Una scuola per l’Europa: perché e come

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Una scuola per l’Europa: perché e come

Relazione svolta da Maurizio Tiriticco al convegno “Ricostruiamo un’idea di scuola” organizzato dall’ANDIS, Associazione Nazionale DIrigenti Scolastici in Laceno (AV) nei giorni 11-12-13 luglio 2019

In questa società, quello che ci appassiona e ci inquieta, e può spiegare anche le relazioni di rifiuto che essa suscita, è che porta all’estremo il ruolo della creatività umana, al punto che quest’ultima non è più soltanto concepita come l’interpretazione di una civiltà materiale, ma diventa il significato più generale dell’intera società. Finora le nostre attività erano consistite nelle trasformazioni della natura, cosa che vale sia per le società rurali sia per quelle industriali; le società ipermoderne, invece, si basano su un logos più che su una praxis, cioè su una pratica sociale, come avveniva nelle società precedenti. Di conseguenza, esse si impongono per la loro stessa natura. Si tratta di un aspetto nuovo della società in cui stiamo entrando.

Alain Touraine, In difesa della modernità, pag. 189, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019

Negli ultimi anni molte riforme hanno interessato la nostra scuola, o meglio il nostro Sistema – con tanto di maiuscola – di Educazione, Formazione e Istruzione. Occorre ricordare che nel nostro Paese è estremamente riduttivo oggi parlare di scuola in termini generali. Infatti – sono ormai passati vent’anni – il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, relativo al “Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche”, all’articolo 1, comma due, testualmente recita: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

Quattro sono le parole chiave di questo documento: EDUCAZIONE, FORMAZIONE, ISTRUZIONE, SUCCESSO FORMATIVO. A mio vedere, poteva essere aggiunta un’ulteriore parola chiave: la CITTADINANZA ATTIVA, e con una forte sottolineatura: il fatto, cioè, che oggi – e sempre più domani – non è più sufficiente essere e sentirsi cittadini italiani, ma anche e soprattutto cittadini europei. E ciò in un momento della nostra storia patria in cui forti ventate sovraniste, neonazionaliste, antieruropee stanno imperversando sul nostro Paese e su altri Paesi dell’Unione.

Questa Unione Europea, invece, dobbiamo conservarla e rafforzarla, se vogliamo far fronte seriamente ai complessi fenomeni che stanno interessando oggi non solo il nostro continente ma l’intero pianeta. Alludo, ad esempio, al riscaldamento globale. Al rischio, cioè, che i cambiamenti climatici possano rendere ancora più drammatico il gap già esistente tra i ricchi e i poveri, e tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri! Infatti, stiamo affrontando sull’intero pianeta – ed a volte senza rendercene l’esatto conto – un insieme di fenomenologie molto complesse. Che non afferiscono in senso stretto alla politica, all’economia, come si è soliti pensare. Riguardano fenomeni che vanno ben oltre le monete, i commerci, i confini politici, i rapporti tra popoli e Stati, come da sempre li abbiamo conosciuti e studiati. Siamo alle prese con un fenomeno del tutto nuovo, non solo per i popoli ed i loro governi, ma per l’intero pianeta, per come è costituito e come da sempre siamo abituati a conoscerlo. Appunto! Il riscaldamento globale! Che non è un fenomeno da articolo di giornale! O da dibattitto televisivo! Si tratta di ben altro! Il fatto che popolazioni intere siano costrette a lasciare le loro terre per trovare altrove non ricchezze, ma la semplice sopravvivenza. Abbiamo tutti studiato sui libri di storia – quando ancora era considerata una materia importante – il fenomeno delle migrazioni! Quella ad esempio che nostri Antichi Romani definirono le invasioni barbariche! Ed in effetti non si trattava tanto di barbari, capaci soltanto di balbettare – come pensavano i Romani – ma semplicemente di migliaia di persone, intere etnie, che parlavano altre lingue! Che alle orecchie dei Romani suonavano soltanto come incomprensibili balbettìi.

Oggi si prevede che entro il 2030 il riscaldamento globale potrebbe spingere 120 milioni di persone in situazioni di sempre maggiore povertà e di denutrizione. Si rischia di fatto uno scenario che potremmo definire di apartheid da clima, con i ricchi che pagano per sfuggire al riscaldamento globale, mentre i poveri sono abbandonati a loro stessi e a soffrire: oppure costretti ad emigrazioni epocali, delle quali in effetti abbiamo già i primi segnali. Uno scenario sul quale si è espresso recentemente Philip G. Alston, un noto studioso australiano di diritto internazionale, e fortemente impegnato per i diritti umani. Il quale lamenta che in realtà sono i popoli più poveri quelli che producono meno emissioni di gas serra, quei gas responsabili di fatto del cosiddetto riscaldamento globale. E che, invece, sono proprio loro a pagare e a dovere abbandonare le loro terre. In materia vi sono anche rigorosi studi pubblicati dalla Banca Mondiale, da altre agenzie dell’Onu e da Organizzazioni non governative. E’ confermato che i popoli più poveri sono quelli che producono meno emissioni di gas serra, ma che rischiano di dover pagare gli effetti maggiori dei cambiamenti climatici, per di più senza avere la capacità e gli strumenti per potersi difendere.

Si prevedono situazioni gravissime! Esodi di massa e crisi alimentari per intere popolazioni. Alston afferma tra l’altro: “I cambiamenti climatici rischiano di distruggere 50 anni di progressi fatti nel campo dello sviluppo, della salute globale e della riduzione della povertà”. Ed ha anche criticato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, perché si limita soltanto ad organizzare convegni e pubblicare e diffondere rapporti: spesso lunghi e pletorici e scarsamente propositivi. Mentre invece dovrebbe ricercare e indicare modi e forme per spingere i governi ad agire urgentemente sul fronte del clima. Tutto ciò ci dice che ormai il fenomeno migratorio non può essere né contenuto né combattuto, ma governato. Un governo che non comprende la complessità del fenomeno e che si limita a chiudere le frontiere, di fatto ha la vista corta. E adotta una politica che con il tempo medio-lungo si dimostra fallimentare.

Per quanto riguarda noi europei, dobbiamo prendere atto che la cosiddetta Europa delle Nazioni ha fatto il suo tempo. Per secoli i singoli Stati si sono combattuti. Fino alla più disastrosa catastrofe che l’umanità abbia mai conosciuto. Occorre sempre ricordarlo! Dal lontano 1945 noi Europei abbiamo vissuto un periodo non solo di pace, ma anche di prosperità e di progresso. Ora però dobbiamo fare i conti con una nuova emergenza! Che del resto è planetaria. Ciò che avviene ai confini meridionali degli Stati Uniti è sotto gli occhi di tutti. Ed anche ciò che avviene ai confini meridionali del nostro continente. In realtà giorno dopo giorno milioni di persone nel mondo intero si stanno spostando dal Sud al Nord. Le ragioni sono complesse ed in parte ho cercato di definirle. Ma la ricerca scientifica su tale complesso fenomeno la lascio al sociologo, all’antropologo, all’economista, al politologo. Però – ed ecco il grande problema – l’intervento per fronteggiare il fenomeno appartiene al politico! Ma, se il politico ha la vista corta e non è in grado di comprendere la natura del fenomeno per affrontarlo con misure adeguate, non solo il fenomeno non viene risolto, ma rischia di provocare effetti imprevedibili ed anche devastanti. Oggi di fatto i confini delle Nazioni o, se si vuole, delle Patrie, se vogliamo adottare questa espressione molto ottocentesca, molto risorgimentale, sono un reperto da libro di storia!

A fronte di questa complessa realtà, così in fermento, così in movimento, sembra che la nostra scuola – o meglio, il nostro Sistema Nazionale Educativo di Istruzione Formazione, di fatto parole grosse e impegnative – non sia particolarmente attenta a cogliere il nuovo ed agire di conseguenza, ma continui a vivacchiare – vivere è un verbo troppo edificante – come ieri, come l’altro ieri! Le innovazioni introdotte nell’ultimo esame di maturità, grazie all’intervento del Professor Serianni, in realtà – a mio vedere – sono interventi di facciata, non di autentico e produttivo cambiamento! Ma in effetti è tutto il nostro sistema di istruzione che làtita a fronte del nuovo che incalza. Si parla ormai da anni di competenze, forse perché – è un consumato adagio – ce lo chiede l’Europa. Così in genere si suol dire! Anche perché poi, secondo una certa vulgata, l’Europa sarebbe la cattiva maestra che ci dà sempre brutti voti e che ci bacchetta. E si parla di anche di traguardi delle competenze. Ma quali competenze? Vengono forse concretamente certificate alla fine di un percorso scolastico di ben tredici anni i concreti saper fare di Antonio e di Luciana? E vengono forse concretamente certificate con un esame che ci ostiniamo ancora a chiamare di maturità, anche se una legge ormai lontana nel tempo ne ha cancellato sia la parola che il concetto? Una norma che in realtà non ha lasciato alcun segno, come spesso avviene nella scuola nel nostro Paese! E non solo nella scuola!

Voglio rileggere quella norma che avrebbe dovuto riformare radicalmente gli esami di maturità. Si tratta della Legge 10 dicembre 1997, n. 425, concernente, appunto, “Disposizioni per la riforma degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore”. All’articolo 6 leggiamo testualmente: Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni al fine di dare trasparenza alle COMPETENZE, CONOSCENZE e CAPACITA’ acquisite, secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea”.

In primo luogo, dunque, dare trasparenza alle competenze! Quelle che il Ministero avrebbe dovuto individuare e declinare, ma, caduto il Governo di centro-sinistra, con l’avvento di un nuovo governo e di un nuovo Ministro, Letizia Moratti, assistita dal suo consigliere, il Professor Giuseppe Bertagna, il discorso delle competenze venne di fatto abbandonato. Nel frattempo però, l’Europa marciava in materia di competenze e, con la Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo del 18 dicembre 2006 individuava e declinava, come quadro di riferimento europeo, le cosiddette competenze chiave per l’apprendimento permanente. Ecco l’incipit di quello storico documento:

“Dato che la globalizzazione continua a porre l’Unione europea di fronte a nuove sfide, ciascun cittadino dovrà disporre di un’ampia gamma di competenze chiave per adattarsi in modo flessibile a un mondo in rapido mutamento e caratterizzato da forte interconnessione. L’istruzione nel suo duplice ruolo — sociale ed economico — è un elemento determinante per assicurare che i cittadini europei acquisiscano le competenze chiave necessarie per adattarsi con flessibilità a siffatti cambiamenti”. Per la prima volta vennero individuate e descritte otto competenze chiave. Le prime quattro afferenti alle fondamentali discipline di insegnamento; le altre quattro assolutamente nuove per tutte le scuole d’Europa ed incidenti sullo studente anche soprattutto come cittadino attivo. Eccole: “5, imparare ad imparare; 6, competenze sociali e civiche; 7, spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8, consapevolezza ed espressione culturale”. Nel corso degli anni queste competenze hanno subito continui miglioramenti. Nell’ultima edizione, risalente al 22 maggio 2018, le otto competenze sono state declinate così: 1) competenza alfabetica funzionale; 2) competenza multilinguistica; 3) competenza matematica e competenza in scienze, tecnologie e ingegneria; 4) competenza digitale; 5) competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare; 6) competenza in materia di cittadinanza; 7) competenza imprenditoriale; 8) competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali. In effetti queste otto competenze, che tutti i giovani dell’Unione Europea dovrebbero raggiungere ed acquisire al termine dei loro studi, fanno sorridere a fronte di ben altre competenze di cui i nuovi cittadini d’Europa e del mondo intero dovrebbero disporre in un domani che ormai è dietro l’angolo.

Un domani cattivo, se mi è concesso questo aggettivo. A fronte del quale certi governi sembrano più occupati a erigere muri, invece di adottare politiche nuove, lungimiranti, a fronte di fenomeni che occorre governare, perché è impossibile contrastarli! Un fiume che corre impetuoso cerca una foce, non una diga! Erigere dighe non serve! Le migrazioni hanno sempre caratterizzato la storia dell’uomo, anche se con diversa frequenza e in diversa misura. E ciò tra un periodo ed un altro che potremmo definire di bonaccia. Oggi, con l’avvio del terzo millennio, a livello planetario è in atto un fenomeno migratorio di proporzioni eccezionali! Che non si può arrestare né con i muri né con i fili spinati! Dei quali, comunque, un Donald Trump in America e un Viktor Mihály Orbán in Europa sono sapienti architetti! E’ un fenomeno complesso, che va in primo luogo compreso! E in secondo luogo governato! In primo luogo dall’Onu, ovviamente, ma… esiste una coesa e attiva organizzazione delle nazioni? Non so! Mi preme ricordare quanto poco o nulla fece tanti anni fa l’allora Società delle Nazioni per evitare che un esaltato come Hitler, convinto che la sola pura etnia ariana dovesse governare il mondo, scatenasse la seconda guerra mondiale e l’avvio dell’eccidio di tutte le etnie che non fossero ariane. Intanto oggi i fenomeni migratori riguardano tutti i continenti. Il Sud del mondo si muove verso il Nord del mondo! Fenomeni complessi che non si possono affrontare a livello di singoli Paesi o di intese tra più Paesi! Ma a livello transnazionale! E, a questo proposito, viene da chiedersi: ma l’ONU che fa? Assolutamente nulla!

Ma non voglio andare oltre! Intendevo soltanto sottolineare quali sono i problemi che affliggono oggi non solo noi Italiani, ma l’intera umanità. Ebbene! A fronte di tali problematiche la scuola – di ciascun Paese, almeno tra quelli cosiddetti avanzati – avrebbe il dovere primario di preparare le nuove generazioni ad affrontare con le dovute CONOSCENZE, ABILITA’ e COMPETENZE ciò che le attende in un domani prossimo venturo. Ed occorrerebbero ministri dell’istruzione sensibili a tali problematiche e capaci di proporre ai rispettivi sistemi scolastici di potere e sapere affrontare i difficili orizzonti che un avvenir malfido ci sta preparando. Ma ciò non avviene, almeno nel nostro Paese. In effetti, il nostro Ministro dell’Istruzione che fa? Ha pensato di rinnovare l’esame di Stato, che tutti si ostinano sempre a chiamare ancora di maturità. Ovviamente, perché è un esame che non certifica competenze, come invece dovrebbe essere, fin dalla lontana e dimenticata riforma del 1997. In effetti, con tutto il rispetto che si deve al Professor Serianni, il nuovo esame si limita a fingere di proporre prove scritte pluridisciplinari, con due testi a fronte, e di rinnovare colloqui con la scelta di misteriose bustine! Ma ciò non sorprende più di tanto! Il nostro popolo è ormai abituato da anni al gioco delle bustarelle!

Mi piace proporvi un interessante articolo di Luciano Benadusi, pubblicato su “Il Corriere della Sera” dello scorso 26 giugno dal titolo “Una scuola senza qualità genera rabbia sociale e populismo”. Vi si afferma che la povertà e la disuguaglianza educativa tanto più sono oggi un fattore trainante del nazional-populismo in quanto si sommano con la povertà e la disuguaglianza economica. Vi si legge tra l’altro: “Un’analisi dei dati raccolti nel tempo dalla Swg, una nota agenzia di ricerca, ci porge un quadro a chiaroscuri, non privo di aspetti preoccupanti. Alla domanda su quanto ha inciso la scuola nel determinare una serie di attitudini rilevanti su questo terreno (“il suo modo di relazionarsi con le idee degli altri”, “il suo modo di informarsi” ed altre simili), le risposte positive dei giovani appaiono nettamente in calo rispetto alle precedenti generazioni. Viceversa aumenta l’influenza della cultura giovanile, cioè degli amici, e dei social che spesso veicolano fake news, linguaggi e ragionamenti iper-semplificati ed emotivi, hate speeches. Di qui una grande sfida per l’istruzione: divenire sempre più luogo di formazione del pensiero informato, critico, argomentativo e riflessivo applicato alla sfera socio-politica e a quella dei new media. Si può pure partire dal dispositivo sull’educazione civica approvato di recente dalla Camera… Ma la mission dell’educazione ai valori, alle regole e alle pratiche della liberal-democrazia è troppo sfidante e complessa per venire delegata ad un solo insegnante ed in un orario rigidamente delimitato. E non divenire invece un impegno condiviso da tutti i docenti, e da assolvere ciascuno nella sua materia o insieme ad altri in ben progettate attività interdisciplinari”.

Insomma, Benadusi non solo ipotizza una scuola che non esiste, ma che in effetti, difficilmente può esistere finché al Ministero dell’Istruzione non accedano personalità della forza e della cultura di un De Sanctis o di un Gentile. Ne consegue che l’amministrazione della nostra scuola nazionale è sorda ai compiti che dovrebbe assolvere e si compiace invece di avviare riformette che generano solo nuovi interrogativi più che risolvere problemi.

Purtroppo, in un contesto/scenario così complesso sia sotto il profilo del panorama europeo che sotto quello mondiale, il nostro sistema scolastico è quello di sempre, quello costituito dalle rigide classi di età, dalle promozioni e dalle bocciature, da orari scanditi per discipline, da voti decimali, arricchiti per altro dalla fantasia di tanti nostri insegnanti. Che – extra legem – si sono inventati i più, i meno, i meno meno, i mezzi ed altre strambe soluzioni. E i registri di sempre, anche se oggi elettronici! Se dobbiamo preparare le nuove generazioni alle sfide europee e mondiali dei prossimi decenni, questo nostro modello scolastico organizzativo, quello attuato dopo il 1970 da Casati, De Sanctis, Daneo, Credaro, Mancini, Scialoia e via dicendo, così resistente al nuovo che avanza e che incombe, deve assolutamente essere superato. Vige e resiste il sistema che ho sempre definito delle tre C, Classe, Cattedra e Campanella! Il sistema che deve essere superato. Nelle nostre scuole abbiamo alunni maggiorenni ancora sui banchi di sempre! Insomma, l’Europa incombe! Il mondo intero incombe! E i nostri ragazzi non possono aspettare oltre. L’esodo degli studenti migliori è già in atto! E non possiamo fermarlo!

A meno che… le tre C non vengano superate! A meno che lo studio della lingua inglese, oggi in atto fin dall’istruzione primaria, non sia organizzato come lo spezzatino orario di sempre! I nostri ragazzi difficilmente escono dalle nostre scuole con una seria padronanza di una lingua straniera. Per non dire poi della scarsa padronanza della nostra bella lingua nazionale! Umiliata e offesa da quegli orribili messaggini! Paratassi a non finire! E di ipotassi neanche l’ombra! Correttezza grammaticale? Poco o nulla. Mi piace ricordare come la nostra bella grammatica sia ripartita in fonologia, morfologia e sintassi. Solo pochi lo sanno e solo pochi purtroppo sanno parlare e scrivere con proprietà di linguaggio! Confesso che rabbrividisco, quando anche nei consueti dibattiti televisivi si fa strame della nostra bella lingua! Così faticosamente costruita nel corso dei secoli dal De Vulgari Eloquentia alle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua,di Pietro Bembo,ai Promessi Sposi e alle stesse impennate dei futuristi. Oggi ciascuno di noi parla! E scrive! Tutti parlano e scrivono, perché è tanto facile aprire la bocca o cliccare sul cellulare, quanto difficile è invece accendere il cervello.

Le sfide planetarie incombono. Per quanto riguarda il nostro Bel Paese incombe la sfida europea. Si tratta di una sfida importante e determinante per noi tutti! Noi Italiani l’Europa Unita l’abbiamo fondata, a Roma, nel lontano 1957, con De Gasperi, Adenauer, Schuman, Monnet. Si chiamava CEE, Comunità Economica Europea. Ed era costituita di solo sei Paesi: Italia, Francia, Germania Occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo. In seguito quella semplice comunità, con il Trattato di Maastricht, nel 1992 è diventata l’Unione Europea. Che oggi consta di ben 28 Paesi! Una grande potenza! Purtroppo un gigante che non ha le netta percezione della forza che ha e di quanto può valere sullo scacchiere mondiale! Le ventate sovraniste l’aggrediscono da ogni parte e rischiano di mettere in crisi un patrimonio che così faticosamente abbiamo costruito nel corso di ben sessantadue anni! E che oggi rischiamo di disperdere! In tale scenario voglio solo sottolineare quanta responsabilità hanno oggi la nostra scuola, i suoi insegnanti, i suoi dirigenti per innescare nei nostri giovani il seme di una coscienza europea!

Io non sono un fan di Ernesto Galli Della Loggia. Ma non posso non segnalare una sua ultima pubblicazione dal titolo “L’ aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola”. Questa è la descrizione del libro che compare nel web. “Grazie non poco alla sua scuola – in particolare grazie alle sue maestre che per prime affrontarono l’ignoranza nazionale – l’Italia del Novecento, partita da condizioni miserabili, arrivò a essere tra le principali economie del mondo. Ma oggi quella stessa scuola è lo specchio del declino del paese. Abbandonata dalla politica con la scusa dell’autonomia, essa appare sempre più dominata dal conformismo intellettuale, da un’inconcludente smania di novità e da un burocratismo soffocante che ne stanno decretando la definitiva irrilevanza sociale”. Ernesto Galli della Loggia cerca di comprenderne le ragioni di tale declino indagando le origini e l’impatto, deludente quando non distruttivo, che hanno avuto le riforme succedutesi negli ultimi decenni e smontando le interpretazioni più convenzionali su cosa fecero o dissero veramente personaggi chiave come Giovanni Gentile e don Lorenzo Milani. Chi l’ha detto che cambiare sia sempre meglio di conservare? E che la prima cosa sia necessariamente di sinistra e la seconda di destra? Il libro mette sotto accusa i miti culturali responsabili della crisi attuale: l’immagine a tutti i costi negativa dell’autorità, l’obbligo assegnato alla scuola di adeguarsi a ciò che piace e vuole la società (dal digitale al disprezzo per il passato), la preferenza del saper fare sul sapere in quanto tale, la didattica attiva e di gruppo. Altrettanti ideologismi che sono serviti a oscurare il ruolo dell’insegnante, la misteriosa capacità che dovrebbe essere la sua di trasmettere la conoscenza e con essa di assicurare un futuro al nostro passato. In Europa sono uno su sei, in Italia più di uno su quattro: il 28,9 per cento dei giovani tra i 20 e i 34 anni non lavora, non studia, è fuori da qualunque percorso d’inserimento o apprendistato”

A conclusione di questa impietosa analisi, viene da chiedersi: Il nostro sistema di Educazione, Formazione Istruzione – così lo definisce la norma – è in grado di preparare cittadini nel contempo italiani ed europei? Una sola domanda: a fronte delle impetuose trasformazioni che si sono verificate e che si verificano ogni giorno nel mondo del sapere e in quello del fare, il nostro sistema di istruzione secondario è in grado di dare suggerimenti ed input autorevoli? Ha ancora senso la tripartizione di sempre, che va dai licei destinati ai “bravi”, agli istituti tecnici per i “così così” e infine ai professionali per gli sfigati? Ricordo ancora le minacce di mia madre quando frequentavo la quinta elementare, anni trenta: “Maurizio studia! Devi superare l’esame di ammissione al ginnasio! Altrimenti devo iscriverti all’avviamento”. Ed era la scuola all’avviamento al lavoro, ovviamente manuale.

Oggi le sfide sono ben altre! Lo scenario ha dimensione transnazionale ed in primo luogo europea. Ovviamente non penso che la soluzione sia quella di licealizzare l’intero secondo grado di istruzione. Ma di rendere più autorevoli i percorsi tecnici e quelli professionali. Utilizziamo un acronimo internazionale: il sistema VET, o meglio il Vocational Education and Training. Ebbene: il sistema VET italiano è prevalentemente centrato su percorsi scolastici (l’Istruzione tecnica e l’Istruzione professionale), mentre il sistema VET tedesco è prevalentemente centrato su percorsi di formazione professionale in alternanza, nei quali risulta decisivo il ruolo delle aziende come luoghi di apprendimento. In altri termini, in Italia, la contaminazione con il lavoro non deve essere percepita come una sorta di diminutio capitis, ma come un’occasione in più per apprendere in concomitanza con ciò che un mondo del lavoro sempre più informatizzato e tecnologico richiede.

In conclusione, quando si parla di una scuola per l’Europa, il problema non è soltanto una più puntuale conoscenza delle istituzioni europee da parte dei nostri studenti, ma una loro più puntuale preparazione disciplinare, pluridisciplinare e culturale soprattutto, finalizzata all’accesso sia a un consesso civile che a un mondo del lavoro i cui confini sono ben oltre le Alpi! Oggi giungono fino al Capo Nord! E’ una sfida che viene da lontano, dai Trattati di Roma del 1957, e che deve prolungarsi lungo tutto il nuovo millennio!

Auguri, cara Patria Europa!

Laceno, 12 luglio 2019

Maurizio Tiriticco