Gli stipendi degli insegnanti

Gli stipendi degli insegnanti

 di Nicola Puttilli

Può apparire sorprendente, nel contesto di misure volte ad arginare il debordante debito pubblico del nostro Paese, la raccomandazione dell’Unione Europea di procedere con sollecitudine a sostanziali aumenti di stipendio agli insegnanti. In realtà, con questo inatteso suggerimento, i commissari europei dimostrano di non essere, come sostengono i nostri lungimiranti governanti, ciechi burocrati unicamente votati al pareggio di bilancio, bensì di conoscere bene come, da più di un ventennio, funzionano le cose nelle economie della conoscenza.

Studi e ricerche di tutto il mondo sono lì a dimostrare che crescono le economie dei paesi che investono in formazione e ricerca e che la risorsa più preziosa per lo sviluppo è il capitale umano declinato in termini di competenze per il futuro (digitali e discipline “STEM” ma non solo: problem solving collaborativo, imparare ad imparare, resilienza, interculturalità, ecc.).

Solo i nostri governanti non se ne sono accorti e hanno continuato a tagliare, con coerenza degna di miglior causa, i finanziamenti alla scuola per oltre vent’anni, fino all’attuale paradosso del secondo Paese manifatturiero d’Europavergognosamente penultimo negli investimenti in formazione ( né ha cambiato linea il governo del cosiddetto cambiamento, anzi, con tagli di ulteriori 400 milioni nell’ultima legge di bilancio e la scomparsa della stessa scuola dai radar della politica che conta).

Non sorprende che in tale contesto, aggravato da una crisi ormai più che decennale che ha determinato il blocco totale dei contratti, anche gli stipendi degli insegnanti siano rimasti al palo, ultimi tra quelli dei Paesi a cosiddetta economia evoluta.

Del resto, se è vera la premessa, non può stupire la conseguenza di un sistema scolastico che arranca con forti squilibri interni, tassi ancora elevati e in aumento di dispersione e disagio nelle aree di maggior sofferenza del mezzogiorno e delle periferie urbane, analfabetismo funzionale, forti disallineamenti tra le richieste di un mercato del lavoro sempre più esigente e un’offerta formativa incapace di fornire competenze adeguate.

I tentativi di riforma che si sono succeduti nell’ultimo quarto di secolo (da Berlinguer a Renzi, passando per l’autonomia scolastica, la grande incompiuta) sono stati sistematicamente affossati da una burocrazia ministeriale tanto pervasiva e incompetente quanto del tutto refrattaria a cedere le proprie quote di potere, non meno che da una classe docente tanto innovatrice a parole quanto conservatrice nella pratica didattica e professionale quotidiana.

Nonostante, infatti, i generosi tentativi di rinnovamento presenti nella nostra scuola fin dagli ormai lontani anni ’70 (che ci ha lasciato leggi come la 820, la 517, gli stessi decreti delegati), la didattica quotidiana non si è mai sostanzialmente discostata dal solito circuito: lezione frontale, studio individuale, interrogazione, valutazione. Circuito che inevitabilmente conferma e valorizza solo alcune competenze, privilegiando, tra l’altro, quelle provenienti dal contesto socio culturale di provenienza e riproducendo di fatto i meccanismi di selezione sociale.

Lungi dal voler demonizzare la lezione frontale e lo studio individuale, che conservano la loro importanza, le esperienze dei Paesi che ottengono i migliori risultati ci parlano di una didattica che alterna la lezione frontale, non più momento centrale, alle attività laboratoriali e multimediali, ai lavori di gruppo, alle attività sportive ed espressive in spazi dedicati e attrezzati, senza mai dimenticare la dovuta attenzione alle dinamiche psicologiche e relazionali. Di altro non si tratta, in definitiva, se non della vecchia pedagogia “attiva” trasferita in contesti e ambienti di apprendimento attualizzati, così come aggiornate risultano le competenze da coltivare.

Non che non esistano esperienze simili anche nel nostro Paese, ma restano le classiche eccezioni all’incrocio, non troppo frequente, fra enti locali illuminati, dirigenti visionari ed insegnanti particolarmente preparati e motivati.

Perché l’eccezione diventi la regola ci vorrebbe una riforma, questa sì epocale, capace di stanare gli insegnanti dalla rassicurante e ripetitiva routine verso una nuova professionalità altamente qualificata, in grado di rispondere alle nuove esigenze.

Si tratta di un percorso che richiede una seria programmazione in tempi necessariamente lunghi e risorse ingenti in termini di formazione, iniziale e in servizio, di riqualificazione degli ambienti di apprendimento e di retribuzione del personale e,pertanto, di una scelta politica di indirizzo e di lungo periodo. 

Una rivoluzione copernicana del modo di insegnare non si può fare, del resto, con aumenti di poche decine di euro, pur restando la motivazione intrinseca un fattore determinante,ma con stipendi in grado di attirare le migliori energie intellettuali del Paese; così come una didattica radicalmente rinnovata non può coesistere con spazi organizzati sulla semplice moltiplicazione delle aule, in scuole, per di più, che spesso cadono a pezzi.

Un percorso di questo tipo, lontano da tempi e modi usuali della nostra politica, vuol dire recuperare decenni di ritardo sullo sviluppo scolastico del nostro Paese e mettere la scuola al centro del processo di sviluppo, come obiettivo di civiltà e di rilancio del processo economico e produttivo.

Una recente ricerca della Fondazione Agnellicalcola un risparmio di due miliardi all’anno nel prossimo decennio dovuto al decremento demografico che già da quest’anno incide sulla formazione delle classi di scuola dell’infanzia e di scuola primaria e che, nei prossimi anni, investirà anche le scuole secondarie di primo e secondo grado. Sono risorse che devono restare all’interno della scuola e non, ancora una volta, estorte per altre finalità. Una prima base, opportunamente implementa con ulteriori risorse, fino al raggiungimento della media degli investimenti europei, per un rinnovamento radicale della nostra scuola.

Sì, quindi, ad aumenti sostanziosi degli stipendi degli insegnanti come l’Europa suggerisce, ma finalmente legati a un diverso modo di fare scuola e a una diversa idea della professionalità docente, in linea con le esperienze internazionali più innovative e di maggior successo. 

Certamente si tratterebbe di un percorso lungo i cui esiti devono essere apprezzati con gradualità, l’importante è avere un progetto compiuto e cominciare con percorsi seri di formazione del personale e di riconversione e riqualificazione degli ambienti di apprendimento.