La scuola italiana è classista: perché le polemiche distorte non la rendono migliore

USB Scuola: La scuola italiana è classista: perché le polemiche distorte non la rendono migliore

Ieri sui quotidiani è scoppiata l’ennesima polemica sul classismo della scuola italiana. Sul sito dell’Istituto Comprensivo di Via Trionfale a Roma nella presentazione dell’istituto compare una dettagliata definizione e distinzione dell’estrazione sociale degli studenti che lo frequentano, un’estrazione sociale molto differente a seconda dei plessi che lo compongono.

La polemica è però, a nostro avviso, ancora una volta distorta (non è la prima, risalgono a un anno fa quelle sulle presentazioni di alcuni licei romani), volutamente disinformata, finisce per creare ulteriore disinformazione e, soprattutto, non centra l’obiettivo.

Partiamo dai dati di fatto: ogni scuola deve riportare nel Rapporto di Autovalutazione (RAV), redatto periodicamente, presupposto del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), la carta di identità della scuola nell’idea del MIUR, la tipologia di “utenza” che la frequenta. Deve dunque indicarne, tra le altre cose, l’estrazione sociale, ricavata ogni anno, dal questionario introduttivo ai test INVALSI, che traccia con precisione le caratteristiche delle famiglie di origine, con un’intrusività e un pregiudizio, a nostro avviso, assai grave. L’istituto in questione ci dice, con un linguaggio sociologicamente estremamente discutibile, questo sì, che nei suoi tre plessi, situati in quartieri tra loro molto diversi, sono presenti studenti molto diversi per estrazione sociale. Il punto è che non scrive affatto di scegliersi gli studenti, come sostenuto da alcuni famosi quotidiani e ripreso in modo incauto dalla rete.

Il dato di fatto, in realtà, è che l’utenza di qualsiasi scuola del primo ciclo (infanzia, elementari e medie) rispecchia la struttura sociale della zona in cui si trova. Il classismo è nella società, la scuola semplicemente lo rispecchia: sta nella suddivisione tra quartieri per ricchi e quartieri per poveri, tra centri e periferie, tra quartieri ghetto e quartieri riservati alle classi dirigenti. Sta nella conformazione stessa delle nostre città, sempre più gentrificate, che espellono le classi lavoratrici ai margini, quando non direttamente in hinterland spesso molto degradati.

Attenzione, con questo non vogliamo dire che la scuola italiana non sia classista: lo è e lo è sempre stata. Nasce classista nell’idea di Gentile del 1923 e tale rimane fino a quando i movimenti e le lotte degli anni ’60 e ’70 non provano a trasformarla. Quelle lotte, unite e in parte spinte dalla scolarizzazione di massa degli anni del boom economico, la resero all’epoca più democratica, più aperta; ne fecero quell’ascensore sociale che è in parte stata, nei 30 anni della piena occupazione. Gli interventi sperimentali, mai divenuti, se non proprio nella scuola primaria, una riforma organica, hanno creato esperienze di eccellenza e di reale apertura della cultura e dei saperi a quelle classi lavoratrici che tradizionalmente ne erano escluse. Ma allora come oggi i licei del centro sono sempre stati migliori di quelli delle periferie: i figli delle classi dirigenti sono sempre andati per lo più al Liceo Classico e al Liceo Scientifico, i figli dei lavoratori andavano e vanno ai professionali, tutt’al più ai tecnici; oggi, se sono particolarmente “bravi a scuola” frequentano i cosiddetti licei deboli (scienze applicate o scienze umane, per dire) o licei di periferia, che hanno mediamente meno fondi e un corpo docente meno stabile e meno strutturato, perché sì, in Italia i docenti preferiscono insegnare in scuole che presentano meno contraddizioni che in quelle di frontiera. Probabilmente non fa onore al corpo docente, ma va di pari passo con la svalutazione della professione, con i tagli ai fondi per la scuola pubblica, con l’abbandono in cui versano gli edifici e le strutture.

La crisi economica e le scelte neoliberiste dei governi e del MIUR, scelte in linea con le richieste dell’Unione Europea, che da decenni spinge con violenza per un avvicinamento tra scuola e mercato, tra scuola e aziende, hanno ridotto di molto la capacità della scuola statale di essere un ascensore sociale, l’hanno indebolita e hanno consapevolmente intrapreso di nuovo la strada del classismo, delle scuole di serie A e di serie B. In questo senso vanno le riforme susseguitesi negli ultimi vent’anni, dalla Berlinguer del 1999 in poi, fino alla 107 del 2015 e alla conseguente riforma dei professionali: l’istruzione tecnica e professionale sono state indebolite, i licei hanno ricominciato a fare selezione di classe (se mai avevano smesso), la dimensione laboratoriale è stata distrutta, i saperi tagliati nelle scuole dove ve ne sarebbe più bisogno, è stata introdotta l’Alternanza Scuola Lavoro obbligatoria, i rapporti interni tra docenti sono stati gerarchizzati e aziendalizzati, per parlare solo degli elementi di trasformazione più eclatanti e devianti. Dunque sì, nelle scuole superiori, la politica della scuola fa la differenza. Le scuole superiori oggi non solo dividono gli studenti sulla base della loro estrazione sociale, ma in gran parte ghettizzano i più fragili per origine sociale, per vissuto, per condizione famigliare, per problematiche di salute e apprendimento in scuole dove volutamente la dimensione culturale, dei saperi e del pensiero è ridotta e indebolita.

Questa è indubbiamente una scuola di classe. Anche perché a fronte delle classifiche tanto di moda tra scuole migliori e peggiori (Eduscopio, della Fondazione Agnelli, che possiamo senza timore definire un organo di Confindustria, vero e proprio motore culturale e pedagogico di questa trasformazione devastante), dei test Invalsi e dei RAV in cui le scuole fanno presenti punti di forza e debolezza, non corrisponde affatto l’aumento di fondi, la strutturazione di piani di intervento seri nelle situazioni più difficili, la valorizzazione del lavoro dei docenti (tra i meno pagati e considerati d’Europa). Le constatazioni restano lì, al massimo permettono alla scuola di ricevere alcuni fondi per le aree a rischio, il cui impiego non è mai peraltro seriamente verificato ed è lasciato alla professionalità e buona volontà di dirigenti e collegi docenti.

In una situazione di questo tipo, per quanto la si sia tratteggiata per sommi capi, il problema non è il concetto di bacino d’utenza, ovvero il fatto che la scuola debba essere aperta in primis ai bambini e ai ragazzi che abitano nei pressi della scuola stessa, ma il fatto che questo rispecchi la strutturazione sociale dei quartieri, oggi violentemente divisi in classi, ben più di un tempo e che il Ministero e i governi non solo non investano, ma nemmeno pensino o progettino di ragionare su come rendere meno devastanti gli effetti di questa feroce divisione in classi. Il bacino d’utenza è un concetto di per sé democratico, se ogni quartiere potesse avere un numero sufficiente di scuole, la cui qualità fosse omogenea e garantita. Non è un caso che il MIUR lo abbia indebolito, istituendo il mercato delle scuole e chiamandolo “orientamento” e dando vita al marketing con cui le scuole attirano studenti mentre le accorpava in istituti di 800 – 1500 studenti, al solo scopo di risparmiare su un diritto dovere essenziale come quello all’istruzione. Che questo Stato non risponda più né ritenga di dover rispondere al dettato costituzionale, per cui la scuola deve mitigare, se non annullare, le differenze, non cristallizzarle o peggio accentuarle, è il vero problema.

Il problema è il disinteresse voluto e strategico per quelle scuole che lavorano nei contesti più difficili, l’avallare una politica urbana, sociale, scolastica che indebolisce chi è già debole, segrega chi è già ai margini. In una società improntata al classismo, al neoliberismo, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la scuola non può che essere classista, questo sì, è vero!