Perché il potere ha tolto le parole ai nostri ragazzi

da la Repubblica

di Gianfranco Carofiglio

Un numero enorme di ragazzi non è capace di comprendere un comune testo in lingua italiana. È un’incapacità che certo dipende dalle carenze del sistema scolastico ma che affonda le sue radici in un terreno più vasto. Quello della progressiva perdita di senso del dibattito pubblico, dell’esibito disprezzo che taluni politici e talune forze hanno per la responsabilità connessa con l’uso del linguaggio.

Sembra concretizzarsi nel nostro Paese l’inquietante fenomeno che Humpty Dumpty illustra ad Alice in un passo celebre diAttraverso lo specchio.

«Quando io uso una parola» disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, «questa significa esattamente quello che decido io… né più né meno».

«Bisogna vedere» disse Alice «se lei può dare tanti significati diversi alle parole».

«Bisogna vedere» disse Humpty Dumpty «chi è che comanda… è tutto qua».

Quando si ha a che fare con le parole — dice l’interlocutore di Alice — una cosa sola importa: chi comanda, chi è il padrone.

L’impressionante inettitudine messa in luce dai risultati dei test Invalsi è a un tempo causa ed effetto di questo fenomeno: giovani incapaci di capire il significato di discorsi elementari sono i destinatari ideali per la propaganda dei demagoghi e dei populisti di ogni risma. E la propaganda volgare, violenta, carica di disprezzo per i significati, caratterizzata da una programmatica povertà del lessico è uno degli acceleratori dell’ignoranza, dunque dell’inadeguatezza democratica.

In nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in democrazia: la democrazia è discussione, è ragionamento comune, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni.

La ricerca scientifica ha dimostrato un’inquietante rapporto fra povertà del linguaggio e assenza di possibilità: i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. Non sono capaci di gestire una conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione — il tono, il lessico, l’andamento — in base agli interlocutori e al contesto, non fanno uso dell’ironia e della metafora, non sanno nominare le proprie emozioni. Spesso, non sanno raccontare storie. Mancano della necessaria coerenza logica, non hanno abilità narrativa: una carenza che può produrre conseguenze tragiche nel rapporto con l’autorità, quando è indispensabile raccontare, descrivere, dare conto delle ragioni, della successione, della dinamica di un evento.

Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando mancano le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, allora manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi.

La violenza incontrollata è uno degli esiti possibili, se non probabili, di questa carenza. I ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per liberarli e liberarsi di sofferenze a volte insopportabili: la violenza fisica. Chi non ha i nomi per la sofferenza la agisce, la esprime volgendola in violenza, con conseguenze spesso tragiche.

Nelle scienze cognitive questo fenomeno — la mancanza di parole, e dunque di idee e modelli di interpretazione della realtà, esteriore e interiore — è chiamato ipocognizione. Si tratta di un concetto elaborato a seguito degli studi condotti negli anni Cinquanta dall’antropologo Bob Levy. Nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scoprì che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale, e pertanto quando lo provavano non erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense e (per loro) incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio. L’abbondanza, la ricchezza delle parole, il loro essere munite di significati è dunque una condizione del dominio sul reale: e diventa, inevitabilmente, strumento del potere politico.

Per il filosofo John Searle le società vengono costruite e si reggono, essenzialmente, su una premessa linguistica: sul fatto, cioè, che formulare un’affermazione comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso.

Le società nelle quali prevalgono le asserzioni vuote di significato, nelle quali i politici (e soprattutto i politici al governo) non hanno alcuna percezione dei doveri connessi all’uso del linguaggio, sono in cattiva salute: in esse, alla perdita di senso dei discorsi, consegue una pericolosa caduta di legittimazione delle istituzioni e in definitiva un grave pericolo per la democrazia.

L’analfabetismo funzionale di tanti ragazzi è un effetto di molte cause e rischia a sua volta di diventare la pericolosa premessa di uno svuotamento della democrazia. Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è dunque un lusso da intellettuali, una questione da accademici, un problema di chi si occupa delle politiche e delle pratiche dell’educazione. È un dovere cruciale della politica e dell’etica civile.

C’è un inquietante rapporto fra povertà del linguaggio e assenza di possibilità: i giovani più violenti non sanno conversare, non conoscono ironia e metafore, non sanno nominare le emozioni. Sono vittime perfette dei demagoghi

Gianrico Carofiglio, ex magistrato ed ex senatore, è uno dei più amati scrittori italiani. Il suo ultimo romanzo è La versione di Fenoglio