Concorsi, corsi e ricorsi

Concorsi, corsi e ricorsi

di Ivana Summa

E’ raccapricciante il dibattito di questi giorni sulla prossima emananzione di un concorso, dopo quasi un quindicennio, per reclutare circa 12.000 insegnanti.

Sbalordisce il ministro che con la sua dotta ingenuità ci ripete che il concorso serve per reclutare dei docenti giovani e migliori, per ripristinare il merito e, soprattutto, per tener fede alla Costituzione. E, ovviamente, per migliorare la qualità dell’istruzione.

Sconcerta la reazione dei sindacati di categoria e delle varie associazioni di insegnanti precari inseriti in graduatorie e in fasce di accesso al cosiddetto ruolo (ovvero contratto a tempo indeterminato), che stanno scatenando la guerra per difendere il territorio conquistato giorno per gorno, anno per anno, supplenza per supplenza.

Stupisce il fatto che non si discuta su quale professionalità debba avere oggi un insegnante, ed anzi emerge con chiarezza la vecchia idea di docente erudito fino all’inversimile (si pensi alle domande poste nei test per l’accesso al cosiddetto TFA), riverniciato con un po’ di informatica e di lingua straniera. Il Test preselettivo, poi, non è finalizzato ad intercettare i migliori, bensì a “scremare” la platea di concorrenti. Se lo scopo è questo, un sorteggio effettuato con una metodologia statisticamente testata costerebbe molto meno ed avrebbe gli stessi risultati casuali del test. Tanto per “scremare”.

Proviamo a dar conto del raccapriccio, dello sbalordimento e dello sconcerto che si fonda – mi scuso perché forse non sono né un tecnico né un politico – sul fatto che ho fatto il capo d’istituto per molti anni e in tutti i gradi dell’istruzione, ho fatto formazione e ricerca e credo di avere una qualche competenza (non solo conoscenza) sulle questioni riguardanti la funzione docente e la connessa professionalità.

Dal momento dell’annuncio del concorso a cattedre, sulla stampa nazionale non si contano le pagine dedicate all’imminenza di un evento che finalmente vedrebbe l’ingresso a scuola di bravi insegnanti, e a conferma di ciò si intervistano studiosi ed opinionisti di varia provenienza, tutti cooncordi che un concorso di questo genere sia quanto mai opportuno. Bene, l’esperienza e la ricerca suggeriscono che i bravi insegnanti si riconoscono quando sono a scuola e in classe, a prescindere da come sono stati reclutati, se hanno la patente concorsuale o quella ope legis. Anche gli insegnanti che sono entrati in ruolo provenienti da qualche graduatoria (ogni anno ne avevo almeno un paio) a volte si sono rivelati eccellenti (alcuni provengono da carriere universitarie per loro impercorrebili, da concorsi superati qualche decennio prima, dalla abilitazione all’insegnamento conseguita in una SSIS, da anni di insegnamento nelle scuole paritarie…) e talvolta meno, ma posso fare le stesse affermazioni per gli insegnanti entrati in ruolo con un concorso. Insegnanti, gli uni e gli altri, che magari conoscono bene la loro disciplina ma che possono avere vistose carenze sul piano della relazione educativa o sul piano della didattica, per non parlare di aspetti quali le competenze valutative e la capacità di lavorare con gli altri docenti della stessa disciplina o con i colleghi dei consigli di classe, la capacità di fare ricerca-azione, di comunicare con le famiglie e via di questo passo. Per farsi un’idea di che cosa significhino tali competenze basta leggere l’ art.23 del CCNL 26-5-1999 (poi ripreso da tutti i contratti successivi) che riportiamo per chi l’avesse dimenticato “il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica”.

Forse, gli estensori della bozza di decreto per bandire il concorso non l’hanno letto perchè l’accertamento della prova scritta riguarda soltanto “la padronanza delle discipline” mentre quella orale, oltre ad un nuovo accertamento riguardante la suddetta padronanza, accerta “le competenze di trasmissione delle discipline”. E tutto il resto? Diamo per scontato che la professionalità docente sia un’enciclopedia di conoscenze disciplinari e non, invece, un insieme complesso di competenze che si acquisiscono soprattutto con la pratica intelligente dentro una comunità professionale, con l’aggiornamento continuo e con la ricerca? Per non contare il ruolo che hanno la motivazione ad esercitare una professione, l’impegno costante, la consapevolezza di esercitare una funzione sociale rilevante, e perfino la vocazione?

Se, finalmente, si partisse da una concezione dell’insegnare e dell’insegnante di cui ha bisogno la nostra scuola oggi e in futuro, comprendendo che il setaccio iniziale costituto dal concorso è scarsamente correlato con l’esercizio di una professione che da anni chiede di essere ripensata profondamente, allora si capirebbe che il nuovo concorso recluterà, con la vecchia/nuova modalità concorsuale, insegnanti già “vecchi” sia per come è stata pensata ab imis la professione sia perchè, per i titoli di accesso richiesti, saranno favoriti docenti dall’età anagrafica di una certa consistenza.

Se non si mettono a fuoco gli obiettivi da perseguire non si comprende neanche come perseguirli, e allora si antepone la soluzione (il concorso) per risolvere problemi che non sono stati “istruiti” inizialmente. E non ci vuole nè un astrologo nè un profeta per prevedere che si creeranno nuovi problemi: nuove spese (i concorsi costano!), nuovi precari, nuovo contenzioso e via di questo passo. Si rimanderà la valutazione di quelli in servizio ipotizzando chesiano già bravi e/o che non si possa fare nulla per coloro che manifestano carenze nell’esercizio quotidiano della professione docente? E, allora, come si pensa di investire sul capitale professionale esistente nelle nostre scuole che, se non adeguamente supportato con investimenti per sostenere la formazione in servizio, è destinato a diventare obsoleto anche se adesso fosse eccellente? L’insegnante deve continuare ad investire da solo e con i propri soldi per uno sviluppo professionale che, pur restando patrimonio del singolo, di fatti rientra in circolazione come patrimonio della scuola? Possiamo provare a premiare quelli che valutiamo essere bravi (a proposito, a cosa è servito il progetto “Valorizza”?) e non facciamo nulla per aiutare tutti i docenti a diventare bravi perchè tutti gli studenti hanno diritto ad avere insegnanti di alto livello. E’ questa la giostra che abbiamo messo in moto da alcuni decenni e che in questi ultimi anni continua a girare senza senso!

Che fare, dunque? La soluzione sarebbe a portata di mano e migliorerebbe la situazione della scuola, tutelando il precariato e facendo, contemporaneamente, il concorso. Infatti, basterebbe porre mano alla normativa riguardante il cosiddetto “periodo di prova” e “l’ anno di formazione ” – risalente, peraltro, ai decreti delegati del 1974, aggiornata ed integrata di anno in anno con apposite circolari – si comprende subito che l’uno e l’altro sono mere formalità che, salvo casi eccezionali, si concludono con il passaggio in ruolo. Perchè, ad esempio, non si interrompe questa ritualità e si riorienta il servizio prestato nell’anno di formazione e di prova dai docenti precari annualmente immessi in ruolo, facendolo concludere con un vero e proprio concorso? Un concorso in cui un team di valutatori – non una commissione costituita da docenti in pensione – valuta per davvero il servizio prestato (ciò, inoltre, potrebbe rappresentare anche un’utile esperienza per mettere a punto un modello di valutazione per gli insegnanti già in servizio) in relazione a tutte quelle competenze richieste dal profilo professionale contrattualmente previsto e molto coerente con la professionalità docente che serve davvero nelle nostre scuole.

La scuola oggi attraversa una fase epocale di transizione che per certi aspetti prescinde dalle recenti riforme ordinamentali perchè coinvolge tutti i sistemi formativi e non solo del nostro paese, perchè riguarda la funzione educativa della scuola prima ancora della funzione di istruzione, perchè per molti versi ha a che vedere con un nuovo modello di sviluppo economico e con il destino dell’uomo e del nostro pianeta.

Ma se occorre molto coraggio per pensare il nuovo, quanto ne occorre per realizzarlo? Forse troppo per chi ci governa, e allora è meglio puntare su meccanismi già collaudati anche se sappiamo che funzioneranno poco e male.