L’accoglienza deprivata delle sue radici profonde

L’accoglienza deprivata delle sue radici profonde

di Vincenzo Andraous

Da qualche tempo parlare di accoglienza significa rischiare di perdere il proprio diritto di cittadinanza, scatenare un pandemonio, uno stillicidio di aggettivi e sostantivi a poco prezzo, giudizi e condanne a priori, esternazioni che tranciano di netto qualsivoglia rendicontazione della ragione, ciò che ha necessità di eccellere è il colpo di maglio dell’indifferenza. Tutto il resto è noia o quasi. Eppure non ci trovo niente di buonista nell’accogliere, accompagnare, formare, rendere una vita nuova a chi vita non ha avuto mai, soltanto una qualche sopravvivenza. A mio avviso buonismo becero è non badare ai numeri, alle quantità, alle occupazioni arbitrarie e alle disoccupazioni intellettuali, mentre accogliere quanti sono in fin di vita, quanti non ce la fanno proprio più a sopportare i ceppi dell’ingiustizia, quanti torturati e umiliati piangono senza più lacrime, quanti sono ridotti a piccole cose, senza più alcun valore, non ha parentela alcuna con chissà quale terribile e mal disegnata  inondazione dell’essere. Noi siamo un paese che non è mai venuto meno al proprio dovere civile di aiutare chi sta messo peggio di noi, tanto meno ci siamo mai sottratti alle leggi scritte e fin’anche a quelle non scritte del mare, della terra e del cielo, men che meno alla propria coscienza. I reati calano, le carceri soccombono al sovraffollamento, i poveri aumentano ma invece ci rassicurano siamo un po’ più ricchi, gli sbarchi non consegnano più carne umana, eppure le città e le periferie sono spazi adibiti alla replicanza inarrestabile dei solitudinarizzati. Insomma tutto fa brodo per inscenare qualche speculazione politica, per fare stare al fondo del barile tutto e il contrario di tutto, a 65 anni sto comprendendo il significato di accoglienza, non perché mi sono  deciso a ingrossare le fila  del buonismo sociale, piuttosto perché  accogliere significa accettare la fatica di una prossimità, non soltanto tra me e te improvvisamente sulla stessa strada, ma perché il cuore, la testa, la pancia, stanno connessi, quando di mezzo c’è la persona, il suo dolore, la sua disperazione, e non soltanto per rimarcare il confine ultimo della propria coscienza. Accoglienza non sottende la prevaricazione dell’altro, neppure il buonismo che è destinato al  botto, bensì significa riconoscere l’altro, riconoscere chi sta davvero peggio, chi ha davvero bisogno di aiuto, quella solidarietà costruttiva che costa fatica e sudore e non solamente il furbesco spreco di denari. Non sono accettabili le accoglienze  politiche, tanto meno quelle ideologiche, neppure è accettabile rimanere prigionieri di quanto non condividiamo, sebbene comprendiamo la sofferenza di donne, bimbi, uomini innocenti, costretti a rischiare le loro vite per un sogno destinato a morire.