Perché, siamo tornati analfabeti?

Perché, siamo tornati analfabeti?
Ronchey e il preteso analfabetismo degli studenti

di Gabriele Boselli

L’articolo di Silvia Ronchey “Perché siamo tornati analfabeti” sulla Repubblica del 12 Luglio contiene un durissimo attacco alla scuola italiana, evidentemente quella di Stato, sostenendo che questa sia la principale responsabile della dealfabetizzazione contemporanea.

Questa è invero riscontrabile, ma è effetto (e di ritorno concausa) di fattori di ben altro ordine di potenza e qui solo accennabili: la dittatura dell’economico, la miseria intellettuale di buona parte del politico, la riduzione del campo e del raggio intenzionale del soggetto tardomoderno, il trionfo del non-pensiero o twitter-pensiero prodotto e veicolato dai media elettronici. Nascosta ma di notevole forza di appesantimento  la matrice inerente alla struttura intima della lingua inglese –con le sue inevitabili semplificazioni- sottostante alle logiche economiche  nonché a tutta la letteratura giornalistica e a parte di quella accademica.

Detto, ciò, il Nostro sbaglia nel configurare le dimensioni del fenomeno e soprattutto nel tristamente consueto addebitarne la colpa alla scuola postsessantottina; sbaglia soprattutto per basarsi principalmente sui dati INVALSI, il famigerato istituto nazionale per la valutazione noto per la falsificazione oggettivistica del reale attraverso test. I dati Invalsi non rispecchiano lo stato delle cose ma solo la parte riscontrabile attraverso i test, ovvero quella inerente al pensiero convergente, senza –necessariamente dato il mezzo usato- alcuna presa in considerazione di quanto la scuola produce nel suo sviluppare il pensiero critico e creativo.

I nostri insegnanti e dirigenti scolastici non sono –a parte qualche poveraccio- “indifesi, non rispettati, demotivati” anche se i media così amano dipingerli. Sono solitamente di alto valore culturale e didattico, amano le discipline che insegnano e vogliono bene ai loro alunni, anche a quelli che non corrispondono. Certamente una parte di loro –quelli entrati in servizio senza concorso o per pronuncia di irresponsabili TAR o CdS o per semplice diritto di stagionatura nelle graduatorie permanenti- non è all’altezza del compito. Tuttavia sono pochi e danneggiano soprattutto l’autorappresentazione della scuola e l’immagine pubblica.

Per la mia lunga esperienza di maestro elementare, dirigente e ispettore scolastico posso dire che i nostri studenti sanno mediamente non solo leggere ma capire benissimo e criticare quel che vien loro dato da leggere. Anche al Sud. Il problema è semmai che leggono poco, distratti come molti sono dai media elettronici e insidiati dal pensiero a sintassi  ipersemplificata che questi diffondono.

Vi è poi il problema, comune ad altre amministrazioni dello Stato –escluse per fortuna le forze armate -dell’invecchiamento della forza docente e dirigente a causa della riduzione del turnover degli ultimi quindici anni.

Ci si può consolare dell’articolo della Ronchey leggendo nella pagina successiva di Repubblica la recensione di una professoressa, Annarita Briganti, al testo  Il latino? Serve a dirci chi siamo. Anche se il latino ci fu rubato dai politici, abbiamo continuato a pensare con le matrici di pensiero di quella lingua. Gli amici dell’INVALSI pensino pure in inglese.

Qualche parola sugli anni settanta

L’attacco Ronchey colpisce anche il ’68 e quel che ne seguì. Questo periodo rappresentò per noi giovani di allora e per la storia culturale e scolastica d’Italia e d’Europa un anno scardinante e cardinale: i cardini sono il necessario ancoraggio del movimento ma anche le condizioni di possibilità di ogni evoluzione.

Leggevamo molto e scrivevamo molto, specie su ciclostile; formavamo controcorsi. Ricordo con orgoglio un affollato controcorso di Metafisica, spaziante da Gorgia ad Heidegger, organizzato da noi studenti nella facoltà di Magistero di Urbino.