1.759 ore? Forse non è questo il problema

da Tecnica della Scuola

1.759 ore? Forse non è questo il problema
di Pasquale Almirante
Alcuni docenti hanno fatto un calcolo minuzioso, allegando una tabella, delle ore che i docenti impiegherebbero a scuola o comunque per la scuola: 612 ore di lezione frontale, 206 di preparazione, 75 per la correzione dei compiti, 48 per impostare le verifiche e via di seguito: un totale di 1.759 ore; 39,98 settimanali, considerando “non lavorativi” luglio e agosto.
E si è aperto il dibattito, con polemica, fra i sostenitori di questo calcolo e i contrari, compresi i docenti, mentre Lucrezia Stellacci, capo dipartimento Istruzione al ministero, dice al Corriere: “È vero, c’è chi non impiega 1.759 ore all’anno. Ma conosco tanti che dedicano dodici ore al giorno agli studenti: sono quelli che vivono il loro lavoro come una missione. C’è poi chi lo prende come una professione, e si impegna scientificamente in modo inappuntabile. E c’è infine chi lo considera un mestiere, con l’alibi che con quello stipendio non vale la pena fare più di tanto”. Il problema vero, secondo Stellacci, starebbe nel fatto che “non c’è valutazione, non c’è carriera, non c’è controllo. Tutto è affidato alla propria coscienza e alla capacità dei dirigenti di coinvolgere tutti. Penso che oggi la buona scuola si senta mortificata. Non le critico, anzi saluto l’iniziativa degli insegnanti milanesi con plauso”. E il problema non crediamo si possa limitare a questa sorta di calcolo anche perché a un nutrito gruppo di docenti, che insegnano materie solo orali, si dovrebbero defalcare le 75 ore per le correzioni dei compiti e quelle per la loro preparazione, mentre un prof di lettere sa quanto tempo deve impiegare sul tema del suo alunno, prima per capirne la grafia, poi per intervenire nella sintassi e la grammatica e infine nella comprensione dei concetti: c’è un costo standard o previsto per tale ulteriore lavoro? Per questo crediamo che il problema sia altro e quindi ogni quantificazione in orario di servizio serve solo a creare polveri sottili che però intasano il dibattito, offuscando la visione complessiva del lavoro a scuola. Quanto può essere pagato un docente che in classe ha uno o più alunni con gravi problemi di comportamento scaturiti da esempi domestici di tipo delinquenziale? O coloro che ogni giorno hanno a che fare con ragazzi i cui genitori escono e entrano dalle galere per una serie di motivi? Chi paga lo stress psicofisico di un docente contro cui bulletti di periferia scaricano tutto il loro odio contro la società che li trascura? Chi è vicino a quella docente che, dopo avere lascito il figlioletto in qualche asilo o ai genitori e con la rata in scadenza del mutuo o della macchina (che ha comparto per recarsi a scuola visto che mancano i mezzi pubblici) nella borsa, deve poi subire in classe gli attacchi di un gruppetto di facinorosi che ne hanno capito le debolezze? Chi ripaga di tutto questo certi professori? Qui è il nodo, a nostro parere, non nella quantificazione oraria per dimostrare che si lavora tanto, come in effetti si lavora, benché Stellacci dica il vero quando differenzia gruppi di docenti. Ma non solo. Si è mai pensato alle responsabilità di tipo morale, che è assi simile a quelle del giudice, quando si boccia un ragazzo costringendolo o a ripetere o a cambiare scuola, stravolgendo magari il suo futuro? Ci hanno mai pensato i legislatori a questa sottile particolarità? Alla delicatezza dunque della funzione docente, non solo nella diffusione della cultura ma anche nell’educazione dei ragazzi? Anche entro questi termini, crediamo, gli insegnanti devono far fronte agli attacchi di chi li vuole fannulloni, lavatovi e oziosi. E si badi bene, l’Italia è forse l’unico paese al mondo nel quale i docenti sono trattati così male, da tutti i punti di vista, e mai abbiamo letto di ministri d’altri Stati che li abbiano schiaffati alla pubblica derisione. Calcolare le ore di lavoro ha una sua possibile credibilità, ma è come giustificare uno stipendio che l’ex ministro dell’istruzione, Tullio De Mauro, definì “di fame”, e i docenti non hanno nulla di cui giustificarsi con l’opinione pubblica. Devono semmai, quando è il momento (vedi il mancato riconoscimento legale degli scatti di anzianità o il blocco del contratto di lavoro o la penosa condizione degli edifici scolastici o disconoscimento delle pensioni o le cecità sulle malattie professionali: burn-out, tumori alla gola, fobie e altro) armarsi di fischietti e bandiere e scendere in piazza, ma in modo compatto in modo che quando si fa la conta dei partecipanti alla manifestazione loro risultino il doppio degli studenti e non al contrario, dando così modo a Mario Monti di insinuare nell’opinione pubblica il sospetto di strumentalizzazione e corporativismo consociativo.