Si crede ancora al “Sistema delle autonomie”?

SI CREDE ANCORA AL “SISTEMA DELLE AUTONOMIE”?

di Gian Carlo Sacchi

 

Qualunque nuova iniziativa politica destinata ad intervenire sul sistema scolastico del nostro Paese deve prima evidenziare in quale prospettiva di governo del sistema stesso si andrà a collocare. Siamo in una situazione totalmente confusa; da oltre un decennio, dopo che le riforme Bassanini  avevano previsto il decentramento delle competenze statali verso i territori e le autonomie scolastiche e la revisione costituzionale che individuava la riorganizzazione degli organi repubblicani, ancora tutte da realizzare, ogni provvedimento invoca una prospettiva autonomistica ma pratica il solito centralismo burocratico.

Sebbene il centro-sinistra fosse stato l’artefice dei cambiamenti di fine secolo scorso ed il nuovo titolo quinto della Costituzione sia stato confermato da un referendum popolare praticamente nulla è stato messo concretamente in pratica nemmeno in quel breve arco di tempo nel quale la stessa maggioranza è tornata a governare a pochi anni dall’inizio del 2000. Non parliamo poi dei numerosi governi che avrebbero dovuto ispirarsi alle tre i come esempio di liberismo, finiti nel più bieco statalismo dei tagli lineari, cioè senza prestare la benché minima attenzione ai bisogni ed alle caratteristiche delle realtà territoriali. Una piccola parentesi destinata al federalismo soprattutto in campo fiscale avrebbe potuto aprire una finestra su un sistema scolastico “multilivello”, cioè legato all’unità nazionale per quanto riguardava la garanzia dei diritti individuali e sociali ed ai risultati e ad una gestione regionale – locale, rimasto lettera morta  In continuità sta operando adesso un altro governo che pare intenda ispirarsi al pragmatismo economico ed alle indicazioni europee, ma che si giustifica con la necessità di fronteggiare in tempi rapidi e con ampi margini di manovra la situazione dei conti pubblici.

Nel frattempo gli scandali che hanno coinvolto alcune regioni hanno fatto arretrare nell’opinione pubblica l’idea dell’efficacia dei governi territoriali e le stesse deliberazioni della loro Conferenza nazionale in merito alla diverse materie scolastiche evidenziano un ripiegamento sulla certezza dei finanziamenti statali, senza contare che anche i migliori risultati ottenuti in questo settore dal confronto internazionale hanno riguardato il forte investimento politico prima ancora che economico nella qualità dei loro sistemi formativi. Sono stati questi ultimi infatti i migliori interlocutori dell’Europa e del mercato del lavoro, operando anche nel campo della ricerca e dello sviluppo. Quanto lontano sembra il masterplan approvato dalle stesse Regioni nel 2009 che rivendicava il governo regionale su tutto il sistema, come indicato dalle “competenze concorrenti” del predetto titolo quinto,  fino anche al personale propiziato fin dal 2004 da una sentenza della Corte Costituzionale.

Ci si sarebbe aspettato da un governo tecnico con poche disponibilità finanziarie la lungimiranza di agire sugli strumenti della governance che non solo avrebbe cercato di sistemare quel continuo conflitto di attribuzioni, ma avrebbe potuto coinvolgere centro e periferia in un concorso di progettualità e di risorse. Tutto questo non solo non è accaduto ma la discussione della riforma delle autonomie locali in atto al Senato è stata abbandonata per una statalista spending review che ha proseguito nell’azione dei tagli lineari penalizzando i servizi senza eliminare gli sprechi; il riordino degli “organi collegiali”, rivisti nell’ottica dell’autogoverno degli istituti scolastici se devono essere veramente autonomi, continua a vivere di stenti in Parlamento: la legge appena uscita dalla Camera chissà se acquisirà la necessaria priorità per iniziare l’iter al Senato; i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) che per norma costituzionale lo Stato aveva l’obbligo di emanare sono di la da venire.

Dulcis in fundo il governo propone la controriforma costituzionale, un provvedimento difficile da far approvare in fine legislatura, che cancella non tanto negli organi quanto nelle funzioni il precedente principio autonomistico.

 

SI INDEBOLISCE LA CULTURA DELL’AUTONOMIA

Si ha la fondata preoccupazione che la cultura dell’autonomia che non più di un decennio fa veniva sostenuta addirittura da un’idea di sistema istituzionale, formato dai diritti di cittadinanza sostenuti a livello nazionale (LEP), da strumenti di programmazione e gestione a carattere regionale e territoriale, da piani dell’offerta formativa e controllo degli apprendimenti proposti dalle singole scuole in forme più o meno integrate con altre agenzie educative, imprese produttive, società civile, ecc., stia perdendo terreno, forse anche perché la E di economia (i risultati e la competitività) è ritenuta più importante della E di educazione (crescita, competenza, cittadinanza) ed il “sistema educativo” è a sua volta poco autonomo rispetto al ruolo della politica e della stessa economia.

Un tale indebolimento coglie anche le scuole e lo si vede dalla scarsa capacità di associazione per richiedere maggiore rappresentatività e intervenire direttamente nella politica scolastica, evitando ancora una volta di essere surrogate dal ministerialismo anche attraverso forme di reti obbligatorie con specifiche deleghe gestionali, come indicato in uno dei tanti provvedimenti “….per l’Italia”, del governo.

E’ paradossale, ma ad una situazione di questo genere si contrappongono diverse analisi che fanno rilevare come nel nostro Paese di fronte ad un modello ancora sostanzialmente unico vi siano notevoli sperequazioni sia nel campo degli apprendimenti e nei rapporti tra questi e le condizioni sociali e territoriali e come a livello internazionali le migliori performance siano ottenute da sistemi fortemente decentrati e legati al territorio.

L’arretramento sul fronte delle autonomie territoriali sembra essere la causa della diminuzione della qualità dell’offerta formativa: non si ha l’impressione infatti che il riordino del secondo ciclo, centralistico con lievi flessibilità, peraltro vincolate dalle “classi di concorso” dei docenti, abbia realizzato molto di nuovo nell’attività concreta delle scuole, così come le indicazioni nazionali sul primo, più centrate sull’autonomia didattica, abbiano bisogno di un rilancio locale degli “istituti comprensivi”.

Si pensi ad esempio ai servizi per l’infanzia: 0-3 e 3-6, che sono collocati dalla normativa emanata dal 2009 ad oggi tra le “funzioni fondamentali” dei Comuni, ma che senza un forte rilancio della loro qualità educativa rischiano non solo di ritornare al compassionevole welfare, ma anche essere considerati marginali nei processi di riorganizzazione degli enti locali in atto.

Sarebbe necessaria una legge di settore almeno per far uscire tali attività dal servizio così detto a “domanda individuale”, ma sarebbe altresì interessante vedere quali priorità vengono assegnate nei processi di unione degli EELL e quale spazio viene dato ai servizi educativi.

Non è raro riscontrare infatti una tendenza all’appalto, global service, alle cooperative sociali o ad altre forme di assistenza a domicilio (tages mutter, ecc.) che mancando di parametri di riferimento rischiano di indebolire anche la qualità dell’offerta formativa. Accade di frequente, per effetto dei tagli unilaterali praticati dallo Stato negli organici della scuola dell’infanzia, che convivano nello stesso edificio e nello stesso servizio provenienze professionali e modelli organizzativi molto diversi nel tentativo di fronteggiare una domanda che peraltro si differenzia molto dal passato (i genitori non hanno più infatti l’orario della fabbrica) e che spesso si accontenta del minimo accudimento, che a sua volta può venire a costare anche meno, dato anche qui il sempre più consistente intervento economico della famiglie: lo Stato taglia il personale e le risorse agli EELL; il “patto di stabilità”, ecc.

Si ricorda che la scuola dell’infanzia, pur non essendo obbligatoria, fa parte del “sistema nazionale di istruzione e formazione” sancito dalla legge 62/2000, secondo l’ottica della generalizzazione.

 

FEDERALISMO FISCALE/LEP

Una legge del 2009 (n. 49), così detta del federalismo fiscale, stabilisce che anche i suddetti servizi per l’infanzia, oltre agli altri gradi scolastici, rientrano tra le “funzioni fondamentali” della Repubblica, finanziabili interamente da parte dello Stato, sia tramite interventi diretti sulla fiscalità generale (“ciò che a tutti deve essere garantito da tutti deve essere finanziato”), sia come compartecipazione alle entrate fiscali da parte di Regioni ed Enti Locali (DPR 68/2011): l’IMU non sarebbe un’imposta comunale ? Allo Stato come indicato nella Costituzione la definizione per legge dei LEP. Rimane tuttavia aperto il dibattito su come devono essere definiti tali livelli, che non sono ovviamente quelli minimi ai quali i recenti governi hanno ridotto il sistema, da cui derivare poi i “costi standard”; per fare ciò e per monitorarne lo sviluppo occorre che risparmi e investimenti vengano concertati nella predetta ottica multilivello: così come c’è un patto per la salute, anche se le finalità sono diverse, sarebbe necessario un patto per l’educazione, anche per considerare la compatibilità finanziaria e vincolarne la destinazione: non palleggiare sui singoli provvedimenti.

Il linguaggio dei LEP dovrà servire non solo ad esplicitare gli elementi essenziali (imprescindibili) che vanno in ogni caso finanziati, ma anche a far convergere i punti di vista dei vari soggetti che operano per queste finalità sui territori all’interno delle scuole, degli enti locali e della società, per evitare che il superamento del centralismo provochi dispersione o distrazione di risorse.

 

LE PROFESSIONALITA’/LA RICERCA

Le ristrettezze ed i tagli al personale, la necessità di gestire con maggiore autonomia ed eclettismo l’offerta formativa, il ruolo della scuola e dei servizi educativi nell’intercettare il cambiamento e sostenere i bisogni degli alunni e del territorio, guardando anche agli esiti di apprendimento, dove il valore dei risultati finali è legato al valore del processo che ad essi conduce, hanno necessità di una riflessione a tutto campo sulle professionalità da impiegare e non solo sulle modalità di reclutamento.

Gli appalti e il popolo delle partite IVA affollano sempre di più uno scenario lasciato libero da un sempre minor numero di docenti assunti anche a livello precario. Forse è il caso di delimitare più il perimetro delle competenze professionali, anche in relazione al versante della sussidiarietà e dell’accreditamento di una pluralità di soggetti gestori, lasciando maggiore flessibilità alle modalità di assunzione.

Bisogna far leva su una preparazione iniziale dove la cultura pedagogica sia centrata sulle modalità di esercizio della professione; occorre andare oltre il monodosciplinarismo per intervenire su aree disciplinari che meglio si adattano ad una gestione culturale e didattica della complessità, attraversata sempre di più da tecnologie, strategie di organizzazione delle relazioni, ma anche dei saperi, dei valori di cittadinanza e di competenze professionali, nella prospettiva della long life learning.

Sarà necessario definire uno status nazionale, pubblico, ma la gestione del personale deve poter andare di pari passo con la programmazione territoriale dei vari servizi; la contrattazione quindi dovrà riguardare un orario di servizio unitario in cui la didattica possa dispiegarsi in modo flessibile, proprio per stare, come si è detto, tra la funzione universalistica della promozione culturale e la realtà sociale in cui si opera, che non faccia mai venire meno l’istanza della partecipazione e della coesione sociale.

L’organico funzionale di istituto dovrà consentire un utilizzo ottimale delle risorse ed un’azione professionale più autonoma per essere come “sistema pedagogico” in permanente sinergia con lo sviluppo del territorio a diversi livelli, in relazione alla rappresentanza che deve essere accordata alle autonomie scolastiche ed ai sistemi educativi territoriali.

Non si può più pensare ad un ritorno di dette professionalità ad una visione impiegatizia e per questo occorre che sia le leggi nazionali e regionali, sia le contrattazioni ai diversi livelli prevedano spazi e risorse per la loro formazione permanente obbligatoria, con riferimenti innanzitutto alle loro competenze non solo nell’erogazione ma anche nella ricerca ed elaborazione, a cominciare dalla capacità di documentare e riflettere sulla propria esperienza e comunicare in termini di progettualità e innovazione. C’è una funzione autonoma nei docenti riguardo alla ricerca su ciò che si fa e rispetto ai territori di riferimento, anche se è necessario sempre di più la collaborazione con università ed realtà specialistiche, oggi individuabili nella società, nel mondo del lavoro e negli stessi social network.