conseguenze gravi dalla sanatoria nella scuola

da Il Sole 24 Ore

di Andrea Gavosto*

Il giorno prima delle elezioni europee, il ministro dell’Istruzione, università e ricerca, Marco Bussetti aveva annunciato l’assunzione a tempo indeterminato di 55mila precari della scuola. La tempistica era smaccatamente elettorale, ma la promessa era concreta. Alla base vi era infatti una trattativa già avviata in aprile fra il governo e quasi tutte le sigle sindacali, che si è chiusa l’altro ieri.

Si tratta dell’ennesima sanatoria? Sì, con conseguenze gravi da almeno tre punti di vista.

In primo luogo, si viola il principio – ribadito con enfasi pochi mesi fa dallo stesso ministro – che alla scuola, come a ogni pubblica amministrazione, si accede con un concorso uguale per tutti. Secondo l’intesa, invece, i precari privi di abilitazione all’insegnamento che negli ultimi anni hanno lavorato almeno 36 mesi avranno due strade agevolate per entrare presto in ruolo. Attraverso un concorso straordinario, abilitante e riservato soltanto a loro, che ne porterà in cattedra circa 24mila. Oppure addirittura senza concorso, al termine di un corso di abilitazione straordinario (Pas) svolto nelle università. Si torna così – in modo clamoroso – a una pessima pratica di tanti governi, che ha permesso l’ingresso all’insegnamento attraverso molteplici canali: accanto ai concorsi ordinari, che dovrebbero essere la regola, concorsi o percorsi riservati, graduatorie provinciali a esaurimento, ecc. La stratificazione di percorsi eterogenei, per rispondere a esigenze episodiche o a vantaggio di singoli gruppi, ha avuto e ha effetti negativi sulla scuola: fra queste, le continue “guerre” fra diverse categorie di docenti, ma soprattutto l’impossibilità di un adeguato e uniforme controllo sulla qualità dei nuovi insegnanti.

Ed è, infatti, l’assenza di una verifica delle competenze disciplinari e didattiche di chi entra in ruolo la seconda critica ai due percorsi della sanatoria. È comprensibile volere ridurre l’enorme numero di supplenti annuali – che sfiorerà i 200mila nel prossimo anno scolastico – in tempi più rapidi di quelli che consentirebbe una seria revisione dei percorsi di formazione e reclutamento, ormai incapaci di tenere il passo del cospicuo flusso di pensionamenti di un corpo docente molto anziano. Ma perché rinunciare a verificare che i neoassunti, che resteranno in cattedra altri 25-30 anni, soddisfino requisiti professionali essenziali, come la padronanza degli strumenti didattici o la capacità di gestire la classe? Abbiamo sostenuto – né siamo i soli – che i 24 crediti universitari in discipline psicopedagogiche e didattiche oggi richiesti per un concorso ordinario sono un requisito del tutto insufficiente per garantire un’adeguata qualità. Ebbene, l’accordo fra Bussetti e sindacati abbuona ai precari da assumere anche questo blandissimo requisito: chi è stato in classe per almeno 180 giorni è ipso facto un buon insegnante e merita un percorso di stabilizzazione in discesa.

Discutibile alla luce delle regole vigenti, la misura va inoltre in direzione contraria a quella verso cui la scuola italiana dovrebbe muoversi. Per superare i ritardi di apprendimento dei nostri studenti nei prossimi vent’anni serve un corpo docente rinnovato e di qualità elevata. A questo scopo, non occorre solo rendere l’insegnamento appetibile ai migliori laureati – in particolare, a quelli nelle materie in cui c’è particolare carenza – grazie a incentivi retributivi e a una seria prospettiva di carriera. Sarebbe anche necessario estendere l’orario di lavoro a scuola, in direzione del tempo pieno. Con effetti positivi sia sul contrasto alla dispersione, che è in ripresa, sia sugli apprendimenti, grazie a metodologie più adatte alla classe e corsi di sostegno/potenziamento per chi ne ha bisogno. I docenti italiani di scuola secondaria devono insegnare 18 ore alla settimana, meno della media dei Paesi Ocse; soprattutto, hanno pochissimi obblighi contrattuali per tutto il resto, a partire dall’aggiornamento professionale. Un nostro professore ha un impegno di circa 700 ore all’anno, meno della metà del suo collega tedesco, francese e spagnolo. Fortunatamente, per senso del dovere tanti lavorano e si aggiornano a casa. Ma non è la regola né può esserlo in un sistema che vuole migliorare. Senza un rapporto di lavoro più sano, fatto di un maggior riconoscimento della professionalità e dello sforzo dei docenti, ma anche di impegni espliciti e trasparenti, non colmeremo il ritardo della nostra scuola.

*Direttore Fondazione Agnelli