La scuola è una cosa seria

da Corriere della sera
di Gian Antonio Stella

Avete mai «smussato un uovo»? C’è chi dice di averlo fatto. E il linguista Massimo Arcangeli, che da dieci anni interroga studenti universitari e liceali per uno studio sull’impoverimento linguistico italiano, dice di averne ricavato «un quadro devastante». C’è chi scrive di «adepti alla vigilanza o alla manutenzione», chi parla di «ernie al discolo», chi spiega il significato della parola alterco con questo esempio: «Non voglio quell’alterco di mio fratello». Da brividi. Su 196 matricole, un anno, 153 non conoscevano il senso di morigerato, 158 di abulico, 186 di ondivago. Non parliamo di sovranisti da spiaggia che rifiutano («usiamo i nostri!») i numeri arabi. Parliamo della classe dirigente di domani. Dice l’ultimo dossier Treellle di Attilio Oliva e Antonino Petrolino che «il livello di “analfabetismo funzionale” in Italia è del 30% della popolazione, contro il 15% della Ue mentre il livello di “competenze adeguate o elevate” è solo del 30% contro il 65%». Che col 14% di abbandoni precoci, che compromettono la vita, doppiamo l’Europa. Che l’indagine in literacy e numeracy di Ocse-P.i.s.a. sui quindicenni ci dà «sotto la media di 80 Paesi».

Ottanta! Un problema enorme: «Una popolazione sprovvista di cultura e di spirito critico è in pericolo perché soggetta a facili manipolazioni e a una sudditanza perenne». Lo conferma Nando Pagnoncelli nel suo libro La penisola che non c’è : «In Italia c’è un’evidente e innegabile distanza tra percezione e realtà, una distanza che si conferma stabilmente di anno in anno. Solo i Paesi a bassa scolarità ci hanno preceduto nelle ultime edizioni di questa classifica tutt’altro che meritoria».

Peggio ancora rischia di andare in futuro. Certo, la cattiva politica di destra e di sinistra, schiava della tattica, bada il lunedì a quanto accadrà martedì e il mercoledì a quanto accadrà giovedì e liquida i progetti più seri con la solita battuta di John Keynes: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». Ma il 2030 è domani. E nel 2030, ricorda in questi giorni un report di Tuttoscuola , avremo presumibilmente «un milione e 300 mila studenti in meno, con un turnover del 40% degli insegnanti». E le proiezioni demografiche di Eurostat, rielaborate dalla Fondazione Agnelli, «fatto 100 il numero di studenti italiani tra i 6 e i 16 anni nel 2015, prevedono che nel 2030 saranno 85». Quelli inglesi e tedeschi 109, quelli svedesi 125.

Cosa farebbe un Paese serio, davanti a un panorama angosciante come questo con la disoccupazione giovanile al 38%, cioè doppia rispetto alla media europea? Potrebbe continuare come ha fatto in questi anni a sventolare i numeri dei nostri giovani che stanno facendoci fare un figurone guadagnandosi spazio, celebrità, ruoli di prestigio all’estero. Tirandosi addosso, come già è successo, l’indignazione sacrosanta di quei ragazzi, obbligati ad andarsene da una società chiusa, anziana, incapace di rinnovarsi e di spalancare le università e la ricerca e gli ordini professionali, dove l’ascensore sociale, spiegava giorni fa il Centro Studi di Community Group e Intesa Sanpaolo, è fermo da almeno cinque anni. Oppure potrebbe darsi finalmente, come propone Marina Valensise, già responsabile dell’Istituto italiano di Cultura di Parigi, un nuovo obiettivo: «Prima la scuola».

Perché tutto si può dire, tranne che la scuola sia stata davvero in cima ai pensieri dei politici, in questi anni. Certo, nel contratto firmato dal governo giallo-verde c’erano al ventiduesimo posto varie cose per la scuola. E Matteo Salvini ha più volte toccato il tema teorizzando il ritorno alla cara buona vecchia scuola di una volta e invocando tra l’altro il grembiulino che scolari e scolarette erano obbligati a portare perché «il grembiulino non ha mai fatto male a nessuno». Ma dove mai si è vista la rivoluzione promessa?

Peggio, accusano da mesi giornali e opposizione, i tagli sono stati drastici. Rileggiamo quanto scriveva Mario Sensini a proposito dell’ultima finanziaria: «Altro capitolo molto pesante nel bilancio pubblico è quello assorbito dall’istruzione scolastica. Che si riduce, a legislazione vigente, di 4 miliardi nel triennio, cioè di circa il 10%. Si passa da 48,3 a 44,4 miliardi nel giro di tre anni, con una riduzione delle risorse sia per l’istruzione primaria (da 29,4 a 27,1 miliardi di euro) che per quella secondaria (da 15,3 a 14,1 miliardi)».

Cambierà qualcosa col governo giallo-rosso, ammesso vada davvero in porto? Così assicura Nicola Zingaretti, parlando di un «rilancio del tema della scuola e della formazione come grande priorità del Paese» e proponendo «l’idea che per i redditi medio-bassi si studino formule che rendano possibile la formazione gratuita dall’asilo nido all’università» come voleva Pietro Grasso. E così assicura Luigi Di Maio nei 20 punti estratti ieri dal cilindro come condizione per l’accordo, dove si parla di «lotta alla dispersione scolastica e al bullismo» e della necessità «prima di ogni altra cosa» di una legge per «valorizzare la funzione dei docenti», e cambiare «le classi pollaio». Le quali, dati alla mano, rappresentano lo 0,34% del totale. Per carità, nodi importanti, ma è questo il cuore dei problemi della scuola italiana in difficoltà da anni?

Possono bastare, in un contesto così preoccupante per il nostro sistema educativo e per i nostri ragazzi, che come hanno dimostrato ancora una volta le prove Invalsi arrivano spesso ad affrontare la maturità, soprattutto nel Mezzogiorno, con livelli di preparazione bassissimi, questi impegni un po’ generici a pochi giorni dall’inizio di un anno scolastico che rischia di essere caotico come nel passato?

Mah. Lo scetticismo è d’obbligo. Tanto più che il caos delle ultime settimane dovuto alle dimissioni di Salvini e alla crisi, secondo Tuttoscuola , non solo farà slittare la nuova educazione civica, «voluta da tutto il Parlamento», al prossimo anno scolastico ma lascia congelate le assunzioni dei precari «nonostante si stimi che a settembre ci saranno circa 150 mila cattedre prive di insegnante». Nuvoloni in vista: «Si preannuncia l’ennesimo carosello di docenti che colpirà un numero ancora maggiore di studenti rispetto al caos dell’avvio della “Buona scuola” renziana di tre anni fa». Ma possiamo permetterci ancora di non fare della scuola, dell’Università e della cultura il perno, l’unico che abbiamo, per il nostro riscatto?