della narrazione che l’essere umano costruisce la sua realtà, il suo mondo da sempre: il racconto dà forma alla nostra esperienza.

La narrazione è quasi sempre una modalità che si esprime in modo spontaneo e inconsapevole. Il pensiero narrativo si applica fin dall’età prescolare, a partire dai tre anni. I bambini che ancora non vanno a scuola non sanno leggere e scrivere, ma sanno raccontare la loro vita, a volte anche inventando episodi mai vissuti, mettendo in mostra competenze e abilità nel creare, ma anche nel mentire). Si tratta, insomma, di una funzione fondamentale dei processi cognitivi, rafforzata dal fatto di essere legata alla sfera emotiva.

La narrazione come dispositivo interpretativo e conoscitivo

Esistono due modi principali in cui gli esseri umani organizzano e gestiscono la loro conoscenza del mondo, anzi strutturano la loro stessa esperienza immediata: il pensiero logico-scientifico e il pensiero narrativo[8]. Il primo sembra essere più specializzato per trattare di “cose” fisiche, cogliendo il genere, la regola, l’universale; il secondo per trattare delle persone e delle loro condizioni, coinvolgendo i sensi e l’immaginazione.

Il pensiero logico-paradigmaticoconsente di costruire concetti e categorie generali, di riconoscere nessi causali tra gli eventi, mentre il pensiero narrativo abbraccia  una logica legata alle  azioni umane (desideri, emozioni, affetti e credenze) e alle interazioni tra individui (regole e motivazioni sociali), questo tipo di pensiero assolve ad una funzione molto importante: da  senso e significato a quei contesti  percepiti, dal soggetto  come inspiegabili e incomprensibili, consentendo l’ attribuzione e costruzione di significato alle varie esperienze.

Le due forme di pensiero non funzionano separatamente: la distinzione non è mai netta né concreta, ma è indispensabile per orientarci di fronte alla complessità dell’oggetto studiato. Non esiste, dunque, una cultura che sia priva di entrambi, anche se alcune ne privilegiano uno rispetto all’altro.

La narrazione è il primo dispositivo interpretativo e conoscitivo di cui l’essere umano, in quanto soggetto socio-culturalmente situato, fa uso nella sua esperienza di vita[9]. Attraverso la narrazione l’essere umano conferisce senso e significato al proprio esperire e delinea coordinate interpretative e prefigurative di eventi, azioni, situazioni e su queste basi costruisce forme di conoscenza che lo orientano nel suo agire[10]:

Infatti la narrazione si occupa […] del materiale dell’azione e dell’intenzionalità umana. Essa media tra il mondo canonico della cultura e il mondo più idiosincratico delle credenze, dei desideri e delle speranze. Rende comprensibile l’elemento eccezionale e tiene a freno l’elemento misterioso, salvo quando l’ignoto sia necessario come traslato. Reitera le norme della società senza essere troppo didattica, e fornisce una base per la retorica senza bisogno di un confronto dialettico. La narrazione può anche insegnare, conservare il ricordo o modificare il passato[11].

La narrazione rappresenta anche, e soprattutto, la via attraverso cui dare forma alla propria identità. Quest’ultima si modella e si struttura mediante il narrarsi agli altri, grazie a un processo di negoziazione di significati.

L’identità narrativa, emerge tutte le volte che ci presentiamo e ci raccontiamo agli altri e a noi stessi, proprio perché lo facciamo in un modo unico e caratterizzante.  La costruzione dei significati è un processo sociale che nasce e si sviluppa all’interno di un contesto storicamente e culturalmente determinato. Il soggetto quando racconta la propria vita, attua, al tempo stesso un processo si assimilazione e distinzione dagli altri.

La narrazione come dispositivo interpretativo e conoscitivo, dunque, diventa un ponte che mette in collegamento la realtà alla mente e che media l’attribuzione di significati. Essa è portatrice di valori euristici, poiché mette in moto un processo di ricerca che tende alla stima, all’evidenziazione e al miglioramento della cosa, permettendo di riaffermare il concetto di apprendimento ad apprendere.

La funzione della narrazione

Attraverso il pensiero narrativo l’essere umano realizza una complessa tessitura di accadimenti ed eventi, utilizzando trame e intrecci paralleli e complementari, mettendo in relazione esperienze, situazioni presenti, passate e future in forma di racconto, che le attualizza e le rende oggetto di possibili ipotesi interpretative e ricostruttive. La narrazione ha quindi una funzione epistemica, ossia quella di innescare processi di elaborazione, interpretazione, comprensione, rievocazione di esperienze, accadimenti, fatti, dando ad essi una forma che renda possibile:

a) descriverli e raccontarli ad altri; 

b) tentare di spiegarli alla luce delle circostanze, delle intenzioni, delle aspettative di chi ne è protagonista; 
c) conferire loro senso e significato, collocandoli nel contesto di copioni, routine, repertori socio-culturalmente codificati. 

Secondo il psicologo cognitivista Jerome Bruner, la narrazione non è solo un piacevole passatempo, ma è uno dei meccanismi psicologici fondamentali per l’individuo e per i gruppi sociali e culturali. Le grammatiche della narrazione descrivono la struttura di questi testi che sono caratterizzati da un forte impatto emotivo e dalla trasmissione di valori e di ideali culturali.

Bruner[12] individua così nove proprietà intrinseche al pensiero narrativo, che esplicitano funzioni positive:

1. La sequenzialità: i fatti che sono narrati sono organizzati attraverso una sequenza di tipo spazio-temporale.

2.La particolarità: il contenuto delle storie è un episodio preciso.

3.La intenzionalità: è legata all’’interesse per le intenzioni umane che guidano le azioni attraverso scopi, opinioni e credenze.

4.La opacità referenziale: il narrante, solitamente, descrive “rappresentazioni di eventi” piuttosto che fatti oggettivi.  Questo perché in una narrazione le storie non devono essere necessariamente vere, ma verosimile, cioè possibili. Infatti il concetto di opacità referenziale indica che la rappresentazione ha valore, non in quanto si riferisce ad un evento concretamente esistente, ma in quanto rappresentazione dello stesso.

5.La componibilità ermeneutica: consiste nel legame esistente tra le varie parti della narrazione ed il tutto, dal quale dipende l’interpretazione fornita.

6.La violazione della canonicità: nella narrazione c’è una fase in cui le cose si snodano secondo le attese; questa viene chiamata la dimensione “canonica” della narrazione. Quando, nella narrazione, si verificano fatti inaspettati si inverte la linearità. La narrazione, quindi, affronta al tempo stesso, la normalità e l’eccezionalità. Ogni persona cerca di “normalizzare” ciò che non è ritenuto socialmente condiviso mediante la “narrazione delle sue ragioni” o delle sue intenzioni che danno un valore e un significato all’eccezionale.

7.La composizione pentadica: in ogni storia esistono almeno cinque elementi: attore, azione, scopo, scena, strumento. Se questi elementi sono in armonia tra loro, la narrazione procede in modo regolare.

8.La incertezza: la narrazione si snoda su un piano di realtà dubbio; in quanto si colloca   a metà strada tra realtà e rappresentazione, quindi gli interlocutori possono “contrattare” i significati da attribuire alla narrazione.

9.La appartenenza a un genere: ogni narrazione può essere inserita in un suo genere o stile che tende a rimanere costante.

Il racconto della fiaba come metafora della vita

La fiaba è una metafora dell’esperienza umana. Le fiabe sono la raffigurazione di concetti astratti presenti nella vita, come il bene, il male, il bisogno, la sfortuna, la morte. Le fiabe svelano tutto ciò che non può essere detto altrimenti. Come nella vita, le fiabe raccontano un percorso di crescita, un processo di individuazione pieno di difficoltà, durante il quale non si ottiene “tutto e subito”.

La fiaba dà la traccia delle rappresentazioni di sé nel mondo, ma anche dei rischi che ognuno dovrà affrontare: il principe deve partire per un lungo viaggio nel quale è costretto ad affrontare pericoli e superare prove prima di incontrare la sua principessa, insomma la foresta è grande e ci si può perdere o si possono incontrare mostri … ma il bambino capisce che è necessario vincere la paura e attraversarla.

Le fiabe sono anche storie di crudeli distacchi: il bambino comprende che qualcuno che lo ha accompagnato nella vita potrebbe lasciarlo per sempre e morire, per questo sono strumenti utili all’iniziazione alla vita[13]. Attraverso esse, il piccolo impara “indirettamente” ad andare al di là da sé, impara a superare il dato immediato, esistenziale, e comincia a mettere “a problema” il suo essere nel mondo, seguendo affascinato le vicende dei personaggi.

Per questo le fiabe, al di là della magia di cui sono cariche, indicano lo sviluppo della capacità di elaborare ipotesi e risolvere i problemi, avendo una grande qualità di favorire il processo etico-valoriale. Esse sono, ancora, manifestazione di un avanzare di pari passo con il processo conoscitivo e comportamentale che si realizza nel bambino. Esse consentono ai bambini di imparare importanti lezioni di vita vivendole attraverso il filtro di personaggi e situazioni irreali.

Ad esempio la fiaba di Pollicino, scritta da Charles Perrault (1628-1703), insegna a stare uniti nella difficoltà e, soprattutto, che con l’intelligenza si possono ottenere molte cose, anche se si è molto piccoli.

Penso anche a Pinocchio di Carlo Collodi (1826-1890), una storia alla conquista della umanità, dove si possono incontrare tanti gatti e tante volpi, dove si può rimanere intrappolati senza speranza (la pancia della balena), dove c’è un paese dei balocchi che inganna, dove c’è sempre un aiuto materno (la Fata turchina) disposta ad aiutarci ma mai a farsi prendere in giro, dove sono importanti i consigli che insegnano l’amor filiale (del Grillo) e il dovere allo studio (del Granchio), dove acquisire il senso del dovere.

Penso altresì alla fiaba dei tre porcellini, racconto tradizionale europeo di origine incerta, pubblicato per la prima volta nella metà dell’Ottocento, che affronta il tema della crescita e illustra chiaramente che non si può vivere governati dal principio del piacere e del divertimento. I tre porcellini sono la rappresentazione del bambino che cresce e la favola insegna in maniera semplice quanto sia importante agire sotto la guida del principio di realtà: la vita è piena di pericoli (il lupo famelico) e bisogna impegnarsi senza pigrizia in ciò che si fa (cosa che fa solo il terzo porcellino che costruisce una casetta di mattoni) per poterli sfuggire.

Infine penso al Brutto Anatroccolo di Hans Christian Andersen (1805- 1875), la fiaba della fiducia in sé, l’invito coraggioso a non tradire mai ciò che si è, anche quando non si ricevono conferme dagli altri. Ma anche la fiaba che insegna che nella vita ci sono delle persone “diverse” da noi, ma non per questo hanno meno valore o talenti di noi.

Indubbiamente, dunque, le fiabe insegnano la vita e l’arte del vivere, preparano a comprendere la coesistenza conflittuale del bene e del male in ogni azione umana, aiutano a entrare in contatto con i problemi della vita e insegnano ad affrontarli efficacemente[14]. Non a caso in un discorso pronunciato nel 1970, in occasione del conferimento del prestigioso Premio Andersen, Gianni Rodari riprese un concetto scritto nel suo La freccia azzurra[15]: la narrazione delle fiabe, sia quelle vecchie sia quelle nuove, possono contribuire a educare la mente, perché la fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo.

La narrazione a scuola

La scuola è il luogo dove si impara. La scuola è un contesto ben delimitato, finalizzato all’apprendimento. Fine della scuola è quello di “preparare al mondo”, ossia quello di fornire le competenze che servono per affrontarlo.

Se pensiamo che fin da piccolo l’essere umano, di qualsiasi provenienza culturale, è in grado di apprezzare le storie e che è sotto la forma della storia che egli gioca ed esprime il suo mondo, si capisce che la narrazione svolge una funzione pedagogica essenziale e, a giudicare dalla sua tenuta nei secoli, fa bene alla mente rispettando il suo naturale processo di funzionamento. Per questo l’utilizzo della narrazione a scuola è un processo che aiuta sia l’apprendimento sia la “preparazione al mondo”. Oltre a tutti i vantaggi strutturali della narrativa, occorre ricordare che essa consente di andare al cuore dei significati non soltanto esistenziali, ma anche sociali.

Per aiutare gli allievi, suggerisce Bruner, che gli insegnanti devono partire dal cuore della narrazione: la crisi. Insegnare a partire da crisi, passate e attuali. Indagare sulle cause, sulle motivazioni. Identificare i protagonisti, analizzare i valori che sottendono le loro azioni e le loro decisioni, estrarre intenzioni e moventi, riconoscere le particolarità, l’eccezione. Determinare i tempi e i luoghi in cui si snodano in modo sequenziale i cambiamenti del reale. Abbozzare delle soluzioni, un possibile futuro.

Quando si parla di narrazione non ci limita ovviamente alla sola narrazione di tipo verbale ovviamente, l’operazione narrativa, infatti, può avvenire attraverso vari canali, dal linguaggio parlato, alla scrittura, all’immagine video e così via. Per questo diventa uno strumento utile a scuola.

Lo strumento narrativo può essere pensato anche come approccio multidisciplinare, in quanto esso non si identifica soltanto con la storia fantastica, ma consente la rappresentazione di contenuti e l’acquisizione di linguaggi specifici che appartengono al racconto storico, geografico o scientifico.

Insegnare con la narrativa non significa insegnare stimolando solamente o soprattutto il pensiero narrativo. La narrativa didattica, se di buona qualità, è in grado di integrare e stimolare entrambe le modalità di pensiero: per questo motivo può essere applicata con successo anche a quelle materie dove è indispensabile utilizzare la logica paradigmatica tradizionale[16].

A maggior ragione, uno stimolo narrativo è l’ideale per stimolare l’approccio con le nuove tecnologie, anche per i bambini più piccoli.

Considerando il fatto che l’attività cognitiva del bambino è inscindibile dalle sue emozioni, considerando anche che la relazione con l’adulto rimane irrinunciabile nello sviluppo globale del bambino, la narrativa (ma anche il gioco) sono sicuramente gli strumenti ideali per mediare l’avvicinamento dei bambini più piccoli a materie “difficili” e alle nuove tecnologie.

Per la sua forte valenza emotiva, la narrazione ha importanti e positive implicazioni sul piano psicologico. Quando ascoltiamo o raccontiamo una storia, ci sentiamo emotivamente coinvolti e possiamo gestire le nostre emozioni attraverso modalità adeguate di espressione. I bambini si sentono gratificati da un’attività motivante e apprendono senza che la loro autostima subisca contraccolpi perché vivono la narrazione come un’attività ludica, che non crea loro ansia e non li pone in competizione con i compagni di classe con la richiesta di prestazioni al di sopra delle loro possibilità. Possiamo quindi comprendere come la metodologia della narrazione possa essere adottata efficacemente anche con alunni che evidenziano caratteristiche speciali e bisogni particolari.

Per questo, sul piano formativo, la narrazione costituisce un efficace mezzo di riflessione per la costruzione di significati interpretativi della realtà e dunque per la diffusione di valori culturali; sul piano educativo, essa rappresenta un formidabile strumento per l’apprendimento, permettendo l’organizzazione del pensiero per scambiare esperienze e conoscenze attraverso l’attivazione di molteplici abilità: cognitive, linguistiche, mnemoniche, percettive, attentive.

Sostiene Bruner: «Solo la narrazione consente di costruirsi una identità e di trovare un posto nella propria cultura. Le scuole devono coltivare la propria capacità narrativa, svilupparla, smetterla di darla per scontata»[17], poiché per la crescita dell’individuo è indispensabile individuare la propria identità culturale e sociale.

Vediamo nello specifico il nesso positivo che si instaura tra la narrazione e la formazione.

La narrazione e la formazione

Il processo formativo è sempre e comunque peculiarmente narrativo: si racconta e ci si racconta, altrimenti il sapere sarebbe condensabile, specialmente oggi, in supporti cartacei o magnetici, più o meno miniaturizzati, il processo formativo è invece intrinsecamente relazionale e nella relazionalità la negoziazione del proprio sé con quello altrui è elemento di vitale importanza, in questo senso la narrazione può trovare la propria validazione come strumento di formazione. Ma oltre al ruolo di strumento si può supporre alla narrazione una valenza di soggetto del processo formativo, il narrare le storie dell’impresa può essere, ad esempio, lo strumento migliore nelle attività formative tese a motivare o a costruire valori ed obiettivi condivisi, il narrare la propria storia si sgancia, con i contributi teorici degli ultimi anni, dal contesto terapeutico per riferirsi a quello che possiamo definire, genericamente, il contesto dell’empowerment (la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale).

Il narrare formativo è la costruzione di significati, la costruzione di realtà possibili, non soltanto confinate nel mondo del virtuale, ma anche del futuribile.

Recentemente un testo importante come quello curato da Kaneklin e Scaratti[18] ha ribadito il valore della narrazione come strumento indispensabile per la costruzione di significati e per la facilitazione dei processi di cambiamento sociale ed organizzativo. Il punto di vista narrativo risulta infatti connesso alla modalità esperite dai soggetti di attribuzione di senso agli eventi e alla realtà. Inoltre

consente di ricollocare la funzione formativa all’interno di una duplice tensione, che si tratta costantemente di alimentare e regolare: quella inerente la prospettiva di restituire ai soggetti una maggiore capacità di collocarsi, grazie alla formazione, all’interno di processi più generali e complessi, individuando percorsi e storie esistenziali e lavorative più soddisfacenti e significative[19].

Se alla funzione formativa si assegna, nella nuova ottica della formazione continua, un valore di empowerment individuale, di implementazione delle capacità di riduzione della complessità o perlomeno di “governo” della complessità stessa, se è vero, come sostiene (in un altro dei molti libri che in questo periodo fioriscono sul raccontarsi) Daniel Taylor, che ognuno è il prodotto delle storie che ha ascoltato, vissuto e anche di quelle che non ha vissuto[20], allora risulta inevitabile nei contesti

formativi trovare spazio alla narrazione, come oggetto, strumento e soggetto del processo.

Ci sembra fondamentale il contributo della pedagogia narrativa, in questo senso, pedagogia narrativa che non significa semplicemente implementare l’utilizzo della narrazione tramite storie, romanzi, racconti… nell’educazione la narrazione non deve essere oggetto, ma soggetto del percorso educativo ovvero

il narrare come forma costitutiva e principio epistemologico dell’elaborazione pedagogica. Come dire: educare narrando, dare un impianto narrativo al percorso educativo, concepire l’educazione non solo come tempo e luogo delle spiegazioni, della trasmissione del conoscere, ma anche come ascolto reciproco tra soggetti narranti la cui identità è anzitutto un’identità narrativa.[21]

L’uomo odierno ha “sete” di narrazione perché nella narrazione ritrova spazio e tempo per la propria vita.

La formazione crediamo quindi non possa rinunciare alla propria dimensione intrinsecamente narrativa, in almeno tre direzioni:

– una formazione composta essenzialmente di narrazioni, che sappia valorizzare cioè la dimensione narrativa dei “contenuti”: raccontare l’impresa, raccontare la motivazione, raccontare la comunicazione, ma persino raccontare l’informatica;

– una formazione pedagogica, esperta nell’analisi delle narrazioni, preoccupata di tenere deste le capacità narrative della comunità civile, che miri ad insegnare, ad ascoltare narrazioni ed a produrre narrazioni. Ecco l’educazione alla memoria, ad una memoria collettiva socialmente legittimata come chiave di lettura anche di periodi di crisi;

– una formazione al diario, all’autobiografia (forse l’ambito più indagato dei tre) che

non è solo un modo di raccontarsi, un disvelamento a sfondo narcisistico, o una spiegazione/giustificazione post hoc delle scelte compiute nel corso dell’esistenza. […] infatti, scrivere la propria storia è un modo per apprendere qualcosa su di sé. Scriverla perché sia letta è un modo per formare altri alla comprensione di sé[22].

Tre direzioni, che sono anche motivazioni, e che possono essere assunte come proprie dalla formazione, come un augurio per l’apertura del prossimo millennio, perché si comincino a raccontare storie e non si abbia paura, in tanti ambienti di essere capiti, di raccontarsi, di raccontare, di fondare anche narrazioni che abbiano la pretesa di non spiegare qualcosa, come i grandi testi fondativi di utopie e religioni, ma di aggiungere senso.

Conclusioni

Concludendo questo lavoro, si può affermare che le narrazioni aiutano lo sviluppo cognitivo, affettivo ed etico-valoriale. L’aspetto cognitivo del bambino è sviluppato attraverso l’arricchimento della conoscenza, l’ampliamento degli orizzonti intellettuali e culturali, l’esercizio di pensiero, stimolando la formazione di idee, sollecitando le facoltà logiche, affinando lo spirito critico e l’autonomia di giudizio e potenziando le capacità linguistiche ed espressive; l’aspetto affettivo è potenziato grazie al fatto che i racconti sviluppano e risvegliano emozioni e sentimenti, arricchiscono la fantasia e sollecitano l’immaginazione; l’aspetto etico-valoriale è impreziosito dall’attivazione di processi di identificazione essenziali per l’interiorizzazione di modelli, norme e valori nonché per l’acquisizione di adeguate norme comportamentali.

L’uso dei racconti dunque riporta a un apprendimento attivo, in grado di stimolare il senso critico e di aprire la mente all’accoglienza di tutte le discipline. L’uso dei racconti a scuola, inoltre, oltre a permettere una sinergia fra le materie di studio, può favorire l’integrazione dei ragazzi con bisogni educativi speciali.

Il raccontare è in definitiva una modalità di interazione con il bambino assai ricca di potenzialità. Gli scambi comunicativi che l’accompagnano e la notevole circolazione di informazioni che caratterizzano questa attività incentrate sul materiale scritto, sono oggi riconosciuti fondamentali non solo ai fini dello sviluppo del linguaggio orale, ma anche della letto-scrittura, della memoria e in generale per la crescita conoscitiva ed emotiva del bambino.

Il racconto non è solo utile a scuola, ma anche nelle relazioni fuori dal contesto scolastico, per questo raccontare e ascoltare racconti sono utili perché servono a stimolare continuamente processi di elaborazione, interpretazione e comprensione del nostro Io, riempendo la nostra vita dalle emozioni.


Bibliografia

Benini E., Malombra G., Le fiabe per affrontare i distacchi della vita, Franco Angeli, Milano 2008.

Bettelheim B., The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tales, Knopf, New York 1976, trad. it. Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 2001.

Borruso F., Fiaba e identità, Armando, Roma 2005.

Bruner J., A Study of Thinking, John Wiley & sons, New York, 1956. trad. it. Il pensiero. Strategie e categorie, Armando, Roma, 1969.

Bruner J., Acts of Meaning, Harvard University Press, Cambridge 1990, trad. it. La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

Bruner J., Actual minds, possible words, Harvard University Press, Cambridge 1986, trad. it. La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1988.

Bruner J., The culture of education, Harvard University Press, Cambridge 1996, trad. it. La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1996.

Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997.

Cerasoli A., Diamo i numeri. Tre tappe nel mondo della matematica,Sperling & Kupfer, Milano 2007.

Cerasoli A., Matematica amica, Feltrinelli, Milano 2016.

Dallari M., Testi in testa. Parole e immagini per educare conoscenze e competenze narrative, Erickson, Trento 2012.

Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaele Cortina, Milano 1996.

Kaneklin C., Scaratti G. (a cura di), Formazione e narrazione, Cortina, Milano 1998.

Knowles M.S., La formazione degli adulti come autobiografia, Cortina, Milano 1996.

Mantegazza R. (a cura di), Per una pedagogia narrativa, EMI, Bologna 1996.

Rodari G., Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973.

Rodari G., La freccia azzurra, Editori Riuniti, Roma 1964.

Sbandi M. (a cura di), La narrazione come ricerca del significato, Liguori, Napoli 2003.

Smorti A, Il pensiero narrativo, Giunti, Firenze 1994.

Smorti A. (a cura di), Il sé come testo, Giunti, Firenze 1997.

Smorti A., Narrazioni. Cultura, memorie, formazione del Sé, Giunti, Firenze 2007.

Tarozzi M. (a cura di), Il governo della TV. Etnografie del consumo televisivo in contesti domestici, Franco Angeli, Milano 2007.

Taylor D., The healing power of stories. Creating Yourself Through the Stories of Your Life, Doubleday, New York 1996, trad. it. Le storie ci prendono per mano. L’arte della narrazione per aiutare la psiche, Frassinelli, Piacenza 1999.


[1] A. Smorti (a cura di), Il sé come testo, Giunti, Firenze 1997, p.10.

[2] Si farà riferimento spesso in questo lavoro allo psicologo statunitense Jerome Bruner.

[3] Cfr. i suoi La comprensione narrativa, in M. Tarozzi (a cura di), Il governo della TV. Etnografie del consumo televisivo in contesti domestici, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 153-160; Testi in testa. Parole e immagini per educare conoscenze e competenze narrative, Erickson, Trento 2012.

[4] Cfr. il suo Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaele Cortina, Milano 1996.

[5] Cfr. il suo Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997.

[6] Cfr. il suo Il pensiero narrativo, Giunti, Firenze 1994.

[7] Cfr. il testo collettaneo da lei curato: La narrazione come ricerca del significato, Liguori, Napoli 2003.

[8] Lo psicologo statunitense Jerome Seymour Bruner li chiama pensiero propositivo o paradigmatico e pensiero narrativo. Cfr. J. Bruner, A Study of Thinking, John Wiley & sons, New York, 1956. trad. it. Il pensiero. Strategie e categorie, Armando, Roma, 1969.

[9] Cfr. J. Bruner, Actual minds, possible words, Harvard University Press, Cambridge 1986, trad. it. La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1988.

[10] Cfr. A. Smorti, Narrazioni. Cultura, memorie, formazione del Sé, Giunti, Firenze 2007.

[11] J. S. Bruner, Acts of Meaning, Harvard University Press, Cambridge 1990, trad. it. La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 62-63 (ora 2000).

[12] Cfr. J. Bruner, Il pensiero. Strategie e categorie, cit.; Id, The culture of education, Harvard University Press, Cambridge 1996, trad. it. La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1996.

[13] Cfr. E. Benini, G. Malombra, Le fiabe per affrontare i distacchi della vita, Franco Angeli, Milano 2008.

[14] Cfr. sull’argomento B. Bettelheim, The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tales, Knopf, New York 1976, trad. it. Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 2001; F. Borruso, Fiaba e identità, Armando, Roma 2005.

[15] Editori Riuniti, Roma 1964. Cfr. anche dello stesso autore, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973.

[16] Ad esempio Anna Cerasoli, ex insegnante di matematica, ha scritto numerosi manuali scolastici scrivendo di matematica in forma narrativa. Tra i suoi libri: Diamo i numeri. Tre tappe nel mondo della matematica,Sperling & Kupfer, Milano 2007; Matematica amica, Feltrinelli, Milano 2016.

[17] J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, cit., p. 55.

[18] C. Kaneklin, G. Scaratti (a cura di), Formazione e narrazione, Cortina, Milano 1998.

[19] Ivi, p. XI.

[20] D. Taylor, The healing power of stories. Creating Yourself Through the Stories of Your Life, Doubleday, New York 1996, trad. it. Le storie ci prendono per mano. L’arte della narrazione per aiutare la psiche, Frassinelli, Piacenza 1999.

[21] A. Nanni, La pedagogia narrativa: da dove viene e dove va, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, EMI, Bologna 1996, p. 40.

[22] L. Formenti, Prefazione all’edizione italiana di: M.S. Knowles, La formazione degli adulti come autobiografia, Cortina, Milano 1996, p. X.